Voci per il Dizionario di mafia e di antimafia di Narcomafie
Voci per il Dizionario di mafia e di antimafia di “Narcomafie”
Umberto Santino
Antimafia istituzionale
La reazione delle istituzioni di fronte al fenomeno mafioso, soprattutto alle sue manifestazioni più eclatanti (l’aumento del numero dei reati, in particolare degli omicidi), si è costantemente caratterizzata come risposta all’emergenza e ha dato luogo alla costituzione di Commissioni d’inchiesta, alla produzione di provvedimenti straordinari allo scopo di fronteggiare situazioni di ordine pubblico, mentre il ricorso all’azione giudiziaria spesso si è risolto senza danni per gli incriminati.
Le prime Commissioni d’inchiesta
L’istituzione della prima Commissione d’inchiesta risale al 1867. Il termine mafia, più esattamente mafia, era comparso per la prima volta in un rapporto del prefetto di Palermo Filippo Gualterio dell’aprile 1865, con riferimento a un'”associazione malandrinesca” ritenuta “dipendente dai partiti” e in particolare collegata con gli oppositori, dai borbonici ai garibaldini, ed era stato indicato tra i capi il generale garibaldino Corrao, ucciso nell’agosto del 1863 (Alatri 1954, pp. 92-93). L’intento era fin troppo evidente: fare di ogni erba un fascio e criminalizzare tutta l’opposizione. Operazione non molto dissimile da quella che si era già tentata durante il regno borbonico: un documento famoso, come il rapporto del procuratore generale della Gran Corte Criminale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, dell’agosto 1838, metteva insieme gruppi criminali e aggregazioni della società civile siciliana, giudicate pericolose per il dominio borbonico (in Santino 2000a, pp. 138, 215-227).
Da un coacervo di forze eterogenee sarebbe nato il complotto che avrebbe portato alla rivolta palermitana del 1866. Per indagare su quell’evento fu istituita una “Commissione d’inchiesta sulle condizioni morali ed economiche della provincia di Palermo” che cominciò ad affrontare il problema della mafia attraverso le audizioni di politici, magistrati, professionisti, non riprese dalla relazione finale (Camera dei deputati 1981).
Nel 1874 il ministro degli Interni Girolamo Cantelli presenta un disegno di legge che prevede la concessione al governo di poteri eccezionali da esercitarsi nelle provincie la cui tranquillità era “gravemente turbata da frequenza di omicidi, grassazioni, ricatti” e nelle quali allignavano “associazioni di briganti, malandrini, accoltellatori, camorristi, mafiosi” (in Russo, a cura di, 1964, p. 3). La discussione, apertasi nel giugno del 1875, riguardò solo la Sicilia e vide la netta contrapposizione tra i parlamentari della Sinistra, il cui esponente Agostino Depretis aveva presentato una relazione contraria al progetto, e quelli della Destra. La Sinistra sostiene che fin dal 1860 la Sicilia si è quasi continuativamente trovata sotto governi militari e che la legge di pubblica sicurezza del 1871 prevede già amplissimi poteri, con il ricorso all’ammonizione, usata come sostitutivo dell’azione giudiziaria. Si teme che il provvedimento in cantiere voglia riportare sotto controllo una Sicilia a forte maggioranza antigovernativa (su 48, 40 sono i parlamentari dell’opposizione di sinistra eletti nell’isola). Tra gli interventi particolarmente significativo quello di Diego Tajani, che è stato procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo e si è scontrato duramente con il questore Giuseppe Albanese, contro il quale nel 1871 ha spiccato mandato di cattura per aver dato incarico a dei malfattori di uccidere due mafiosi. Il processo si era concluso con l’assoluzione per insufficienza di prove. Ora Tajani, dimessosi dalla magistratura ed eletto nelle file dell’opposizione, snocciola una serie di esempi delle compromissioni istituzionali e conclude con parole inequivocabili: “la mafia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale” (ibidem, p. 171).
Alla fine si decide la costituzione di una Commissione d’inchiesta sullo stato della pubblica sicurezza in Sicilia, che raccolse una documentazione cospicua (pubblicata molti anni dopo: Carbone-Grispo 1968) e si chiuse con una relazione del deputato lombardo Romualdo Bonfadini. Secondo il relatore “la mafia non è un’associazione che abbia forme stabilite e organismi speciali; non è neanche una riunione temporanea di malandrini a scopo transitorio o determinato; non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti e i più abili. Ma è piuttosto lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male; è la solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre l’esistenza e gli agi, non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dall’intimidazione” (in Russo, cit., pp. 182-183).
L’indeterminatezza dell’idea di mafia rispecchiava una convinzione diffusa: esistevano le associazioni di malfattori, le bande dei briganti, c’erano i cosiddetti “manutengoli” che proteggevano i malavitosi, ma non c’era la mafia come organizzazione unitaria e permanente.
Nello stesso periodo in cui la Commissione d’inchiesta svolgeva i suoi lavori i giovani studiosi Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino scesero in Sicilia per una loro inchiesta privata. Franchetti si occupa in particolare di mafia e parla di una “industria della violenza” praticata prevalentemente dai “facinorosi della classe media” che erano diventati “una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante”, la cui sussistenza e il cui sviluppo andavano ricercati “nella classe dominante” (Franchetti 1993, pp. 95, 107). Franchetti rilevava una contraddizione di fondo nell’azione dello Stato: “in Sicilia lo Stato si trova in questa dolorosa condizione, che nell’adempiere al primo dei doveri di uno stato moderno, il mantenimento, cioè, dell’ordine materiale, esso non difende la Legge, ma le prepotenze e i soprusi di una parte dei cittadini a danno degli altri. Difatti, mentre l’azione del Governo è efficacissima e pronta contro i disordini popolari, rimane miseramente impotente contro quelli i quali, come il brigantaggio e la mafia, si fondano sopra la classe abbiente, o almeno sopra la parte dominante di essa” (ibidem, p. 205).
La riprova del comportamento classista dello Stato si avrà negli anni ’90 con la repressione sanguinosa dei Fasci siciliani.
Il processo Notarbartolo
Negli ultimi decenni del XIX secolo si susseguono gli scontri tra i gruppi mafiosi o al loro interno (nel 1874 nella borgata palermitana dell’Uditore, con 800 abitanti, si ebbero 34 omicidi) e i processi hanno esiti diversi: vengono assolti i membri degli Stuppagghieri di Monreale, saranno condannati invece i fratuzzi di Bagheria e per gli affiliati alla cosca di Piazza Montalto verrà riconosciuta l’associazione a delinquere e ci saranno dodici condanne a morte per omicidio. Finirà invece con molte assoluzioni il processo per associazione a delinquere svoltosi nel 1901 in seguito alle denunce del questore Sangiorgi che in una serie di rapporti aveva ricostruito il quadro delle organizzazioni mafiose, dando un’immagine della mafia molto simile a quella che negli anni ’80 del XX secolo daranno i mafiosi collaboratori di giustizia: una vasta associazione di malfattori, organizzati in sezioni, divisi in gruppi, ognuno con un suo capo, sotto la direzione di un capo supremo (Lupo 1988, p. 467).
Ma il processo che porterà la mafia alla ribalta nazionale sarà quello per l’assassinio di Emanuele Notarbartolo (1893), ex sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia, in cui sarà coinvolto il deputato Raffaele Palizzolo che dopo una prima condanna a trent’anni della Corte d’assise di Bologna sarà assolto nel processo di Firenze (1904) e tornerà in città da trionfatore.
L’impegno del figlio Leopoldo non è riuscito nel suo intento (Notarbartolo 1994). Accanto a lui si mobilita buona parte della cittadinanza raccolta nel comitato Notarbartolo, che indìce sottoscrizioni e organizza manifestazioni con una buona partecipazione, mentre gli amici di Palizzolo si riuniscono nel comitato Pro Sicilia, primo laboratorio del “sicilianismo” che coniuga una visione apologetica della mafia, considerata una summa dei valori isolani, con la lamentazione per la criminalizzazione dei siciliani. Ispiratore della mobilitazione sicilianista è il demologo Pitrè, a cui si deve una definizione della mafia destinata a una notevole fortuna: né setta né associazione, ma “coscienza del proprio essere, esagerato concetto della forza individuale” (Pitrè 1978, p. 292).
L’esito dei processi per l’assassinio Notarbartolo suscita le riflessioni degli osservatori più attenti, tra cui Napoleone Colajanni che sottolinea il ruolo dei governi della Sinistra che per favorire i candidati governativi hanno adottato metodi mafiosi per cui si è creata una mafia del governo che ha rigenerato e reso onnipotente la mafia dei cittadini (Colajanni 1971, pp. 101-102).
Negli anni successivi alla repressione dei Fasci siciliani (sui Fasci come sulle lotte contadine successive torneremo più dettagliatamente nella voce dedicata al Movimento contadino) una grande ondata migratoria (più di un milione di persone) dissangua la Sicilia. Tra gli emigrati ci sono anche i mafiosi che avranno un ruolo di primo piano nella storia della criminalità organizzata degli Stati Uniti.
Da Giolitti al fascismo
Gaetano Salvemini definì Giovanni Giolitti “ministro della malavita” (Salvemini 1962, pp. 73-141) e il periodo in cui a capo del governo fu l’uomo politico piemontese avrebbe visto l’affermarsi di un “regno mafioso” (Marino 1998, p. 85). L’età giolittiana inizia con il processo Notarbartolo e l’attenzione per il problema mafia da esso suscitata, ma a poco a poco sulla mafia calerà il silenzio (Renda 1997, p. 188). Nelle relazioni inaugurali degli anni giudiziari i procuratori o ignorano la mafia o la considerano un ritornello, il “romanzo di una vasta associazione… che come polipo mostruoso avvinghia coi suoi tentacoli l’isola intera” (ibidem, p. 172), il generico prodotto di un’altrettanto generica sicilianità.
Sono gli anni in cui il movimento contadino riprende le sue lotte, inventa le affittanze collettive per sostituire i gabelloti mafiosi e la violenza mafiosa torna a farsi sentire, con l’uccisione di capi e militanti, tra cui Lorenzo Panepinto (1911) e Bernardino Verro (1915). I processi per questi omicidi si chiudono con l’assoluzione degli incriminati. Ma a sparare non sono solo i mafiosi. Molte manifestazioni contadine e popolari finiscono nel sangue per l’intervento delle forze dell’ordine, prima della guerra e dopo la guerra, quando sull’onda dei decreti per la concessione delle terre incolte e malcoltivate, riprendono le occupazioni delle terre (Santino 2000b, pp. 104-116).
Nella fase che precede l’avvento del fascismo la violenza mafiosa s’intreccia con quella dello squadrismo: dov’è presente la mafia l’offensiva contro le organizzazioni contadine e i partiti di sinistra è gestita dai mafiosi; altrove si formano le squadre nazionaliste e fasciste (ibidem, p. 120).
Il fascismo ha sgominato la mafia, o si è limitato a reprimere la “bassa mafia”, cooptando l'”alta mafia”? Quel che è certo è che il prefetto Mori dovette arrestarsi a un certo punto, quando voleva proseguire nella sua azione contro personaggi “intoccabili” e che anche nelle zone dove le associazioni mafiose furono sradicate esse sono ricomparse successivamente. L’azione antimafia si risolse in un’operazione a tutela della proprietà liberandola dal giogo dei gabelloti. Nei processi con centinaia di imputati figuravano anche personaggi di un certo peso, ma la maggioranza era composta dalla manovalanza mafiosa e i proprietari terrieri, che spesso avevano fatto da manutengoli, sedevano tra i testimoni d’accusa (per le diverse valutazioni sul ruolo del fascismo nella lotta alla mafia si vedano: Duggan 1986; Raffaele 1993; Lupo 1993-1996; Tessitore 1994; Renda 1997; Marino 1998).
La Commissione parlamentare d’inchiesta del 1963
Il secondo dopoguerra segna il ritorno della mafia sulla scena siciliana, la ripresa del movimento contadino, il ricorso sistematico alla violenza mafiosa, la fine del governo di coalizione antifascista (l’anno di svolta è il 1947, con la strage di Portella della Ginestra e la nascita del centrismo).
Ancora sull’onda dell’emergenza si avviano i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta, richiesta sin dal 1948 ma operante solo dal 1963, dopo la strage di Ciaculli, in cui morirono sette uomini delle forze dell’ordine. La Commissione, tra annunci di grandi rivelazioni regolarmente disattesi, manovre per vanificarne l’attività e ritardi, protrasse i lavori fino al 1976 e si concluse con la pubblicazione di una relazione di maggioranza e due di minoranza (Partito comunista e Movimento sociale) e di una vasta mole di documenti.
La relazione di maggioranza condivide la tesi ancora dominante che non esiste un’organizzazione formale e considera la mafia all’origine come un fenomeno “non delle classi subalterne, escluse, come tali, da ogni accordo di potere, ma al contrario dei ceti che al momento dell’Unità d’Italia già esercitavano (e che continuarono ad esercitare) il dominio politico ed economico nell’Isola” (Commissione antimafia 1976, p. 112). Più sfumato il discorso sull’oggi, con gli accenni al ruolo di Vito Ciancimino, amministratore del comune di Palermo, ritenuto “espressione emblematica di un più vasto fenomeno che inquinò negli anni sessanta la vita politica e amministrativa siciliana, per effetto delle interessate confluenze e aggregazioni delle cosche mafiose e dei tentativi di recupero, ai fini elettorali o per giochi interni di partito, delle vecchie forze del blocco agrario o d’uomini politici logorati dalla consuetudine col mondo mafioso; il successo di Ciancimino perciò non si spiega come un fatto casuale, indipendente dalle circostanze ambientali e dalle forze politiche che gli avevano assicurato il loro sostegno, ma si comprende solo se visto nel quadro di una situazione ampiamente compromessa da pericolose collusioni o da cedimenti non sempre comprensibili” (ibidem, p. 237). Però il quadro non viene chiarito sufficientemente e le proposte formulate dalla relazione sono destinate a rimanere sulla carta. La relazione di minoranza del Pci delinea un quadro dettagliato della situazione attuale, respinge la tesi più volte avanzata nel corso dei lavori della Commissione secondo cui si sarebbe ormai in presenza di un fenomeno di gangsterismo urbano, analizza i mutamenti (ampliamento delle attività, finanziarizzazione) ma sottolinea gli elementi di continuità dati soprattutto dai rapporti con la politica e la pubblica amministrazione, con al centro la Democrazia cristiana. Non c’è solo Ciancimino, ci sono Salvo Lima e imprenditori come Cassina, monopolista per molti anni degli appalti pubblici di Palermo (ibidem, pp. 567-954). Anche la seconda relazione di minoranza parla dei rapporti tra mafia e politica (ibidem, pp. 955-1247).
Dalla legge antimafia del 1982 ai nostri giorni
Sul piano operativo nessun provvedimento scaturisce dai lavori della Commissione parlamentare e bisognerà attendere il 1982 quando, sull’onda dell’indignazione suscitata dal gran numero di delitti della guerra di mafia dei primi anni ’80, dalle uccisioni di politici e uomini delle istituzioni e soprattutto dal delitto Dalla Chiesa (Chinnici-Santino 1989), sarà varata la Legge antimafia che per la prima volta definisce l’associazione di tipo mafioso, introduce il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi. Gli anni ’80 sono caratterizzati dall’eccezionale impegno dei magistrati di Palermo, riuniti in pool, che utilizzando anche le dichiarazioni dei primi mafiosi collaboratori di giustizia, che hanno rivelato l’esistenza di Cosa Nostra come organizzazione unitaria, piramidale, verticistica, istruiscono il primo maxiprocesso che vedrà la condanna di capi e gregari, confermate successivamente in appello e in Cassazione (Autori Vari, 1992). Ma il successo invece di incoraggiare a continuare desta preoccupazioni: il pool viene sciolto, Giovanni Falcone, il magistrato di punta, dopo varie vicissitudini, è costretto a lasciare Palermo. Lavorerà al Ministero di Giustizia e elaborerà il nuovo assetto dell’azione antimafia, con l’istituzione della Direzione nazionale antimafia, o Superprocura. Nel dicembre del ’91 era già nata la Direzione investigativa antimafia (Dia) con il compito di coordinare l’attività informativa e investigativa.
Falcone cadrà, assieme alla moglie e agli uomini della scorta, nella strage di Capaci del 23 maggio 1992 e il 19 luglio sarà ucciso nella strage di via D’Amelio anche il magistrato Paolo Borsellino, assieme alla scorta.
Dopo le stragi, continuando la tradizione dell’emergenza, si faranno nuove leggi: sull’acquisizione delle prove, sui collaboratori di giustizia, sul carcere duro per i mafiosi (il 41 bis), sull’uso delle forze armate in Sicilia. Nei processi per le stragi del ’92 e per quelle dell’anno successivo, di Firenze e Milano, vengono individuati e puniti esecutori e mandanti mafiosi, ma rimane aperto il problema dei mandanti esterni.
Nel 1993 vengono arrestati i capimafia Riina, Pulvirenti e Santapaola, la mafia sembra alle corde, anche perché cresce enormemente il numero dei collaboratori di giustizia. Nello stesso anno la Commissione parlamentare antimafia, che dopo la nuova legge antimafia viene regolarmente riproposta a ogni legislatura, approva una relazione sui rapporti tra mafia e politica, che rimane il punto più alto dell’analisi istituzionale su questo tema (Commissione antimafia 1993).
Negli anni successivi i mafiosi passano dallo stragismo all’inabissamento comprendendo che il ricorso alla violenza rivolta verso l’alto ha avuto effetti boomerang. Si apre la stagione della “mafia invisibile” e una volta cessati i grandi delitti e le stragi, le istituzioni innescano la retromarcia, attenuando o cancellando la legislazione d’emergenza, su terreni fondamentali come l’acquisizione e l’uso delle prove e le norme sui collaboratori (Imbergamo 2000; Di Matteo-Imbergamo-Tescaroli 2001).
Lo scenario attuale può essere così tratteggiato: una mafia che controlla la violenza verso l’alto, mira a tessere rapporti con i nuovi detentori del potere e a rilanciare il suo ruolo in attività storiche come gli appalti di opere pubbliche, mentre l’assetto istituzionale, con una serie di provvedimenti già adottati o in preparazione, offre notevoli possibilità per intralciare o ritardare il corso della giustizia (per esempio, l’uso della legge Cirami sul legittimo sospetto che consente di ricorrere in Cassazione per scavalcare il giudice naturale). Anche se con armi spuntate continua l’attività della magistratura, soggetta a un attacco violentissimo da parte del governo e della maggioranza, e delle forze dell’ordine, ci sono stati altri arresti e molti processi sono finiti con condanne pesanti, mentre, anche in seguito alla nuova legge approvata nel 1996, su proposta dell’associazione Libera, è aumentato il numero dei beni confiscati e destinati a un uso sociale.
Riferimenti bibliografici
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