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Umberto Santino: La strage di Portella, la democrazia bloccata e il doppio stato

Premessa

Democrazia bloccata, sovranità limitata, costituzione formale e costituzione materiale, poteri occulti o potere invisibile, doppio Stato: sono termini che hanno attraversato il dibattito degli ultimi anni, in seguito alle stragi che hanno insanguinato il nostro paese, da piazza Fontana in poi, e all’emergere di fenomeni come la loggia massonica P2, i cosiddetti servizi segreti deviati, le rivelazioni su Gladio del novembre 1990.

La democrazia italiana è stata definita «democrazia bloccata», cioè formalmente aperta ma di fatto sbarrata ad ogni possibilità di ricambio, e la spiegazione è stata ricondotta agli equilibri bipolari nati dai negoziati di Yalta. Con la spartizione del mondo in due aree sottoposte al dominio diretto o all’influenza delle grandi potenze, l’Italia si sarebbe trovata a esercitare una «sovranità limitata»: il limite sarebbe rappresentato dall’invalicabilità del confine tracciato dai vincitori della seconda guerra mondiale quando al nostro paese era stata assegnata una collocazione all’interno dello schieramento occidentale. L’accesso a posizioni di potere delle sinistre, in particolare del Pci, avrebbe significato abbandonare quello schieramento e oltrepassare quel limite.

Che i condizionamenti internazionali abbiano avuto un peso rilevante nell’elaborazione delle politiche nazionali, è indiscutibile, ma non fino al punto, come si afferma esplicitamente o si lascia intendere, di annullare o ridurre drasticamente la responsabilità dei ceti politici e delle classi dominanti nazionali. A mio avviso, più che di un’imposizione dall’esterno si è trattato di un matrimonio consensuale, nel senso che interessi geopolitici e interessi di classe coincidevano perfettamente.

Le espressioni «costituzione formale» e «costituzione materiale» indicano la contraddizione tra diritto e politica, tra norma scritta e prassi concreta, e mentre la prima designa il testo istitutivo di un sistema democratico tra i più avanzati del mondo, qual è quello nato in Italia dalla Resistenza antifascista e dall’Assemblea costituente, la seconda fa riferimento a un testo non scritto, ma ugualmente cogente, le cui prescrizioni sono funzionali al mantenimento di un sistema di potere compatibile con l’ordine internazionale.

Affrontando il problema dell’attivazione di forme di potere occulto, Norberto Bobbio, nell’articolo La democrazia e il potere invisibile, pubblicato nel 1980 e ripubblicato successivamente nel volume Il futuro della democrazia, parlava di «criptogoverno», indicando con questo termine «l’insieme delle azioni compiute da forze politiche eversive che agiscono nell’ombra in collegamento coi servizi segreti, o con una parte di essi, o per lo meno da questi non ostacolati». Il primo episodio di questo genere, nella storia recente, era la strage di piazza Fontana, del dicembre 1969. Scriveva Bobbio:

«Nonostante il lungo procedimento giudiziario in più fasi e in più direzioni, il mistero non è stato svelato, la verità non è stata scoperta, le tenebre non sono state diradate, eppure non ci troviamo nella sfera dell’inconoscibile. Si tratta di un mero fatto, che appartiene in quanto tale alla sfera del conoscibile, per cui se pure non sappiamo chi è stato, sappiamo con certezza che qualcuno è stato. Non faccio congetture, non avanzo alcuna ipotesi. Mi limito a rievocare il sospetto rimasto dopo la conclusione del processo che il segreto di Stato sia servito a proteggere il segreto dell’anti-stato. Risalgo alla strage di piazza Fontana (…) perché la degenerazione del nostro sistema democratico è cominciata da lì, cioè dal momento in cui un arcanum, nel senso più appropriato del termine, è entrato imprevisto e imprevedibile nella nostra vita collettiva, l’ha sconvolta, ed è stato seguito da altri episodi non meno gravi rimasti altrettanto oscuri» (Bobbio 1995, p. 108).

L’arcanum di cui parla Bobbio ricorre nella letteratura sulla ragion di Stato che rimonta ai primordi dello Stato moderno. L’opera di Clapmar, richiamata da Bobbio, De arcanis rerum publicarum, è del 1605: in essa si definivano gli arcana imperii («intimae et occultae rationes sive consilia eorum qui in republica principatum obtinent») e si distinguevano gli arcana imperii, il cui scopo è la conservazione dello Stato come tale, dagli arcana dominationis, che mirano a conservare la forma di governo esistente.

Rientrerebbero nella categoria degli arcana «due fenomeni diversi se pure strettamente congiunti: il fenomeno del potere occulto o che si occulta e quello del potere che occulta, cioè che si nasconde nascondendo. Il primo comprende il tema classico del segreto di Stato, il secondo comprende il tema altrettanto classico della menzogna lecita e utile (lecita perché utile) che risale nientemeno a Platone» (ibidem, p. 96).

Il segreto di Stato è la regola nello Stato autocratico, mentre la democrazia dovrebbe essere il governo del potere visibile o del «potere pubblico in pubblico». In realtà le cose vanno diversamente.

Il testo di Bobbio stimola alcune domande di fondo: il potere che ricorre al delitto e alle stragi è un potere invisibile o visibilissimo, occulto o occultato? Le forze politiche che vi fanno ricorso sono eversive o conservatrici? Il fine che si propongono è la destabilizzazione o la stabilizzazione? L’attuazione di attività delittuose costituisce una deviazione o è organicamente inscritta in un sistema di potere precluso al mutamento ed è pienamente funzionale alla sua perpetuazione? Siamo di fronte a un anti-stato oppure allo Stato reale, denudato nella sua vera natura di forma del potere delle classi dominanti che ricorrono a qualsiasi mezzo (compresi il delitto e la strage) pur di non essere spodestate? L‘arcanum è imprevisto e imprevedibile o è la reiterazione, prevista e prevedibile, di un vecchio copione?

Se si pensa che lo stragismo è indissolubilmente coniugato con il depistaggio e con l’impunità spesso anche degli esecutori, sempre dei mandanti, la risposta a queste domande non sarà difficile. Ma se piazza Fontana è il prototipo delle stragi più recenti, il modello è più antico, rimonta proprio a Portella della Ginestra.

Il tema del «doppio Stato» compare nel dibattito italiano con un articolo di Franco De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, del 1989. De Felice riprende le riflessioni degli studiosi tedeschi Lederer e Fraenkel. Emil Lederer in un saggio del 1915 sugli effetti della guerra mondiale sullo Stato tedesco, analizzando le linee di trasformazione dello Stato contemporaneo, distingueva tra Stato come espressione dell’organizzazione della società (Rechtsstaat) e Stato come soggetto del sistema internazionale (Machtsstaat). Il dualismo si fonda sul ruolo esterno dello Stato: lo Stato-potenza sviluppa apparati che permettono di esercitare la sovranità sul piano internazionale, un approccio che si collega alla concezione secondo cui la politica estera ha un ruolo prevalente nel definire l’orientamento complessivo di uno Stato. In tal modo lo Stato di diritto è condizionato dallo Stato-potenza, la guerra evidenzia un rovesciamento dei rapporti, subordinando il paese agli impegni bellici, ma il meccanismo operava già in precedenza: l’efficienza dell’apparato produttivo è funzionale al ruolo che si vuole avere a livello internazionale.

Fraenkel, analizzando lo Stato nazionalsocialista, parlava di uno Stato normativo (Normenstaat) che conviveva con uno Stato discrezionale (Massnahmenstaat), configurando due sistemi di dominio concorrenti.

Il doppio Stato è «un’unica realtà in cui convivono una sfera, potenzialmente illimitata, caratterizzata dalla discrezionalità e dalla eccezionalità definita dal potere politico secondo il proprio criterio di opportunità; ed un’altra sfera, della normalità, in cui la certezza del diritto è funzionale alla garanzia di conservazione e sviluppo dei rapporti sociali capitalistici» (De Felice 1989, p. 498).

Ad avviso di Fraenkel, il doppio Stato è qualcosa di diverso dallo Stato dualistico esistente nell’epoca della società per ceti, in cui ogni atto sovrano era il frutto di un accordo. «La storia costituzionale dello Stato dualistico è la storia di interminabili compromessi. Il doppio Stato invece è caratterizzato dalla presenza di un accordo fittizio onnicomprensivo. Si dovrebbe parlare di doppio Stato solo quando il potere statale è organizzato strutturalmente in modo unitario, mentre la sua gestione è esercitata funzionalmente con metodi differenti» (Fraenkel 1983, p. 196).

Il doppio Stato autoritario costituitosi con il nazismo era indispensabile per il mantenimento del capitalismo tedesco del tempo, ma non si tratta di qualcosa di occulto e invisibile: «Il doppio Stato di Fraenkel è tutt’altro che occulto: è visibilissimo, anzi si direbbe che la visibilità, la manifestazione dispiegata del nucleo essenziale della sovranità e del potere (la dichiarazione dello stato di emergenza) è la condizione della conservazione» (De Felice 1989, p. 498). La riflessione di Fraenkel si incrocia con quella di Schmitt che considera la dichiarazione dello stato d’emergenza l’espressione del potere sovrano («sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»: Schmitt 1972, p. 33) e pone al centro della categoria del «politico» la dialettica amico-nemico, ma mentre il testo di Fraenkel è una critica a fondo dello Stato nazista, Schmitt, che pure ha suscitato molta attenzione a sinistra, ne è l’apologeta e il teorizzatore.

Il fatto che il nemico non sia all’esterno ma all’interno «non cambia nulla nell’impianto categoriale: si ha una generalizzazione della condizione bellica, cioè la “guerra civile” in atto o potenziale come condizione normale di esistenza» (De Felice 1989, p. 499).

Nella lettura proposta da De Felice, la riflessione di Fraenkel fornisce categorie analitiche valide anche al di fuori del nazismo. Analizzando la realtà italiana e dei paesi europei nel secondo dopoguerra, De Felice individua il fondamento del doppio Stato nel sistema di doppia lealtà di tutti i gruppi dirigenti: lealtà al proprio paese e lealtà a uno schieramento internazionale.

In Italia si forma una democrazia parlamentare pluralista ma essa è l’unico paese industriale europeo in cui l’opposizione, cioè il movimento operaio social-comunista, è vista come antagonista strategico, il «nemico», che si muove al di fuori dei confini tracciati dal Patto atlantico, e quindi non può andare al governo, e pertanto la democrazia non ha alternativa, è aperta per la costituzione formale ma bloccata per quella materiale.

In base a questo approccio, il doppio Stato che si è configurato in Italia non è un fatto contingente, non scaturisce da un uso improprio, deviato, dei poteri pubblici, da un complotto o da una guerra interna di fazioni, ma ha carattere strutturale, in «collegamento con la doppia lealtà e con l’ assedio reciproco» (ibidem, p. 534). La categoria gramsciana dell’«assedio reciproco», tipico della «guerra di posizione», si riproduce nel contesto dell’alternativa bloccata e del conflitto permanente tra forze politiche strategicamente antagoniste.

Condivido la tesi di De Felice secondo cui la teorizzazione del doppio Stato riesce a cogliere le dinamiche attivatesi nel secondo dopoguerra nel nostro paese più di quanto lo facciano le analisi fondate sul potere invisibile e le interpretazioni dei delitti politici e delle stragi come deviazioni eversive.

Mi chiedo se e fino a che punto le categorie prima richiamate valgano per Portella. A mio avviso la strage di Portella è l’atto di nascita di un modello, la prova generale di un copione (che prevede l’uso della violenza illegale come risorsa ineliminabile per sbarrare alle opposizioni l’accesso al governo) che sarà ripreso, con soggetti e in contesti parzialmente diversi ma fondamentalmente assimilabili (il «nemico» è sempre quello: il pericolo comunista), ogniqualvolta la normale dialettica politica non riesce a governare gli squilibri. Le sinistre non sono fuorilegge, non si possono mettere fuorilegge perché ciò significherebbe la guerra civile, ma dal 1947 in poi sono fuorigioco e Portella rappresenta il via a questa estromissione, con tutti i mezzi, delle sinistre dalla possibilità di accesso a posizioni di potere.

A Portella, e da Portella in poi, democrazia bloccata e doppio Stato sono il frutto dell’interazione tra due processi: l’istituzionalizzazione della violenza criminale (banditismo e mafia) e la criminalizzazione delle istituzioni (cioè l’uso di modalità criminali da parte di soggetti istituzionali), per cui si configura una simbiosi dinamica tra criminalità istituzionalizzata e istituzioni criminali che permarrà, con i necessari adattamenti, per tutto il corso della «prima Repubblica».

In questa relazione, riprendendo e sviluppando alcune linee interpretative del libro su Portella (Santino 1997), in cui ho ripubblicato la mia relazione al convegno «Portella della Ginestra: una strage per il centrismo», svoltosi nel 1977, con cui il Centro siciliano di documentazione ha avviato la sua attività, ricostruirò – molto schematicamente – le dinamiche della democrazia bloccata (seguendo il parallelo svilupparsi delle indagini sulla strage, che portano all’individuazione dei banditi come unici responsabili, e del dibattito politico, che porta all’esclusione delle sinistre dal governo regionale e nazionale) e del doppio Stato (seguendo i processi che portano alla formazione delle istituzioni criminali, attraverso l’uso di metodi delittuosi e illegali da parte di rappresentanti e corpi delle istituzioni, più o meno apertamente legittimati per la loro funzionalità alla costituzione e perpetuazione del sistema di potere).


1. La strage di Portella e la democrazia bloccata

Il risultato delle elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947 costituì un fatto allarmante, a livello regionale ma pure nazionale e internazionale. Riporto alcuni dati. Il Blocco del Popolo conquistò 29 seggi, la Democrazia cristiana ne ebbe 19, il Blocco demoqualunquista 14, il Partito nazionale monarchico 9, il Movimento indipendentista siciliano 8, il Partito repubblicano 4, il Partito socialista lavoratori italiani 4, l’Unione democratica nazionale 2, l’Uomo qualunque 1. Fu una svolta rispetto alle elezioni precedenti. Il 2 giugno 1946 al referendum istituzionale in Sicilia c’era stata una vittoria netta della monarchia con 1.292.100 voti, contro i 705.949 voti per la repubblica, e alle elezioni per l’Assemblea costituente la Dc aveva avuto il 33,62 per cento dei voti, l’Unione democratica nazionale (una coalizione di liberali e demolaburisti) il 13,55, il Psiup il 12,25, l’Uomo qualunque il 9,70, il Mis l’8,71, il Pci il 7,91. Quindi la maggioranza schiacciante era del blocco conservatore. Alle elezioni amministrative, che si svolsero in marzo e tra ottobre e novembre, la Dc da sola aveva avuto la maggioranza in 30 comuni e assieme ai partiti di destra in altri 13 comuni. I partiti di destra si affermarono in 33 comuni. Socialisti e comunisti conquistarono 20 comuni e assieme ad altri ebbero la maggioranza in altri 13.

Il successo elettorale delle sinistre alle elezioni del 20 aprile ’47 si spiega con l’unità dello schieramento, con un maggiore ruolo nelle città, ma soprattutto con la crescita del movimento contadino. Si può formare una maggioranza con al centro le forze di sinistra. Il problema è cosa farà la Dc.


1.1. De Gasperi e il «quarto partito»

A livello nazionale erano cominciate le grandi manovre che porteranno alla rottura della coalizione antifascista. De Gasperi nella seduta del consiglio dei ministri del 30 aprile ’47, dieci giorni dopo le elezioni regionali siciliane, fa una dichiarazione che riporto per esteso così come venne trascritta dall’allora ministro Emilio Sereni. De Gasperi annuncia che è sua intenzione cambiare la struttura del governo, formatosi nel febbraio dello stesso anno e composto da democristiani, comunisti e socialisti e così motiva la sua decisione:

«È innegabile che noi disponiamo di una forte maggioranza nell’Assemblea; ed è pure innegabile (…) che nel complesso i Partiti che partecipano al Governo riscuotono un crescente numero di suffragi dal corpo elettorale. Ma i voti non sono tutto. Possiamo godere, sì, della fiducia della grande maggioranza degli elettori, ma le leve di comando decisive in un momento economico così grave non sono in mano né degli elettori né del Governo. Il partito della Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista, certo, sono forti, riscuotono la fiducia di milioni e di milioni di elettori. Ma non sono questi elettori che decidono ed orientano le campagne della stampa indipendente, che presenta in forma scandalistica o comunque ostile ogni sforzo che il Governo fa per superare le difficoltà del momento. Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri Partiti, vi è in Italia un quarto Partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l’aumento dei prezzi o le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l’Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell’altra, i rappresentanti di questo quarto Partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica» (Sereni 1948-1980, pp. 26 s.).

De Gasperi distingue tra governo formale e comando effettivo: c’è un potere ufficiale fondato sulle elezioni, sulla maggioranza espressa dagli elettori, uguali di fronte alla legge e nella manifestazione della loro volontà tramite il voto, sulla fiducia ai partiti democratici, sul governo formato da questi partiti, e c’è un potere ben più forte, di minoranze ricche e dotate dei mezzi per ostacolare e annullare l’azione del governo, se esso non coincide con i suoi interessi.

Se il governo non coincide con il quarto partito, non è il governo del quarto partito, esso non ha un potere effettivo, non è in grado di esercitare il suo potere formale; ma l’inserimento nel governo del quarto partito richiede l’estromissione dei due partiti di sinistra, anche se ciò è in aperto contrasto con la volontà dell’elettorato.

Il problema da allora sarà spostare l’elettorato in modo da avallare la scelta a favore del quarto partito, da renderne possibile l’inserimento, e a ciò serviranno le elezioni del 18 aprile 1948, ma per arrivare a quel risultato elettorale bisognerà compiere una serie di manovre che possono anche configurarsi – De Gasperi non lo dice e si guarda bene dal dirlo, ma è quello che è avvenuto e si è guardato bene dall’impedire che avvenisse – come azioni di forza e di violenza.

De Gasperi esegue gli ordini degli USA comunicatigli durante la visita nel mese di gennaio? Per sua bocca quel 30 aprile parla la sovranità limitata? Ho già detto prima che queste spiegazioni tengono fino a un certo punto, mettono tutto sul conto delle scelte internazionali che ovviamente hanno avuto il loro peso, ma il quarto partito di cui parla De Gasperi è il grande capitale italiano e gli interessi geopolitici non confliggono con gli interessi di classe degli strati dominanti, sono perfettamente coniugabili.


1.2. Le indagini sulla strage di Portella: dalla mafia alla banda Giuliano

La decisione di cambiar pagina dando vita a un nuovo governo è già presa il 30 aprile e il primo maggio c’è la strage di Portella. Non sono coincidenze fortuite. Con la strage prende la parola il «quarto partito» siciliano, formato da agrari e mafiosi, e il suo «voto», a differenza di quello delle regionali del 20 aprile, preme nella stessa direzione annunciata da De Gasperi: estromettere le sinistre dal governo nazionale, non consentire loro di formare il governo regionale.

Com’è noto, subito dopo la strage, non solo le sinistre parlarono di mafia, di agrari e forze conservatrici. La «Voce della Sicilia» (VdS) nell’edizione straordinaria del 2 maggio titolava: A Piana della Ginestra baroni e mafia contro il popolo, ma anche il comandante della Legione dei carabinieri di Palermo telegrafava: «Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia at sfondo politico con assoldamento fuori legge» e un secondo telegramma diceva: «Confermasi che azione terroristica devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia comuni Piana Albanesi, S. Giuseppe Jato et S. Cipirrello» (in Santino 1997, p. 153).

Le indagini prendono subito una pista ben precisa. Vengono fermate immediatamente 74 persone, nei giorni successivi i fermati arriveranno a 120, tra cui capimafia locali e professionisti. Il «Giornale di Sicilia» (GdS) del 5 maggio titola: Alcuni professionisti tra i 120 fermati per l’eccidio di Portella (nello stesso numero c’è un’intervista a Lucky Luciano, che si definisce e viene presentato come un perseguitato).

Successivamente sono arrestati come autori materiali della strage di Portella i capimafia Giuseppe Troia, Salvatore Romano, Elia Marino, Pietro Gricoli: sono stati riconosciuti da alcuni giovani (GdS 19 maggio 1947) e farebbero parte della «cricca liberal-uccù» (Uomo qualunque; VdS 20 maggio 1947).

Ma il giorno stesso della strage l’ispettore Messana aveva indicato come responsabile la banda Giuliano e Li Causi gli aveva chiesto come facesse ad avere quella certezza, mentre tutti parlavano di mafia. Il 2 maggio, nel dibattito all’Assemblea costituente, il ministro degli interni Scelba dichiara che la strage non è un fatto politico, ma di semplice delinquenza. Leggiamo nel verbale del dibattito riportato dal quotidiano democristiano «Sicilia del Popolo» (SdP) del 3 maggio:

«A giudicare dalle modalità del delitto, [Scelba] osserva che il fatto si è verificato in una zona dove esiste una forte mentalità feudale. Non ritiene quindi che si debba individuare un movente politico, ma un fatto di delinquenza. Nessun partito oserebbe organizzare manifestazioni del genere, non fosse altro perché è facile immaginare che il risultato sarebbe nettamente opposto a quello sperato. Si spara sulla folla dei lavoratori non perché sono tali ma perché rei di reclamare un nuovo diritto. Si rivendica l’offesa contro la folla come si sparerebbe su un singolo per un torto ricevuto. Con analoga mentalità, anche se con movente e con finalità diversi, in altre regioni d’Italia si uccidono da altri criminali, con forme analoghe di banditismo, i proprietari».

Quindi: la strage sarebbe un fatto delinquenziale dovuto a una mentalità feudale. Si potrebbe obbiettare: una mentalità così forte e diffusa non genera un inconsulto fatto delinquenziale ma una ritorsione contro chi chiede il riconoscimento di un diritto negato, che ha, e non può non avere, inequivocabili caratteri politici. Ma per Scelba politico significa soltanto partitico, come si ricava dalla precisazione, e la strage è un fatto isolato: un’ignoranza voluta e imperdonabile di tutti i delitti rivolti contro il movimento contadino che in quegli anni avvenivano in Sicilia. E poi – dice Scelba – delinquenza e banditismo non sono solo in Sicilia, sono in tutta l’Italia e se in Sicilia le vittime sono i contadini altrove sono i proprietari. Come dire: i piatti della bilancia sono pari.

L’8 maggio Scelba è a Palermo e in un’intervista sulla strage di Portella rilasciata a «Sicilia del Popolo» dichiara: «Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari» (SdP 9 maggio 1947).

Il 22 giugno c’è il colpo di scena. Quel giorno il «Giornale di Sicilia» titola: A Portella ha sparato Giuliano. Come si ricorderà, lo stesso giorno ci sono gli attentati alle camere del lavoro e alle sezioni dei partiti di sinistra, compiuti dai banditi e in alcuni paesi (Cinisi e Monreale) dai mafiosi. I capimafia arrestati per la strage di Portella vengono rilasciati e Giuliano diventa l’unico responsabile: era proprio quello che ci voleva per il canovaccio ordito dall’ispettore Messana e dal ministro Scelba. Messana ha imbeccato Scelba, oppure Scelba Messana? O, come è più credibile, il ministro e l’ispettore agivano in perfetta sintonia, animati da un comune sentire?

Giuliano alle elezioni regionali aveva fatto votare per Varvaro, che a Montelepre aveva avuto 1.521 voti, mentre il Blocco del Popolo ne aveva avuto solo 70. Il bandito non conosceva bene la situazione, non sapeva che al congresso di Taormina del febbraio ’47 c’era stata la scissione e che il Misdr di Varvaro era vicino alle sinistre? Lo sapeva, ma hanno prevalso i rapporti personali? Varvaro era suo avvocato, era il candidato locale più conosciuto e quindi non si sentiva di non appoggiarlo? Ma come mai dieci giorni dopo avere fatto votare per il separatista scissionista, simpatizzante per le sinistre, compie il massacro di Portella?

Anche se Giuliano non è mai stato il bandito del mito che toglie ai poveri per dare ai ricchi, la strage di Portella e gli attentati successivi contro le sinistre sono un’inversione di rotta nella sua carriera di fuorilegge, ma ciò non significa un mutamento nelle alleanze contratte con l’arruolamento nelle file separatiste.

Un ruolo decisivo nella dinamica che porta alla strage viene attribuito alla lettera fatta pervenire dalla madre al bandito tramite il cognato Pasquale Sciortino, dopo la cui lettura Giuliano, secondo la testimonianza di Giovanni Genovese, avrebbe annunciato: «È giunta l’ora della nostra liberazione» e che bisognava andare a sparare ai comunisti a Portella della Ginestra.

La lettera, stando alle testimonianze della madre del bandito e alla sua stessa ammissione nel secondo memoriale fatto pervenire alla corte di Viterbo, proveniva dall’America ed essendo stata distrutta subito dopo la lettura non sapremo mai cosa ci fosse scritto esattamente. Possiamo ipotizzare che il suo contenuto fosse così sintetizzabile: per poter contare su un futuro diverso dal prevedibile carcere a vita per i suoi innumerevoli delitti, lui e i suoi debbono rendere un servizio: sparare sui rossi. Così, o solo così, Giuliano e la sua banda potranno «liberarsi».

Il prezzo che gli si chiede non è basso. Gli si chiede di fare quello che finora non ha mai fatto e che, da quel che si sa, ripugna ad alcuni componenti della banda, se è vero che qualcuno di essi obietta che, se si vuole colpire a sinistra, si possono sequestrare o uccidere i capi (azione più congeniale con le attività dei banditi), non prendersela con i partecipanti a una manifestazione.

Sia o meno arrivata dagli Stati Uniti, comunque la lettera rimette Giuliano in rapporto con rappresentanti di quel mondo (mafiosi, agrari, forze conservatrici) con cui Giuliano aveva collaborato quando, negli ultimi mesi del 1945, era stato reclutato nell’Evis e con cui avrà contatti successivamente alla strage. Come, allargando i rapporti al quadro internazionale, per fare un esempio, il giornalista-spia americano Michael Stern. Il voto per Varvaro quindi sarebbe una parentesi, chiusa la quale riprendono i rapporti con gli alleati più congeniali, ma questa volta, in presenza del materializzarsi sempre più minaccioso del «pericolo comunista», il terreno di impegno comune è l’offensiva armata contro la «canea dei rossi», come si leggeva nel manifestino fatto trovare in occasione degli attentati del 22 giugno, sicuramente non scritto dal bandito ma firmato da lui.

Un avvocato della difesa al processo di Viterbo dichiarava che «la banda Giuliano, operando contro i comunisti a Portella della Ginestra e, nei vari paesi della provincia di Palermo, contro le sedi del partito comunista, operò come poteva operare un plotone di polizia». La sentenza annota che lo stesso concetto era stato «enunciato dal capo della mafia di Borgetto, Domenico Albano, il quale riportò in dibattimento una considerazione fatta dall’autorevole capo della mafia di Monreale, Ignazio Miceli, secondo cui Giuliano non era un bandito, ma capo di uno squadrone di polizia. (…) Ciò dipese dalla carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia» (in Santino 1997, pp. 191 s.).

Il senso di questo discorso è chiarissimo: Giuliano, uccidendo i comunisti, fa quello che la polizia di Stato, nella concezione dei mafiosi e degli agrari, dovrebbe fare e non fa: reprimere con tutti i mezzi le sinistre. Quegli atti criminosi vogliono essere un messaggio rivolto alle istituzioni perché siano, o tornino ad essere, i baluardi degli interessi forti contro gli assalti dei comunisti. Scelba ha capito perfettamente e tutta la Dc ha accolto positivamente quel messaggio.

Varvaro, deponendo alla Commissione antimafia nel gennaio 1971, dirà che i voti nella zona in cui operava la banda Giuliano nelle elezioni successive andranno in gran parte a Bernardo Mattarella e che l’uccisione, nel luglio del 1949, di Leonardo Renda, dirigente democristiano di Alcamo e compare di Mattarella, sarebbe il pagamento di una cambiale scaduta (in Cooperativa Scrittori, a cura di, 1973, II, p. 1724). Giuliano chiedeva, a suo modo, che la Dc mantenesse le promesse. Quelle promesse erano cominciate nei giorni di Portella della Ginestra?


1.3. Il centrismo a Roma e a Palermo

Contestualmente con l’operazione che porta ad addossare tutto a Giuliano e a scagionare mafiosi (nonostante le molte testimonianze), agrari (nonostante l’evidenza del gioco degli interessi) e forze politiche conservatrici (nonostante che i nomi di alcuni loro esponenti siano circolati ampiamente, dopo la strage e successivamente) si svolge la manovra che porterà alla rottura della Dc con le sinistre e all’alleanza con le destre.

L’iniziativa di formare il governo regionale è presa dalla Dc (non c’era nessuna regola, ma c’era da attendersi che assumesse l’iniziativa il partito di maggioranza, cioè il Blocco del Popolo).

Il «Giornale di Sicilia» il 7 maggio pubblica un’intervista a Giuseppe Alessi, uno degli esponenti democristiani più noti, in viaggio a Roma, per colloqui con Sturzo, De Gasperi, Aldisio, Scelba e con il segretario nazionale della Dc. Dice Alessi: «la Sicilia ha interesse a non creare situazioni antitetiche a quella romana, specialmente in questo che è il primo momento del nostro esperimento regionalistico; ma tra l’antitesi e il servile conformismo c’è una terza via che è la nostra: l’autonomia».

Quindi, il governo regionale potrà anche essere diverso da quello romano, comunque il primo problema in Sicilia è salvare lo Statuto regionale, che è in pericolo (un allarme che percorre tutta la storia dell’autonomia siciliana). Pertanto, la Dc rivolgerà «un appello concreto a tutti i partiti, perché in questo momento mettano la Sicilia avanti ad ogni divisione e si stringano attorno ad un Governo che, rafforzato dalla concordia e dall’unanimità, rappresenti autorevolmente la decisione della Sicilia di mantenere salda la sua conquista». Ma è possibile ottenere l’unanimità? La risposta di Alessi: «l’unanimità si deve cercare, se non nella partecipazione almeno nel voto favorevole al primo governo regionale». C’è un vincolo di necessità, appunto la difesa dello Statuto, che deve essere riconosciuto da tutti.

L’ispiratore della posizione di Alessi è Luigi Sturzo che in una lettera inviata ad Attilio Salvatore, commissario regionale Dc per la Sicilia, pubblicata in «Sicilia del Popolo» del 25 marzo con il titolo La Sicilia al di sopra dei Partiti, sosteneva la necessità che si formasse in Sicilia un governo che ponesse mano ad impiantare la nuova regione:

«Tale governo non sarà di un solo colore; il sistema elettorale e il frazionamento dei partiti non lo consentono. Perciò è da augurare che per un anno almeno, i partiti dichiarino la tregua politica all’intento di attuare lo statuto, organizzare i servizi regolandone il passaggio dallo Stato alle Regione, impiantare la finanza regionale, (…) affrontare i problemi che sorgono a ogni piè sospinto al primo impianto della nuova gestione».

Alessi, pertanto, riprendendo la tesi di Sturzo, propone una sorta di governo regionale costituente, con la partecipazione di tutti.

Li Causi su «La Voce della Sicilia» del 17 maggio faceva un quadro della situazione:

«Dopo le elezioni del 20 aprile due fatti nuovi di portata nazionale sono avvenuti: la strage di Portella della Ginestra e la crisi del governo nazionale. Questi due avvenimenti apparentemente separati hanno un nesso molto intimo tra di loro e, come a nessuno può sfuggire, con l’esito delle elezioni del venti aprile. Noi non siamo ancora in grado di valutare a pieno l’enorme portata della vittoria conseguita dalle forze della democrazia in Sicilia nelle elezioni per l’Assemblea regionale; non è esagerato affermare che esse hanno avuto un contraccolpo anche in campo internazionale».

A Portella le forze sociali e politiche colpite dalle elezioni di aprile hanno reagito ferocemente e la strage

«indica inequivocabilmente in quale direzione bisogna muoversi per aiutare le forze sane della nostra Isola a liberarsi da tutto ciò che finora ne ha impedito lo sviluppo e che da oggi in poi ne minaccia la stessa esistenza. Guai a chi oggi esita o peggio tenta il compromesso per lasciar sussistere la cancrena; guai a chi, non volendo tenere il dovuto conto del deciso orientamento democratico del popolo siciliano, viene a patti con i suoi nemici. Il discorso è essenzialmente rivolto alla Democrazia cristiana, e in special modo a quella sua parte che, pur essendo convinta che bisogna estirpare la mafia – cioè quella organizzazione che, avendo perduto ogni ragione di esistere, da tumore parassita che impedisce lo sviluppo dell’organismo, è diventato cancro maligno che lo minaccia di morte – è ancora in preda ad esitazione».

Prima la parte più retrograda della Dc, che obbedisce all’alto clero, ha tentato con Aldisio di recuperare le forze che facevano capo al separatismo; ora Scelba tenta di fare diventare il suo partito il sostegno delle forze reazionarie che avevano creduto di trovare salvezza nel qualunquismo monarchico. Scriveva Li Causi:

«A togliere ai sinceri democratici ogni legittima preoccupazione e ogni fondato sospetto che la Democrazia cristiana abbia qualcosa in comune con le forze sociali e politiche sconfitte dal popolo siciliano il venti aprile, varrà la posizione che questo grande partito assumerà nell’Assemblea regionale per esprimere il governo autonomo della Sicilia. La indicazione degli elettori è chiara: il governo deve essere costituito dalle forze del Blocco del Popolo, da quelle degli altri partiti democratici intermedi, e dalla Democrazia cristiana. E se è vero, come ancora non è stato smentito, che anche il Mis di Finocchiaro non è una forza di destra, questo governo, se non il suo appoggio incondizionato, non avrà la sua sistematica opposizione».

Il governo ipotizzato da Li Causi può contare su una maggioranza consistente: assieme il Blocco del Popolo, la Democrazia cristiana, il Partito repubblicano e il Partito socialista lavoratori italiani hanno 56 seggi su 90.

«La Voce della Sicilia» del 18 maggio, in quarta pagina, sotto il titolo Cadranno i democristiani nella trappola degli agrari?, scriveva:

«L’Assemblea così come è uscita dalle elezioni democratiche del 20 aprile rappresenta nei suoi uomini questo contrasto di posizioni: un folto gruppo che rappresenta le forze sane e democratiche, di fronte ad una sparuta minoranza degli interessi che a queste forze si oppongono con tutti i mezzi.

Al centro sta la Democrazia cristiana esitante, verso cui si appuntano gli sguardi e la concupiscenza delle destre retrive ed antiautonomiste. (…) Il principale sforzo delle destre si concentra intorno al vecchio senatore qualunquista Cipolla, già Procuratore generale del re, che dalla magistratura è balzato sulle scene politiche con l’appoggio dei gruppi più reazionari della provincia di Caltanissetta. Liberali, qualunquisti e monarchici avrebbero dato la loro totale adesione alla sua candidatura per la presidenza regionale, a quanto sembra con l’appoggio di qualche deputato democristiano. Il senatore villalbese Cipolla ed il principe Starrabba di Giardinelli, presidente degli agrari, sarebbero così i campioni che (…) le destre offrirebbero alla collaborazione della Democrazia cristiana».

Nello stesso articolo viene data la notizia che il gruppo parlamentare democristiano ha formalizzato la proposta già preannunciata da Alessi: un governo di unione siciliana, formato da tutte le componenti dell’Assemblea, mentre il gruppo del Blocco del Popolo il giorno dopo propone un governo di unità (o concentrazione) democratica.

Nel rapporto ai quadri del Pci di Palermo Li Causi dice: «Dietro la facciata del governo di coalizione c’è il tentativo di impedire il rinnovamento sociale della vita siciliana» (VdS 20 maggio 1947).

La destra sente che il vento spira decisamente a suo favore e assume atteggiamenti di aperta tracotanza. Titola «La Voce della Sicilia» del 20 maggio: Al consiglio comunale. Il cordoglio per i martiri della Ginestra avvilito dalle gazzarre monarchiche. Nella discussione su un ordine del giorno presentato dal consigliere Roberti, il monarchico Marchesano chiede di cassare l’espressione «reazione agraria» e parla di «pseudo repubblica». Pompeo Colajanni ricorda la serie di delitti che stanno a provare che proprio di «reazione agraria» si tratta. Il democristiano Corsaro replica l’analisi di Scelba, i socialdemocratici ripropongono il testo accogliendo le osservazioni di Marchesano, i consiglieri del Blocco del Popolo abbandonano l’aula e il principe Alliata, al termine della seduta, grida: «Saluto al re».

«Sicilia del Popolo» il 20 maggio titola: Il pericolo comunista in Italia denunciato da Sumner Welles, ex sottosegretario di Stato americano che sostiene che il Pci riceve fondi dall’URSS, e il 21 ribadisce la linea del partito in Sicilia: «La politica dei blocchi contrapposti compromette la nostra autonomia». Togliatti risponde per le rime (l’editoriale su «La Voce della Sicilia» del 20 maggio è firmato da lui e ha come titolo: Ma come sono cretini!) e il comunista Montalbano sulla «Voce della Sicilia» del 24 maggio scrive che il governo di unione siciliana vuol dire la riproposizione del sicilianismo, «che nel suo significato più stretto significa: difesa nell’isola dello statu quo, della tradizione, in una parola del semifeudalismo agrario».

Nello stesso numero del quotidiano si dà notizia di un comizio di Alessi a Villalba il 18 maggio. Alessi avrebbe detto: «La Dc villalbese è al centro della politica del nostro partito. Villalba è rappresentata dall’illustre, onesta, illibata famiglia Farina-Vizzini e si sappia che dietro l’avv. Beniamino Farina c’è tutta la Dc isolana, dico tutta la Dc». L’articolo così proseguiva: «Finito il comizio l’avv. Alessi sarebbe stato accompagnato alle porte del paese e portato in trionfo negli ultimi cento metri da un gruppo di mafiosi, mentre, per l’occasione, dai balconi di Giovanna Cipolla, sorella del senatore, del sacerdote Lumia e di altri “amici” pendevano bandiere tricolori con la ranocchia sabauda».

Il quotidiano comunista invita la Dc a smentire, ma non ho trovato nessun cenno di smentita su «Sicilia del Popolo» che in quei giorni inneggia alle imprese oratorie del gesuita padre Lombardi a Palermo.

Ormai le scelte sono fatte: il 28 maggio si ha l’elezione di Cipolla a presidente dell’Assemblea regionale con 46 voti del centro-destra. Chi è Cipolla? Montalbano sulla «Voce della Sicilia» del 29 e in aula richiama i trascorsi fascisti di Cipolla: «ha fatto: l’apologia del fascismo; l’apologia del Tribunale speciale fascista; l’apologia della pena di morte; l’apologia della forza bruta; l’apologia dell’annientamento dell’individuo nello Stato; l’apologia del totalitarismo». Cipolla non nasconde il suo passato: l’incipit del suo discorso di insediamento alla presidenza è il seguente: «Signori consiglieri, vinto dalle possenti reminiscenze dei consigli nazionali fascisti…». Li Causi e Montalbano abbandonano l’aula.

Il 30 maggio Alessi è eletto, sempre con 46 voti del centro-destra, presidente di un governo monocolore democristiano. Lo stesso giorno De Gasperi diventa presidente del primo governo centrista. «Governi cancelliereschi», li definisce «La Voce della Sicilia».

Nell’editoriale dell’1 giugno dal titolo Dalla pietra di Barbato, il quotidiano comunista ribadisce che sparando a Portella le forze reazionarie hanno voluto cancellare con la violenza i risultati del 2 giugno e del 20 aprile e parla di «imperdonabile errore commesso da chi ha creato un governo settario». Ma non si tratta di un errore bensì di una scelta compiuta con piena consapevolezza nel quadro di una strategia lucidamente elaborata e coerentemente attuata.

Nelle dichiarazioni programmatiche del 12 giugno il presidente Alessi fa un rapido accenno alla strage del primo maggio: «La strage di Portella dev’essere cancellata, oltre che dallo sdegno delle nostre popolazioni e dagli atti di solidarietà che dovunque hanno testimoniato la rivolta della coscienza morale – sovrattutto da una esemplare giustizia riparatrice. Nulla resterà di intentato perché tutti i colpevoli cadano sotto il filo tagliente della spada della giustizia» (SdP 13 giugno 1947). Come dire: è un problema giudiziario, che va risolto dai magistrati; come sappiamo, la spada della giustizia non si dimostrerà particolarmente affilata.

Li Causi ammonisce: «non potrete governare senza il popolo lavoratore» (VdS 14 giugno 1947), ma ormai è un discorso che cade nel vuoto. Le destre hanno vinto, grazie alla scelta della Dc, e non c’è da sorprendersi se vogliono avere una vittoria piena. All’Assemblea regionale viene presentata e discussa una proposta di amnistia. L’indipendentista Germanà la propone anche per i delitti politici, escluse le stragi. La sinistra obietta: dovrebbero essere assolti gli assassini di Miraglia?

«La Voce della Sicilia» il 12 giugno scrive: «In regime cancellieresco. Gli assassini di Miraglia e i loro complici passano alle provocazioni, fidando sull’impunità. Il cavaliere Enrico Rossi e il barone Francesco Pasciuta hanno fatto la loro comparsa in pubblico a Sciacca dopo oltre due mesi di latitanza». Com’è noto, il delitto Miraglia è destinato a rimanere impunito, ma questa non è un’eccezione ma la regola: tutti gli omicidi di dirigenti e militanti delle sinistre e del movimento contadino saranno impuniti.

Il 19 giugno La «Voce della Sicilia» titola: Il compromesso della D.C. con le destre si scopre senza pudore all’Assemblea regionale. Il servizio sulla seduta all’assemblea riporta l’intervento del qualunquista Castiglia che invita a finirla con fascismo e antifascismo e sostiene che «al nord si ammazza di più» che in Sicilia, con chiara allusione all’Emilia comunista, e riferisce dell’abbandono dell’aula da parte dei deputati del Blocco del Popolo dopo che il presidente dell’assemblea ha negato loro la parola sull’ordine del giorno che vuole l’inserimento dello statuto siciliano nella costituzione.

Alessi replica alle accuse della sinistra: anche i voti dei partiti di destra, come l’Uomo qualunque, sono voti popolari; si può governare senza i comunisti, ma in politica non ci sono unioni indissolubili: «la Dc è l’unico partito che possa avvicinare le parti contrastanti e metterle su un piano di collaborazione» (SdP 19 giugno 1947).

Dopo gli attentati della notte tra il 22 e il 23 giugno, nel dibattito all’assemblea regionale del 24 giugno, Li Causi pronuncia uno dei suoi discorsi più memorabili, riportato da «La Voce della Sicilia» del 26 giugno (ripubblicato in Santino 1997, pp. 168-175). Si continua a minimizzare, prima lo si è fatto con Portella e ora lo si fa con gli attentati di giugno: per Scelba, per i democristiani, sono sempre e soltanto «fatti circoscritti». Una vecchia storia, che rimonta ai Fasci siciliani e a tutte le vicende successive. Eppure anche i carabinieri hanno capito. Li Causi richiama due relazioni del 1946: la prima parla di rapporti dei separatisti con la mafia e la seconda, redatta dal generale Branca, contiene un’analisi «precisissima» della mafia, che Li Causi riporta ampiamente. Secondo il generale dei carabinieri, la mafia è

«l’organizzazione interprovinciale occulta, con tentacoli segreti che affiorano in tutti gli strati sociali, che ha come esclusivo obiettivo l’illecito arricchimento a danno degli onesti e degli indifesi. La mafia ha ricostituito le sue famiglie specialmente nella provincia di Palermo, Trapani, Caltanissetta, Enna ed Agrigento. La mafia, come prima dell’avvento del fascismo al potere, è riuscita ad imporre ai proprietari terrieri campieri ed impiegati di suo gradimento, a far concedere gabelle ed aziende agricole, ad influenzare in un certo qual modo con la violenza anche la vita pubblica, ostacolando non solo l’attività dei singoli privati ma tentando di opporsi con minacce e violenze ai danni delle organizzazioni sindacali, alle recenti conquiste dei lavoratori: divisione dei prodotti agricoli, ammassi».

Come si vede, la tesi della mafia come «organizzazione interprovinciale occulta» non è nata con le rivelazioni di Buscetta su Cosa nostra.

Li Causi incalza: il governo conosceva la situazione, il blocco agrario prima ha appoggiato il separatismo poi si è spostato verso i liberal qualunquisti monarchici, il risultato delle elezioni del 20 aprile ha spaventato le forze reazionarie e la responsabilità della Dc sta nell’essersi alleate con esse, rompendo con le sinistre:

«Quando la Dc sceglie come suo appoggio politico la destra, indipendentemente da quello che può pensare l’on. Alessi, che cosa significa? La sinistra è esclusa dal potere. Addosso alla sinistra. Ciascuno interpreta così. Quelle forze armate e quegli strati sociali che avevano dato appoggio al blocco agrario e ai partiti di destra hanno ritenuto giunto il momento per scagliare la loro offensiva contro le forze della democrazia, contro le forze del lavoro».

Chi ha dato a Giuliano la bandiera antibolscevica? – si chiede Li Causi. Sono quegli stessi che l’avevano reclutato nelle file separatiste e che ora usano le sue armi contro le sinistre, promettendogli ancora una volta l’impunità. Ma è la scelta della Dc che permette che ciò avvenga. Le responsabilità politiche si coniugano con il problema sociale: bisogna eliminare il gabelloto, cioè tutto ciò che è parassita e che soffoca la realtà siciliana e condurre una lotta senza quartiere per spezzare i legami tra banditismo e mafia; la Dc deve rompere i vincoli che la legano alle forze reazionarie e volgersi verso i contadini, i lavoratori, i piccoli proprietari e industriali, i ceti medi produttivi disponibili per un’azione di risanamento che l’attuale governo non può condurre.

«Sicilia del Popolo» commentava:

«Tutti gli oratori, da Li Causi a Colajanni, Bonfiglio, Ramirez e D’Antoni ed anche lo stesso Presidente Alessi hanno parlato di una catena di delitti, hanno parlato di antecedenti logici, si son richiamati come esempio più vicino alla strage di Portella della Ginestra. Gli oratori del blocco però hanno dimenticato, hanno creduto bene di dimenticare, la composizione governativa che si profilava e si dava per certa allorché ebbe luogo la strage di Portella della Ginestra. Composizione che prevedeva l’inclusione di molti elementi di sinistra. Ed allora che cosa aveva fatto alzare la testa agli autori della strage del 1 giugno [maggio]? Non certo la Dc con il suo spostamento a sinistra e con l’esclusione della destra dal Governo» (SdP 26 giugno 1947).

Il commento del quotidiano democristiano, involontariamente, coglie nel segno: è proprio il processo di formazione di un governo con le sinistre che si è voluto arrestare con Portella e il risultato era sotto gli occhi tutti, anche di chi non voleva vederlo: la Dc aveva accolto positivamente il messaggio di Portella, escludendo le sinistre e alleandosi con le destre.


1.4. Il ruolo della Dc nell’analisi delle sinistre

La Dc non è arrivata al centrismo e alla rottura con le sinistre con una svolta imprevedibile ma quelle scelte sono lo sbocco di un processo. Lo avevano colto perfettamente esponenti delle sinistre come Mineo e Li Causi.

Nel maggio del 1945 Mario Mineo, allora venticinquenne, aveva pubblicato una serie di articoli su «La Voce Socialista», in cui analizzava il ruolo di Aldisio come Alto commissario teso a unificare la reazione, recuperando attraverso l’autonomismo le forze separatiste. Scriveva Mineo: reazionari unitari e reazionari separatisti sono stati finora divisi,

«senonché la reazione unitaria, guidata dal partito democristiano, non può oggi tollerare questa scissione insensata, quest’opposizione reazionaria che per necessità demagogiche potrebbe senz’altro dar esca all’incendio che cova tuttora in Sicilia. Essa è impegnata nel gioco più largo della reazione italiana (e forse, più esattamente internazionale), la quale deve prepararsi ad affrontare, unita in un blocco quanto più compatto è possibile, il vento del Nord e le sue possibili ripercussioni nell’Italia liberata. I democristiani quindi hanno perso la pazienza e tirato energicamente le orecchie a Finocchiaro Aprile (…). Il bluff separatista è ormai scoperto: nella impossibilità costituzionale di evolvere in senso rivoluzionario, il movimento sarà tra poco assorbito dai partiti unitari di destra. Tra poco sarà lietamente annunziato (…) che non vi sono più in Sicilia reazionari separatisti e reazionari unitari ma solo reazionari unitari largamente autonomisti» («La Voce Socialista» 4 maggio 1945).

Gli articoli, firmati EMME, recano in calce delle note che avvertono: «le conclusioni del nostro collaboratore non impegnano la linea del nostro partito».

In un articolo pubblicato su «La Voce della Sicilia» del 18 luglio 1945 Girolamo Li Causi, parlando delle tensioni tra alcuni partiti democratici aderenti al Cln e la Democrazia cristiana, scriveva:

«Le cause della tensione tra noi e i democratici cristiani sono essenzialmente due, e cioè: la mancanza di una sincera volontà nei demo-cristiani di collaborare per raggiungere una effettiva unità sindacale attorno alle Camere del Lavoro; e poi l’ostilità, ora aperta ora larvata ma sempre operante verso il nostro Partito al quale si vuole precludere il diritto di avere i suoi membri ai posti di responsabilità nel comuni e nelle province.

La Democrazia cristiana vuol diventare in Sicilia il “partito dell’ordine”, cioè il partito delle forze conservatrici che vogliono serbare in piedi il più possibile della nostra vecchia struttura economica sociale e politica con il fronte rivolto contro le grandi masse dei lavoratori e specialmente dei contadini per contenere le profonde e vivamente sentite esigenze economiche e politiche e comunque impedirne l’accesso alla direzione politica isolana.

Cioè nella nostra isola più che in qualsiasi altra regione d’Italia la Democrazia cristiana ha nel suo seno e quindi ai posti di responsabilità i rappresentanti della classe dei latifondisti, degli agrari con il loro corteggio di famiglie e clienti, tradizionalmente dominanti nei singoli paesi contro i contadini e che questa posizione di dominio vogliono conservare. Questo partito perciò in Sicilia vive ed agisce sotto la costante pressione di queste forze retrive che si illudono di potere non solo conservare ma rafforzare, dietro la Democrazia cristiana, i loro privilegi».

Nel gennaio del 1946 le sinistre chiedono la sostituzione di Aldisio come Alto commissario. I banditi reclutati dai separatisti (la banda Giuliano, i niscemesi) hanno mano libera, assaltano le caserme, uccidono carabinieri e il gioco si è fatto fin troppo scoperto. Si legge in un ordine del giorno presentato al Cln da Mineo: «la situazione determinatasi in Sicilia ha origine nella volontà di minoranze reazionarie di forzare la mano al governo per ottenere, con decreto luogotenenziale, un’autonomia antidemocratica non suffragata dal voto popolare». L’Alto commissario Aldisio «ha sin oggi seguito una politica di compromesso e di concessioni nei riguardi delle minoranze suaccennate, nonostante i precisi impegni assunti a suo tempo davanti al Comitato di Liberazione» (in Santino 1997, p. 115), per cui si esprime sfiducia nella sua azione. Il Cln si spacca a metà: Pci, Ps, Partito d’azione sono contro Aldisio; Dc, liberali, democratici del lavoro lo difendono. Il presidente del Consiglio De Gasperi impone che Aldisio rimanga al suo posto: lascerà l’Alto commissariato solo dopo la sua elezione alla Costituente.

Le analisi e l’operato delle sinistre siciliane sono in contrasto con gli organismi centrali, che valutano diversamente il ruolo della Dc e pensano che bisogna fare di tutto per non rompere con essa, proprio mentre sono in atto all’interno della Dc grandi e piccole manovre per rompere con le sinistre. Su «La Voce socialista» del 12 gennaio Mineo pubblica un editoriale dal titolo Tragica incomprensione. Al comitato centrale del Psi, parlando delle elezioni amministrative, si è detto che in Sicilia bisognerebbe presentare liste di tutti i partiti del Cln da contrapporre ai separatisti. Scrive Mineo:

«C’è in verità in tutti gli ambienti del Centro un’incomprensione assoluta, tragica per le conseguenze cui può portare, del problema siciliano. Sembra incredibile che non si sia ancora compreso che in Sicilia non ci sono forze più a destra dei partiti nazionali di destra, cioè più a destra dei liberali, dei democratici del lavoro e della Democrazia cristiana, che è a capo dell’intera reazione isolana – ma come meravigliarsene se gli stessi compagni comunisti accettano ancora oggi spesso e volentieri questa tesi?

Sembra impossibile che non si sia ancora compreso che in Sicilia non ci sono stati e non ci sono – salvo trascurabili eccezioni – veri separatisti, ma soltanto reazionari pronti a ricorrere al separatismo se questo può garentire la salvezza dei loro privilegi di classe e pronti a restare unitari se l’unità può mantenersi su formule sufficientemente reazionarie. Che in tale atteggiamento tutte le forze retrive dell’isola sono concordi; che l’autonomia che essi chiedono non è l’autonomia cui parte dei ceti medi siciliani guarda come a un rimedio contro lo sfruttamento del capitalismo industriale del Nord, ma l’autonomia che garentisca, ai baroni, ai latifondisti, ai maffiosi la possibilità di sganciarsi dalla stessa reazione italiana, il giorno in cui fosse manifestamente impossibile a questa di impedire l’avvento della democrazia in Italia e di tornare agevolmente al separatismo. Sembra impossibile che non si sia ancora compreso che l’Alto Commissariato è stato il principale strumento attraverso il quale la reazione ha consolidato in Sicilia le proprie posizioni; che non si comprenda oggi che le operazioni militari, iniziate su vasta scala dalle bande delinquenziali, stipendiate dagli agrari ed inquadrate dai grandi maffiosi (per lo più democristiani), hanno esclusivamente lo scopo di imporre al governo il varo immediato del progetto altocommissariale di autonomia regionale, spaventandolo con la prospettiva di una rivolta “popolare”; e che in tutte queste faccende, dal separatismo all’autonomia, l’autentico popolo siciliano – operai, contadini, impiegati – non ha nulla da fare.

È necessario che i dirigenti centrali dei partiti di sinistra, che i compagni al governo, comprendano che non ci sono vie di mezzo. Non sono possibili accordi con la Democrazia cristiana o con gli altri partiti di destra in Sicilia. Il fronte unico antiseparatista accanto ai partiti di una reazione bifronte è un’assurda beffa. Se le leve del potere restano ancora per qualche tempo in mano alle destre, in Sicilia le elezioni saranno fatte dalla maffia, cioè in Sicilia la democrazia sarà morta prima di nascere.

Ciò significa in ultima analisi che se i partiti di sinistra, per paura di una nuova crisi di governo o del fallimento dell’accordo in campo nazionale con la Democrazia cristiana, lasciano che la situazione siciliana resti fino alla Costituzione immutata, esse avranno l’enorme responsabilità di aver contribuito a creare la Vandea nel Mezzogiorno d’Italia, di aver contribuito cioè ad una nuova sconfitta della democrazia e del proletariato italiano» (ripubblicato in Mineo 1995, pp. 115 s.).

Mineo è già adesso e rimarrà fino alla fine un uomo di minoranza, ma anche Li Causi non avrà vita facile e la sua linea d’azione sarà soggetta a critiche (si vedano gli Atti del convegno «Togliatti e il Mezzogiorno» pubblicati a cura di De Felice nel 1977, in cui Amendola lo definisce «tribuno del popolo»).

Eppure Mineo e Li Causi sono gli unici, o tra i pochi, che hanno capito cosa stava succedendo. Anche in Sicilia c’è stato un quarto partito: il partito della violenza e dell’illegalità, nella sua triplice articolazione: banditesca, mafiosa, istituzionale, partito coperto e cooptato dalla Dc che si avvia a diventare il partito-stato.


1.5. Il ruolo della Chiesa siciliana

La Chiesa in Sicilia ha avuto un ruolo decisivo nell’appoggiare la scelta a destra della Dc. Lo storico Francesco Michele Stabile ha pubblicato documenti significativi per capire come operava il cardinale Ruffini, in coerenza con la sua concezione del vescovo come «comandante in capo delle forze cattoliche» (Stabile 1992, p. 257).

Ruffini, in una lettera al prefetto della congregazione concistoriale del 9 aprile 1947, attacca la Dc per la sua propaganda a favore della repubblica nel referendum istituzionale, per il decreto agrario Segni «formulato in termini quasi rivoluzionari che ha dato ai nervi a non poche persone oneste», per il governo con le sinistre («l’unione al governo con elementi estremisti della sinistra rivoluzionaria e anticlericale può essere da noi spiegata e scusata; ma molti dei fedeli non riescono ad intenderla»), per l’unità sindacale («l’unità sindacale che culmina nella Camera del Lavoro ha fatto servire praticamente i lavoratori cristiani al progresso del comunismo. (…) Qui non si conosceva quasi per nulla il comunismo ed oggi dobbiamo assistere a sfilate interminabili di bandiere rosse al canto dell’inno dei lavoratori») (ibidem, pp. 262 s.).

Nel giugno del 1947 il cardinale Ruffini scrive al Papa per proporre – riprendo la sintesi di Stabile – «di abbandonare la disciplina dell’unità politica dei cattolici nella Dc, riconoscendo anche alle destre, e soprattutto ai monarchici, il ruolo di difensori degli interessi cattolici, per creare un vasto fronte anticomunista e la stabilità del governo cattolico» (ibidem, pp. 263 s.). La lettera merita di essere riportata almeno in alcuni stralci significativi:

«La Democrazia cristiana sicula, indipendentemente dal movimento che si andava svolgendo nello stesso senso a Roma, è riuscita a costituire il Governo Regionale, appoggiandosi ai partiti di destra. La conseguenza di questo nuovo orientamento è una diminuzione rilevante dell’efficienza socialcomunista. Sento di dover confermare che la Dc qualora avesse continuato a collaborare con le estreme sinistre, almeno qui in Sicilia, avrebbe causato il sopravvento del Blocco Popolare e quindi distrutto se stessa».

Ruffini, a meno di due mesi da Portella della Ginestra e qualche giorno dopo gli attentati del 22 giugno, parla dell’uso della violenza come «resistenza alle prepotenze dei comunisti»:

«Come vescovo non posso certamente approvare le violenze da qualunque parte provengano; ma è un fatto che la reazione all’estremismo di sinistra va prendendo proporzioni impressionanti. Del resto si poteva prevedere come inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti. Ancora si ha troppa paura di quella gente illusa e manovrata da uomini senza fede. Per gli attacchi di cui sono state fatte segno alcune sedi di quel partito si è proclamato lo sciopero. Governo Centrale e Regionale intervengono a difendere con prontezza ed energia e sta bene, perché l’ordine deve essere mantenuto e la Legge osservata! ma non si è mostrato lo stesso zelo da parte dei poteri pubblici per la tutela dei sacerdoti perseguitati e uccisi in diverse Province d’Italia».

All’esclusione dei comunisti dal governo deve seguire la rottura dell’unità sindacale («Qui ogniqualvolta si ha una manifestazione della Camera del lavoro è soltanto il comunismo che si afferma») e bisogna formare un fronte anticomunista unitario. L’attenzione del cardinale è soprattutto rivolta ai «monarchici fervidissimi i quali non riusciranno mai a persuadersi che per essere cattolici devono votare per la Dc che si è pronunciata definitivamente per la Repubblica» (ibidem, pp. 264 ss.). Già prima Ruffini non aveva fatto mistero delle sue simpatie monarchiche, affacciandosi al balcone del Palazzo reale accanto a Umberto II in visita a Palermo, alla ricerca di suffragi per il suo trono vacillante.

In linea con questa visione è la richiesta di messa fuorilegge dei comunisti, contenuta nella lettera del cardinale al ministro dell’Interno Scelba del 30 aprile 1948, dopo la vittoria della Dc alle elezioni del 18 aprile:

«Eccellenza, mi rallegro innanzi tutto con Lei per il bene che ha fatto all’Italia con la Sua prudenza ed energia. Qui in Sicilia abbiamo lavorato intensamente ma il frutto ha ripagato con larghezza le nostre fatiche. Ritengo che anche Vostra Eccellenza sia stata soddisfatta. Vorrei però farle presente che il pericolo della nostra cara Patria non è completamente scongiurato. L’esito delle Elezioni ha dimostrato che ci sono ancora delle estese zone infette di comunismo. Gli invasati di quel sistema incivile e diabolico tramano forse nell’ombra qualche tradimento. È desiderio comune che si trovi presto modo di mettere i nemici di Dio e della Patria fuori legge, sopprimendone le organizzazioni; altrimenti la vittoria raggiunta non offrirebbe alcuna seria garanzia» (ibidem, pp. 282 s.).

Il desiderio di Ruffini non sarà esaudito. I comunisti non saranno messi fuorilegge, nel 1949 saranno scomunicati ma già dal 1947 sono stati messi fuorigioco politicamente, con tutti i mezzi, compresi le stragi e gli omicidi.

 

2. Portella e il doppio Stato

Nello studiare l’uso della risorsa violenza-illegalità da parte delle istituzioni analizzerò il ruolo delle forze dell’ordine (carabinieri, polizia, Corpo forze repressione banditismo, esercito), della magistratura, delle amministrazioni locali e del governo centrale.


2.1. Le forze dell’ordine: non solo Messana…

Li Causi parlando all’Assemblea costituente il 15 luglio 1947 dice che il banditismo politico in Sicilia è diretto dall’ispettore Messana, cioè che il capo della polizia è il regista del terrorismo anticomunista. Messana era una figura ben nota, fin da quando nel lontano 1919 a Riesi come commissario aveva ordinato il fuoco sui contadini che manifestavano chiedendo l’espropriazione dei latifondi. 11 dimostranti erano rimasti uccisi, ma nel corso degli scontri provocati dalla sparatoria delle forze dell’ordine c’erano stati altri morti (in tutto ci sarebbero stati 15 morti e 50 feriti, ma come al solito il bilancio è incerto, e lo è anche per Portella della Ginestra). Tra le benemerenze successive di Messana c’era la sua inclusione in un elenco di criminali di guerra della Francia, ma ciò nonostante era stato nominato capo dell’Ispettorato di polizia e aveva operato da par suo.

Li Causi porta le prove delle sue accuse: nel settembre del 1946 c’era stato l’attentato di Alia con due morti, la questura di Palermo aveva operato dei fermi ma Messana aveva fatto rilasciare i fermati. Così pure dopo un delitto di mafia avvenuto a Trabia. Il colmo era stato raggiunto con la rivelazione che il bandito Ferreri, ucciso ad Alcamo il 26 giugno 1947, era suo confidente. I carabinieri avevano ucciso quattro banditi ma Ferreri era stato solo ferito. Il capitano dei carabinieri Giallombardo, a suo dire aggredito da Ferreri che aveva dichiarato di essere confidente dell’ispettore Messana, l’aveva ucciso. Ferreri si era macchiato di molti delitti e Li Causi si chiede: «come è possibile che l’Ispettore di pubblica sicurezza abbia per suo confidente un bandito di questa specie? Noi tutti sappiamo che la polizia ha bisogno di confidenti. Ci sono confidenti e confidenti; ma come si spiega il caso in questione?» (in Santino 1997, p. 178). Era da Ferreri che Messana aveva appreso che a Portella aveva sparato Giuliano, rivelazione che non manca di fare allo stesso Li Causi qualche ora dopo la strage? Li Causi nel corso di un’audizione davanti alla Commissione antimafia, del gennaio 1971, chiederà al generale Paolantonio se non avevano avuto sentore dei preparativi della strage, dato che erano in rapporto con Ferreri che alla strage aveva preso parte, ma Paolantonio dichiarerà che non ne avevano saputo nulla (ibidem, p. 211).

Lo stesso giorno in cui Li Causi pronuncia il suo atto d’accusa Messana viene sollevato dall’incarico: ormai la sua posizione era diventata indifendibile. Dopo un intermezzo con Coglitore, Modica e Spanò, nel gennaio del ’49 sarà nominato capo dell’Ispettorato di polizia in Sicilia Ciro Verdiani, ex funzionario dell’Ovra, che avrà rapporti con capimafia e continuerà ad avere rapporti con Giuliano (ben noto il suo incontro con il bandito la notte di Natale del 1949 con panettone e liquori e in alcune lettere si rivolge al bandito chiamandolo «Caro Salvatore») anche dopo l’abolizione dell’Ispettorato. Il suo scopo: fargli scrivere un memoriale in cui si assuma tutta la responsabilità di Portella, discolpando i mandanti. Verdiani fu successivamente incriminato per favoreggiamento ma la morte (ufficialmente per attacco cardiaco, ma forse per avvelenamento: Barrese-D’Agostino 1997, p. 300), nel marzo del 1952, doveva sottrarlo alla giustizia.

L’Ispettorato di polizia viene abolito nel maggio del 1949 e sostituito con il Cfrb (Comando forze repressione banditismo) diretto dal colonnello dei carabinieri Ugo Luca. I metodi rimarranno gli stessi e i rapporti con banditi e mafiosi continueranno ad avere un ruolo centrale. Il risultato sarà l’assassinio di Giuliano con la messinscena che crollerà miseramente alla prima occhiata di qualche giornalista (Tommaso Besozzi, ma prima di lui Franco Grasso, come ci ha detto nel corso di questo convegno) che «non beve» la verità ufficiale.

La morte di Giuliano è la prova inoppugnabile che c’è stato un patto con i mafiosi delle forze dell’ordine che agivano al di fuori di ogni legalità. Questo non significa operare una criminalizzazione generalizzata. Il quadro presenta vistose contraddizioni. I carabinieri, come abbiamo visto, avevano capito molto, se non tutto, della strage di Portella e della mafia, ma poi si piegano ad addossare tutte le colpe al bandito. Ma, soprattutto, non possiamo dimenticare le decine di agenti di polizia e carabinieri morti in quegli anni. Forse non c’è immagine più icastica di questa per rendere l’idea del doppio Stato in versione italiana: i soldati morivano, vittime di una battaglia per il ripristino della legalità, mentre i comandanti generali si incontravano con i banditi e i mafiosi, praticando l’illegalità. Dei primi non è rimasto neppure il nome, i secondi hanno fatto carriera.


2.2. «Avanti Savoia!». I massacri dell’esercito e delle forze dell’ordine

Anche il comportamento dell’esercito e delle forze dell’ordine in funzione di ordine pubblico è spesso palesemente illegale. Le cronache degli anni ’40 sono piene di sparatorie sulla folla con molti morti. Si comincia il 19 ottobre 1944: a Palermo, durante una manifestazione contro il carovita davanti alla prefettura, l’esercito spara sui dimostranti. Secondo le dichiarazioni ufficiali i morti furono 19 e 108 i feriti; secondo il Cln, i morti furono 30 e i feriti 150. Tra le vittime molti ragazzi. Il processo contro i militari responsabili del massacro si concluse nel febbraio del 1947 con la concessione dell’amnistia.

Il 14 dicembre a Catania i soldati sparano durante una manifestazione di protesta contro la chiamata alla armi e uccidono un giovane. Pesantissimo il bilancio dei moti antileva a Comiso (19 morti tra i rivoltosi e 15 fra i militari) ma lì si è trattato di uno scontro armato.

A Palermo il 12 marzo 1946, durante uno sciopero di protesta contro la mancanza di generi alimentari, agenti e carabinieri usano le armi: restano uccisi il commissario di P.S. Antonino Calderone (forse per il colpi sparati da un carabiniere) e l’operaio del cantiere navale Giuseppe Maltesi. A Messina il 7 marzo 1947, durante una manifestazione contro il carovita, i carabinieri al grido di «Avanti Savoia!» sparano sulla folla uccidendo i manifestanti Biagio Pellegrino e Giuseppe Maiorana. Il 21 dicembre a Canicattì durante uno sciopero le forze dell’ordine usano le armi. Rimangono uccisi i manifestanti Giuseppe Amato, Salvatore Lauria e Giuseppe Lupo.

L’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine durante manifestazioni popolari non è una novità, anzi è in piena linea di continuità con una pratica che rimonta al tempo dei Fasci siciliani, e tanto allora che adesso siamo di fronte a forme di illegalità: si spara durante manifestazioni pacifiche, nulla faceva pensare che i manifestanti volessero aggredire le forze dell’ordine, tra le vittime ci sono bambini, passanti, semplici curiosi. L’ordine ufficiale ha avuto e continua a mantenere una chiara matrice di classe. Lo si vedeva non solo sulle piazze ma anche sulle aie dove si doveva spartire il prodotto a 60 e 40, in attuazione del decreto Gullo. In molti feudi intervenivano uomini armati per impedire ai contadini di applicare una legge dello Stato e carabinieri e poliziotti erano dalla parte dei proprietari che sostenevano che quella legge era un’invenzione dei comunisti.


2.3. La magistratura: non solo Pili

Com’è noto il bandito Giuliano si è incontrato con il procuratore capo di Palermo Emanuele Pili: durante il processo di Viterbo l’ex ispettore Verdiani «esibì l’originale di una lettera a lui inviata dal capo della banda in cui si legge quanto segue: “se lei riconosce che sia necessario farlo sentire anche a Sua eccellenza Pili può dirglielo e se chi sa vuole parlarmi personalmente sono disposto (!) (egli, il bandito, anzi il capo della banda) ed incontrarmi di nuovo mi farebbe piacere, perché sarebbe di grande conforto» (in Cooperativa Scrittori 1973, II, p. 1104).

Ma il procuratore Pili non è un’eccezione. La magistratura nel suo complesso «fraternizzava» – per usare un’espressione di Sutherland (1987, p. 324) – con gli agrari e i mafiosi, perché era accomunata ad essi dalle origini familiari e dalla collocazione sociale.

Frutto di questa «fraternizzazione» è l’impunità di tutti i delitti di quegli anni e l’esito del processo per la strage di Portella. L’inchiesta sul delitto Miraglia (ci sono due sentenze contraddittorie: una che assolve gli imputati perché avrebbero confessato sotto tortura, l’altra che assolve gli ufficiali di polizia accusati di sevizie «perché il fatto non sussiste», ma l’inchiesta non è stata riaperta) è forse l’esempio più emblematico del ruolo della magistratura, ma lo studio di tutte le inchieste di quel periodo su delitti di mafia ci darebbe uno spaccato significativo di una giustizia permanentemente schierata a difesa degli interessi forti, contro le classi subalterne.

Il presidente della Corte d’assise di Viterbo, Gracco D’Agostino, è stato definito da Li Causi «un galantuomo», ma anche lui si è prestato ad avallare scelte che costituivano dei veri e propri depistaggi al fine di coprire i responsabili.

Anche per la magistratura vale il discorso che facevamo prima: i magistrati degli anni ’40 e ’50 sono gli eredi dei magistrati dei processi per i delitti Panepinto, Verro e tanti altri, conclusisi con l’assoluzione degli imputati, ma in moltissimi casi, tanto prima che dopo, non si è arrivati neppure al processo. Le inchieste sono morte sul nascere e l’omertà, immancabilmente evocata, non c’entra nulla: i compagni dei militanti assassinati parlavano ma le loro testimonianze sono cadute nel vuoto. E questo vale ancora di più per Portella, dove un intero popolo si levò ad accusare e a testimoniare (Casarrubea 1997, pp. 177 ss.).

La «fraternizzazione» dei magistrati non è un lontano ricordo. Negli ultimi anni molte cose sono cambiate, l’impunità dei mafiosi è in buona parte crollata, ci sono stati magistrati uccisi per il loro impegno nelle inchieste sulla mafia, ma ci sono anche magistrati sotto inchiesta per collusione con la mafia, e la novità non consiste nella collusione ma nel fatto che si fanno inchieste e processi anche a loro carico.


2.4. Amministrazioni locali e criminocrazia formale

Dopo lo sbarco, gli alleati nominarono sindaci capimafia come Calogero Vizzini, a Palermo divenne primo cittadino Lucio Tasca, l’agrario dell’Elogio del latifondo. Fu una vera e propria assunzione diretta del potere da parte della mafia e degli agrari separatisti più o meno legati alla mafia. Sono loro che gettano le basi per l’intreccio mafia-potere politico che darà i suoi frutti in mezzo secolo di monopolio democristiano, configurandosi secondo una vasta gamma di possibilità: dalla compenetrazione organica, fino all’identificazione, alla contiguità; dal controllo del voto al condizionamento delle istituzioni, privatizzando i percorsi decisionali e accaparrandosi ampie porzioni di denaro pubblico, con gli appalti, le concessioni ecc. ecc.

Se negli anni ’40 si realizzano, almeno temporaneamente e in alcune situazioni, forme di criminocrazia formale, convivendo nelle stesse persone i ruoli di capimafia e di pubblico amministratore, con la costituzione della regione e della Cassa per il Mezzogiorno e l’incremento dei flussi finanziari pubblici, la mafia si configurerà, per l’accesso privilegiato a tali fondi e al credito di istituti di diritto pubblico, come «borghesia di Stato» (Santino-La Fiura 1990, pp. 111 ss.; Santino 1994).

Le motivazioni dei provvedimenti di scioglimento dei consigli comunali adottati negli ultimi anni contengono un quadro delle modalità di controllo mafioso sulle istituzioni: esso si realizza attraverso la presenza diretta di mafiosi come consiglieri, assessori o sindaci; rapporti di parentela, amicizia, affari con essi; intimidazioni ma più spesso interessi comuni.

Tutto questo è venuto alla luce ufficialmente solo adesso ma è nato fin dai primi giorni dell’Italia repubblicana. A denunciare tali situazioni prima erano soltanto uomini di sinistra, a loro rischio e pericolo, come si è visto per Giuseppe Impastato. Ma omicidi e attentati contro amministratori di sinistra sono una costante, dal sindaco socialista di Favara Gaetano Guarino, ucciso il 16 maggio 1946, a quello di Naro, Pino Camilleri, ucciso il 28 giugno successivo, alla campagna intimidatoria degli ultimi anni contro gli amministratori progressisti. Le amministrazioni che sfuggono al controllo mafioso mettono in pericolo una delle caratteristiche costitutive della mafia: la signoria territoriale.


2.5. De Gasperi: «Non si tratta della politica di un uomo…»

Scelba diceva quel che sappiamo sulla strage di Portella quando era ancora al governo la coalizione antifascista. Dopo la sua azione antipopolare continua e si aggrava, con la formazione della Celere, e nel suo ministero opera il generale Pièche, ex collaboratore dell’Ovra, a cui si deve la costituzione del Macri (Movimento anticomunista per la ricostruzione italiana), un’organizzazione paramilitare clandestina camuffata da fondazione cattolica di assistenza e beneficenza, e la formazione del Fronte antibolscevico, «un gruppo armato finanziato dagli Stati Uniti e dall’Intelligence Service che riuniva vari movimenti monarchici e fascisti» (De Lutiis 1985, pp. 50 s.; Marino 1995, p. 63), prima ancora di Gladio. Siamo in piena fenomenologia del doppio Stato ma la politica di Scelba non è solo farina del suo sacco.

Nel giugno del 1949 le sinistre tornano per l’ennesima volta ad attaccare il ministro siciliano, ricordando tutti i delitti impuniti e chiedendo come mai non si riesca a catturare Giuliano. Scelba replica dicendo che in Sicilia non c’è più criminalità che altrove, che per la strage di Portella sono stati arrestati i responsabili, che per lui sono soltanto i banditi, e De Gasperi interviene a suo favore con una dichiarazione che merita di essere riportata:

«Io vorrei dire ai membri dell’opposizione: essi hanno il diritto di rivolgere i loro attacchi e concentrarli sull’uno e sull’altro membro del Governo, come loro pare meglio. Però loro avranno osservato una tattica e un atteggiamento continuo del Ministero che ho l’onore di presiedere; gli attacchi contro un Ministro, se sono fondati, portano con sé le dimissioni di tutto il Gabinetto; se non sono fondati portano la resistenza di tutto il Gabinetto.

È inutile che si cerchi una formula curiosa, quale quella espressa nella mozione: “Il Governo viene invitato a provvedere alla immediata sostituzione del Ministro dell’interno”.

Il Governo ha una linea di condotta che si manifesta evidentemente nella direttiva del Ministero dell’interno. Questa direttiva è quella già accennata e riaffermata dal Ministro Scelba. Non si tratta della politica di un uomo, si tratta della politica solidale di un Governo democratico che difende l’ordine nella solidarietà politica e nella responsabiltà parlamentare» (in Santino 1997, p. 184).

I rappresentanti delle sinistre chiedevano già allora l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta che dovrà attendere tempi migliori. La commissione potrà essere istituita solo nel 1963, dopo la strage di Ciaculli, nella logica dell’emergenza che scatta dopo i grandi delitti che coinvolgono uomini delle istituzioni. Come avverrà anche successivamente, con la legge antimafia subito dopo il delitto Dalla Chiesa e le nuove norme antimafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio.


3. Appunti per un programma di lavoro

Non siamo venuti a Piana solo per ricordare e riflettere ma anche per contribuire ad avviare un’inversione di rotta. C’è ancora tanto da fare a livello di ricerca. Spesso durante il convegno si è parlato delle vittime di quegli anni, con una buona dose di imprecisione. Mi sono provato a redigere un elenco dei caduti dal 1893 al 1994 con l’opuscolo Sicilia 102, e ogni giorno mi accorgo che ci sono imprecisioni e lacune. Dobbiamo scavare più in profondità nel nostro passato. Più che al lavoro di un singolo studioso, penso a un impegno collettivo che coinvolga attivamente i vecchi militanti, custodi di un patrimonio spesso ignorato. La memoria ha una dimensione fondamentale nell’identità di un popolo. L’emigrazione ha lasciato vuoti incolmabili, ci sono stati anni di oblio e di disimpegno, per cui oggi spesso si sente dire che il movimento antimafia è nato solo dopo le morti di Falcone e Borsellino, mentre la lotta contro la mafia, in contesti diversi e con modalità diverse, ha più di un secolo sulle spalle.

Un altro impegno deve mirare a far riaprire l’inchiesta, anzi le inchieste, su quegli anni e sul dopo, dato che giustizia non è stata fatta. C’è una frattura tra verità storica e verità giudiziaria: se non si colmerà questa frattura, facendo luce fino in fondo, vigerà sempre la costituzione materiale, continuerà ad operare il doppio Stato.

Prima di riscrivere la costituzione – compito a cui i nostri parlamentari si sono affannosamente votati, con più o meno esplicite intenzioni di picconare la democrazia parlamentare – bisogna abrogare la costituzione materiale in vigore per tanti anni. Il primo atto di un nuovo corso è togliere il segreto di Stato sulle stragi, che formalmente non dovrebbe operare ma che in realtà ha pesato abbondantemente. Fino ad oggi ci sono documenti della Commissione parlamentare antimafia che non è possibile consultare. Vengano resi pubblici questi documenti e si costituisca un archivio documentario a Piana. I paesi delle lotte contadine, vere e proprie capitali della lotta antimafia, debbono avere un ruolo centrale in questa opera di riappropriazione della storia e nella richiesta che finalmente sia fatta giustizia. Il loro contributo è indispensabile se vogliamo realizzare l’impegno di liberazione dalla mafia, con la rottura del nodo strutturale che ha legato insieme criminalità istituzionalizzate e istituzioni criminali. Solo così i martiri di Portella e tutti gli altri caduti nella lotta contro la mafia e per la democrazia non saranno morti invano.

 

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Relazione al convegno “Portella, 50 anni dopo, Piano degli Albanesi, 28-30 aprile 1997.