Scienze sociali, mafia e crimine organizzato, tra stereotipi e paradigmi
Umberto Santino
Scienze sociali, mafia e crimine organizzato, tra stereotipi e paradigmi
Sommario: 1. Immaginario collettivo e paradigma della complessità. – 2. Il paradigma imprenditoriale, il capitale sociale, lo psichismo mafioso.- 3. Cosa nostra e società, mafia e sviluppo, deficit e ipertrofia delle opportunità nel postfordismo.- 4. Il paradigma della complessità e la globalizzazione. – 5. Raccontare l’antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile. – 6. Scienze sociali e società contemporanea.
1. Immaginario collettivo e paradigma della complessità
Se negli anni ’80 e nei primi anni ’90, in cui esplodeva la violenza mafiosa, l’idea più diffusa nel cosiddetto immaginario collettivo era quella della mafia come emergenza, dalla seconda metà degli anni ’90 a oggi si parla soprattutto o esclusivamente di mafia sommersa o invisibile. Prima la mafia era considerata come una fabbrica di omicidi e, tenuto conto della personalità delle vittime (uomini delle forze dell’ordine, magistrati, politici di opposizione e di governo), come contropotere criminale e antistato; successivamente la sospensione della violenza omicida ha indotto la sensazione che la mafia fosse ormai alle corde o in ogni caso non destasse più particolare preoccupazione. Emergenza e invisibilità non sono soltanto idee correnti condivise da gran parte della popolazione ma hanno informato e informano anche l’attività del legislatore. Basterà ricordare che tutta la legislazione antimafia del nostro Paese è all’insegna dell’emergenza, cioè si configura come risposta all’esplosione della violenza mafiosa. La legge antimafia del 13 settembre 1982 viene subito dopo il delitto Dalla Chiesa, con più di un secolo di ritardo rispetto all’esistenza documentabile dell’associazionismo mafioso; altre disposizioni legislative sono venute dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, in cui sono morti i magistrati Falcone, Morvillo, Borsellino e gli agenti di scorta. Una volta sospeso l’uso delle armi, con una mafia che abbandonava la ribalta, anche la legislazione e l’attenzione delle istituzioni per il fenomeno mafioso sono state attenuate fino a scomparire dall’agenda.
Gli studi apparsi dagli anni ’80 a oggi hanno segnato il passaggio dall’impostazione culturalista (la mafia come mentalità, codice comportamentale, subcultura, senza organizzazione) a quella organizzativista (la mafia solo e unicamente come Cosa nostra). A fare da spartiacque la “scoperta” dell’organizzazione mafiosa, legata in gran parte alle dichiarazioni dei cosiddetti pentiti. Scrivevo qualche anno fa: La produzione scientifico-accademica ha avuto negli ultimi anni un’inversione di rotta, passando dall'”indigestione di informale” (disorganized crime, non corporate groups) all'”overdose del super-strutturato”, cioè da una visione centrata su una mafia amebica, invertebrata, a un’altra totalmente occupata da una mafia iperorganizzata, cartesiana. […] Si ripropone ancora una volta la polarizzazione. Prima tutto si riduceva a dati di carattere culturale, dimenticando che da varie fonti era possibile ricavare informazioni serie sull’esistenza di una struttura organizzativa; ora si riduce tutto all’organizzazione, dimenticando i fattori culturali e sociali che hanno avuto e continuano ad avere una notevole importanza [U. Santino 1994a, 118 s.].
E proponevo che invece di una chiave di lettura che usava l’aut-aut si usasse l’et-et, “criterio che andrebbe seguito da chi si occupa di fenomeni complessi, frutto del combinarsi di aspetti molteplici” [ivi, 120]. La mia proposta nasceva dall’esigenza di rappresentare il fenomeno mafioso come fenomeno polimorfico che mi aveva portato ad elaborare il “paradigma della complessità”, frutto di una riflessione che aveva mosso i primi passi dall’analisi critica delle idee correnti, classificabili come stereotipi e come paradigmi. I primi rappresentati da una serie di luoghi comuni ampiamente diffusi (dall’emergenza all’antistato, dalla subcultura marginale alla Piovra universale); i secondi catalogabili in pochi esemplari: un paradigma giuridico-criminologico (la mafia come associazione a delinquere tipica, definita dalla legge antimafia del 1982) e un paradigma sociologico-economico (la mafia come impresa).
Il paradigma della complessità poneva la necessità di elaborare un modello analitico composito, interdisciplinare o transdisciplinare, in correlazione con un’esigenza avvertita dai cultori delle scienze sociali, almeno da quelli più preoccupati che le monoculture accademiche fossero sempre più inadatte a comprendere la realtà. Allo stato dei lavori, si può dire che questa esigenza di rompere gli schemi e produrre nuove sintesi è più enunciata che praticata. Per questa ragione la rassegna che propongo in queste pagine, che sintetizzano le riflessioni ospitate in una nuova edizione del mio La mafia interpretata [U. Santino 1995], segue le tracce della produzione più recente delle varie discipline.
2. Il paradigma imprenditoriale, il capitale sociale, lo psichismo mafioso
Se i giuristi e gli operatori giudiziari sono interessati ad analizzare e applicare lo schema dell’associazione tipica, connotata rispetto all’associazione semplice dall’omertà e dall’assoggettamento, coniugandolo con quello del concorso esterno in associazione mafiosa, di elaborazione giurisprudenziale, sociologi, antropologi e politologi hanno operato soprattutto sul paradigma imprenditoriale e su quello organizzativo, ma si segnala negli ultimi tempi anche la ripresa dell’approccio culturalista.
Il paradigma imprenditoriale, elaborato già dagli anni ’60 negli Stati Uniti, era stato rilanciato in Italia dalla tesi sulla cosiddetta “mafia imprenditrice”, frutto di un’elaborazione frettolosa e semplicistica, che segnava negli anni ’70 il passaggio da una mafia in competizione esclusivamente per l’onore e il potere a una mafia in competizione per la ricchezza, trasformatasi improvvisamente in soggetto produttivo [P. Arlacchi 1983]. Lo stesso autore successivamente correggeva il tiro parlando della mafia come “ostacolo allo sviluppo” [P. Arlacchi 1985] e per scoprire l’esistenza della struttura organizzativa, prima esplicitamente negata, doveva attendere il colloquio rivelatore con un capomafia pentito [P. Arlacchi 1992].
Il paradigma imprenditoriale veniva ripreso da altri studiosi [R. Catanzaro 1988, E. Fantò 1999] e doveva fare da base a successive riflessioni che riducevano il fenomeno mafioso a “industria della protezione privata” [D. Gambetta 1992]. La mafia veniva presentata come una sorta di istituto assicurativo che in una società dominata dalla sfiducia e dall’insicurezza dispensava protezione. Il fondamento storico della sfiducia veniva riportato alla politica dell’impero spagnolo, in base a ricostruzioni dilettantesche, e la delittuosità, anche quella stragista, da Portella della Ginestra alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, veniva considerata come un attestato di garanzia del marchio della ditta assicurativa (“vedete di cosa siamo capaci? Mettetevi sotto la nostra tutela!”); in tal modo il multiforme attivismo mafioso veniva ridotto al moncherino protezionista, ignorando non solo che i mafiosi inducono insicurezza, minacciando ritorsioni a chi non cede alle richieste estorsive, ma che hanno ampiamente goduto della protezione assicurata dai detentori di potere, ufficiale o di fatto. Nonostante l’evidente gratuità dell’assunto, più postulato che dimostrato, lo pseudoparadigna della mafia come industria della protezione privata è stato accolto da sociologi italiani e stranieri [R. Sciarrone 1998, You Chu Kong 2000, F. Varese 2001, P. Hill 2003, S. Costantino 2004], da storici [F. Renda 1997], da magistrati [G: Caselli – A.Ingroia 2002], da sedi istituzionali (relazione di minoranza alla Commissione parlamentare antimafia 2006) ed è diventato un luogo comune della letteratura degli ultimi anni. Il marchio editoriale (Einaudi) ha garantito la bontà del prodotto, nonostante la presenza di autentici strafalcioni. Il più emblematico: il lavoro teatrale I mafiusi di la Vicaria, il primo testo letterario in cui si usa la parola “mafiusi” apparso nel 1863, sarebbe stato scritto da Placido Rizzotto, il sindacalista assassinato nel 1948 (gli autori erano Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca).
Altri studiosi si sono dedicati soprattutto a declinare il paradigma organizzativo, analizzando le relazioni degli affiliati all’associazione mafiosa come contratti di status e legami di fratellanza rituale, con un’accentuazione degli aspetti tradizionali che finisce con il diagnosticare una crisi irreversibile dell’associazionismo mafioso, indotta dai processi di modernizzazione [L. Paoli 2000], che mal si concilia con la sua persistenza nel tempo e fino ai nostri giorni.
La ricerca etnografica ha analizzato i processi di trasformazione del fenomeno mafioso, attraverso uno sguardo antropologico che, per l’impossibilità di un’osservazione dall’interno, usa soprattutto le dichiarazioni dei mafiosi collaboratori di giustizia e gli atti giudiziari [A. Dino 2002]. Forme di osservazione partecipante erano state sperimentate in passato, in tempi in cui dominava l’idea di mafia come mentalità senza organizzazione, con soggiorni in comunità della Sicilia occidentale [A. Blok 1974, J. – P. Schneider 1976]; ora la scelta, condivisibile, di un “politeismo metodologico” deve fare i conti con un materiale che finisce con il diventare un deus ex machina decisivo e ingombrante.
L’analisi sociologica si è soffermata su quello che ho chiamato “blocco sociale” o “sistema” o “contesto relazionale” [U. Santino 1995], ribattezzato come “relazioni esterne”, con l’uso del concetto di “capitale sociale” [R. Sciarrone 1998]. Tale concetto, elaborato dalla sociologia nordamericana [J. Coleman 1990], mirava a correggere l’impostazione dell’individualismo metodologico introducendo le nozioni di relazione e di rete di relazioni fiduciarie. Si è così confezionato un concetto-contenitore, in cui può trovarsi di tutto, di cui non si vede l’utilità ma che potrebbe portare a una sorta di “deriva culturalista”, sulle tracce di R. Putnam [1993], che riconduce il mancato sviluppo del Mezzogiorno italiano alla carenza di senso civico, o di F. Fukuyama [1995], con la sua enfatizzazione delle “radici culturali”. Beninteso, gli aspetti culturali non sono da sottovalutare ma vanno inseriti in un gioco interattivo più ampio. Nasce così una visione della mafia che cerca di sposare organizzazione, traffici illeciti e relazioni esterne, utilizzando la distinzione introdotta da Alan Block [1980] per la criminalità di New York tra power syndicate e enterprise syndicate; si ignora che l’analisi di Block parte dall’idea che ci sia soltanto un organizing crime, alquanto diverso dalla Cosa nostra siciliana, organizzazione rigida e verticistica. Il power syndicate, avverte inequivocabilmente Block, è disorganizzato, informale e flessibile, opera sia sul terreno lecito che illecito, e non si può distinguere nettamente dall’enterprise, operante sul terreno illecito, ma le avvertenze dello studioso americano non hanno dissuaso gli studiosi italiani dall’impiegare gli stessi termini per analizzare realtà diverse. Emblematico l’uso che fa delle categorie analitiche di Block uno storico come Salvatore Lupo [1993] che le applica per lo studio di Cosa nostra siciliana e interpreta le guerre di mafia siciliane come scontro tra organizzazione e rete degli affari, in mancanza di qualsiasi riscontro empirico (per le mie osservazioni rimando a Santino 1995, pp. 78 ss.). Ma se nel caso di Block si tratta di categorie analitiche che hanno dato un contributo significativo allo studio del crimine americano, in altri casi la dipendenza da modelli made in Usa si spiega soltanto con una sorta di autocolonizzazione degli studiosi italiani. Mi riferisco in particolare a uno degli stereotipi più longevi, come il “familismo amorale”, la tesi dell’antropologo Edward Banfield [1958] che, sulla base di una ricerca molto poco scientifica, ha individuato nell’ethos della famiglia ristretta la chiave di volta del sottosviluppo meridionale. Così tutto il Mezzogiorno, che è stato ed è una realtà ben più complessa, è diventato una grande Montegrano, il paesino lucano scenario della ricerca di Banfield.
Il fantasma del familismo amorale aleggia ancora in analisi sulla condizione femminile [T. Principato – A. Dino 1997] e negli studi di psicologi. Le ricerche sul ruolo delle donne nella mafia e nella lotta contro di essa hanno dati risultati significativi, introducendo uno sguardo di genere sul fenomeno mafioso e sono segnate da due differenti, ma non necessariamente contrapposte, visioni: una che, sulla base della considerazione della mafia come organizzazione monosessuale, limita il ruolo delle donne all’esercizio di quella che ho chiamato “signoria territoriale” [R. Siebert 1994]; l’altra che considera la mafia come organizzazione formalmente rigida ma di fatto elastica e, tenendo conto anche dei dati di cronaca, non esclude un ruolo anche all’interno degli organigrammi associativi [A. Puglisi – U.Santino 2005].
Di indubbio interesse le analisi di psicanalisti e psicologi apparse negli ultimi anni, soprattutto per la sperimentazione di percorsi intrecciati tra discipline e pratiche diverse, ma purtroppo affette o da una sorta di “sindrome di Copernico” (pensare di avere scoperto la chiave della fenomenologia mafiosa) o pesantemente condizionate da stereotipi. Alla base degli studi degli psicanalisti [F. Di Forti 1971, 1982; S. Di Lorenzo 1996] è l’immagine di una comunità dominata dal parricidio e dalla Grande Madre, principio femminile dommaticamente definito negativo, di fronte a un principio maschile dommaticamente positivo (Jung dixit), mentre gli psicologi hanno riproposto il mito della Sicilia inchiodata alla sua diversità, affetta da un sentire e da uno psichismo mafiosi trasmessi transpersonalmente, cioè inconsciamente, in cui il familismo amorale non consente lo svilupparsi del senso dello Stato, della polis, e i comportamenti controcorrente si limitano a pochi personaggi considerati alieni [F. Di Maria – G.Lavanco 1995; I. Fiore 1997; G. Lo Verso 1998; F. Di Maria 2005]. Si propone così una sorta di lombrosismo psichico e si ignora che senza il rapporto con le istituzioni la mafia non esisterebbe e che allo scontro con la mafia si sono mossi in Sicilia movimenti di massa tra i più grandi d’Europa, la cui sconfitta si deve proprio al ruolo della mafia come componente di un blocco dominante e alla sua interazione con il potere costituito [U. Santino 2000a].
La ripresa d’attenzione della ricerca sociologica e sociostorica per le tematiche culturali, in particolare per il contributo di C. Geerz [1993], ha riportato tali tematiche anche sul terreno degli studi sulla mafia. Si è in particolare avviata un’analisi mirante a sviluppare una teoria culturale della mafia come istituzione politica [M. Santoro 1998]. Nel fenomeno mafioso si ritroverebbero i quattro elementi che caratterizzano il concetto di cultura: norme, valori, credenze e simboli espressivi. La norma sociale della mafia sarebbe l’omertà, onore e rispetto i suoi valori, la credenza sarebbe lo spirito di mafia e i simboli espressivi si sprecano, dall’armamentario delle minacce agli ingredienti dei rituali. La mafia sarebbe una categoria del linguaggio politico e anche la protezione sarebbe da riportare più che a una dimensione economico-impreditoriale a un sistema di relazioni sociali più complesse.
3. Cosa nostra e società, mafia e sviluppo, deficit e ipertrofia delle opportunità nel postfordismo
L’interesse degli storici è stato rivolto sia allo studio di Cosa nostra che del contesto sociale. Sulla scorta delle inchieste giudiziarie e delle dichiarazioni dei pentiti la scoperta dell’organizzazione mafiosa per eccellenza Cosa nostra, identificata tout court con l’associazionismo mafioso, che invece ha dato vita ad altre formazioni (Stidda, altri gruppi), è stata posta come terreno obbligato per una ricostruzione che non fosse una storia generale mascherata da storia della mafia [S. Lupo 1993]. Il rischio di questa impostazione è di ignorare o mettere in secondo piano i legami con il contesto sociale che non sono secondari o eventuali ma costituiscono un carattere irrinunciabile dell’associazionismo mafioso. Gli studi storici non hanno però potuto ignorare tali legami, ponendo l’accento sulla genesi del “paradigma mafioso” e sui rapporti con le istituzioni e la politica [P. Pezzino 1987, 1990, 1994], o sostenendo esplicitamente che essendo la mafia un’organizzazione segreta non si può fare storia che del modo in cui la società l’ha intesa e vissuta [F. Renda 1997], o dando ampio spazio al contesto socio-politico [G. C:Marino 1998] o proponendo una summa delle tesi più accreditate in una sorta di storia-romanzo [J. Dickie 2004].
Sulle origini del fenomeno mafioso gli storici sono concordi nel datarle all’interno del processo che porta all’Unità d’Italia, con qualche concessione alla possibilità di guardare anche più indietro nel tempo alla ricerca di quelli che ho chiamato “fenomeni premafiosi” [U. Santino 2000b; O. Cancila 1984]. Sulle evoluzioni più recenti è ormai largamente condivisa una ricostruzione del ruolo della mafia nel corso della seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra che calca l’accento, più che sul contributo militare nello sbarco degli Alleati, sul controllo sociale nel periodo successivo, mentre il dibattito sul rapporto mafia-politica registra una contrapposizione tra chi sostiene che esso è episodico e tattico (S. Lupo) e chi lo considera strutturale e costitutivo (U. Santino).
Qui si pone il problema della riflessione su quella che ho chiamato “borghesia mafiosa” [U. Santino 1994b]. Visione che, ben lontana dal postulare una criminalizzazione generalizzata, si fonda sui legami, documentabili, tra capimafia, professionisti, imprenditori, amministratori e politici, che rendono praticabili le molteplici attività svolte dai mafiosi. Le critiche mosse a tale visione si fondano sul timore di una dilatazione eccessiva del fenomeno mafioso, derivante più che da un’attenta lettura degli scritti sull’argomento sulla vulgata secondo cui tutto, o quasi tutto, sarebbe o potrebbe essere mafia. Più implicitamente che esplicitamente si contesta che la mafia possa considerarsi una classe o frazione di classe e si ritiene obsoleta un’analisi che faccia riferimento alle classi sociali. In effetti, i gruppi mafiosi hanno composizione sociale transclassista e il blocco sociale entro cui agiscono è anch’esso transclassista. Solo che tanto gli uni che l’altro sono contrassegnati da una forte disuguaglianza (capi e gregari, soggetti con differente ruolo sociale e diversa dotazione culturale ed economica) e si possono concretamente individuare all’interno del fenomeno mafioso considerato complessivamente rapporti di dominio e di subalternità. C’è da dire poi che l’analisi di classe è un ferrovecchio arrugginito se ripropone moduli datati e rigidi, ma può essere uno strumento adeguato per leggere le società contemporanee se riesce a darsi le articolazioni necessarie per seguire dinamiche sociali complesse e in movimento. Un terreno in larga parte da costruire se si tiene conto che il Marx teorico non è andato al di là del frammento (il cinquantaduesimo capitolo del Capitale, dedicato alle classi, contiene solo una pagina e mezza e l’accenno alle “tre grandi classi della società moderna”, cioè gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, è accompagnato da un’avvertenza: c’è un “infinito frazionamento di interessi e di posizioni”: K. Marx 1965, pp. 1003 s.) e il Marx storico (Il 18 brumaio, Lotte di classe in Francia) ha elaborato modelli plurali e fluidi che vanno ripensati e adattati ai contesti sociali in esame.
Gli economisti italiani, con molti anni di ritardo rispetto ai colleghi nordamericani, hanno analizzato l’economia mafiosa ponendosi in particolare il problema del rapporto mafia-sviluppo [S. Zamagni 1993]. La mafia costituirebbe un ostacolo allo sviluppo in quanto avrebbe un effetto depressivo sugli investimenti e influirebbe sul reddito e sul risparmio. Però l’equazione mafia = sottosviluppo non regge: anche nelle regioni a più alta densità mafiosa operano imprese di successo, capaci di adattarsi al contesto [M. Centorrino – A. La Spina – G. Signorino 1999]. Il problema è definire lo sviluppo: se con esso s’intende solo la crescita del Pil, bisogna non solo calcolare i costi dell’illegalità ma pure i vantaggi (i profitti dei traffici illeciti, a cominciare dal traffico di stupefacenti). Se invece per sviluppo si intende il miglioramento delle condizioni complessive di vita, il ruolo della mafia non può non essere negativo, per il condizionamento che essa esercita sulla vita quotidiana delle persone e sulle relazioni sociali. Una cosa è certa ed è messa in luce da studi recenti: economia illegale e legale troppo spesso si intersecano e diventa sempre più difficile distinguerle nettamente [D. Masciandaro – A. Pansa 2000].
Anche i criminologi insistono nel sottolineare la natura simbiotica del crimine organizzato contemporaneo e nello studio dell’eziologia del crimine evidenziano che il classico paradigma del deficit va sostituito con quello dell’ipertrofia delle opportunità offerte dalle attività etichettate come criminali e che la criminologia tradizionale deve cedere il passo all’anticriminologia, intesa come rinuncia a una teoria unificata del crimine e proposta di un’analisi integrata, che concilia variabili opposte [V. Ruggiero 1999]. Nella società postfordista la mafia adatta schemi organizzativi e comportamenti, abbandonando cupole e gerarchie rigide e introducendo una sorta di flessibilità criminale [V. Scalia].
Il futuro del crimine organizzato dovrebbe vedere l’affermazione del modello gangsteristico, variegato e flessibile, rispetto a quello della cosca, rigido e gerarchico [A. Becchi 2000], ma è sicuro che la cosca mafiosa sia così rigida come si crede o la storia della stessa Cosa nostra non dimostra il contrario, cioè un alto grado di elasticità e di adattabilità al mutare dei tempi e dei contesti?
4. Il paradigma della complessità e la globalizzazione
Lo studio della mafia e di altri fenomeni ad essa assimilabili attraverso il “paradigma della complessità” implica due considerazioni di fondo. La prima: il polimorfismo del fenomeno mafioso, risultante dall’interazione di vari aspetti (crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso); la seconda: il network di relazioni dei gruppi criminali con il contesto sociale [U. Santino 1995]. Il crimine può essere organized o organizing ma una qualche forma di collaborazione tra i soggetti non può non esserci (il disorganized crime propriamente si dovrebbe riferire a forme di criminalità episodiche e individuali). L’accumulazione sfrutta sia le occasioni dello sviluppo che del sottosviluppo, dei centri e delle periferie. La mafia è soggetto politico, in duplice senso: con l’esercizio della signoria territoriale, una sorta di dominio dittatoriale sulle attività e sulla vita quotidiana, e con il condizionamento delle istituzioni [U. Santino 1994a]. Il codice culturale si configura come “transcultura”, coniugando aspetti arcaici e aspetti postmoderni. Il consenso si fonda sulle cointeressenze e sulla condivisione dei codici culturali e si declina a seconda dei comportamenti della popolazione: si riduce nei periodi di mobilitazione, si rafforza nelle fasi di passività.
Concetti come signoria territoriale, borghesia mafiosa, negli ultimi anni ritornano frequentemente in rapporti e dichiarazioni di magistrati, come l’attuale Procuratore nazionale antimafia, e in documenti ufficiali come la recente relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia (anche se non ci si preoccupa di citare le fonti), e corrono anch’essi il rischio di ridursi a slogan e stereotipi se non sono ancorati ad analisi concrete e documentate.
Gli studiosi che si rifanno al paradigma della complessità non sono molti ma hanno dato contributi significativi. Penso in particolare a Fabio Armao e a Vincenzo Sanfilippo. Il primo, con un approccio prevalentemente politologico, si è posto il problema della possibilità di una teoria generale delle forme più sperimentate di criminalità organizzata, definendo la mafia un “sistema totalitario” e allargando lo sguardo alle “comunità di sostegno” [F. Armao 2000, p. 17]. Le mafie si inserirebbero in un flusso di lunga durata che si identifica con la storia del capitalismo e sulla base dello schema dipendenza-indipendenza-prevalenza vengono tratteggiati gli sviluppi di varie organizzazioni (mafia siculo-americana, French connection, yakuza, triadi), in un processo che dall’economia-mondo porta al dominio locale. Come si vede, la prospettiva è rovesciata rispetto a quella usuale. L’analisi delle mafie mette in gioco concetti-chiave come politica, mercato, società, democrazia, capitalismo, anche se va evitata la generalizzazione e si sottolinea la necessità di individuare un limes.
Sanfilippo, sociologo di ispirazione nonviolenta, ha ipotizzato l’esistenza di un modello sistemico a centralità mafiosa diffuso nella società meridionale e proposto l’uso del metodo nonviolento, fondato sulla ricerca del conflitto, per individuare gli aspetti che presentano una maggiore potenzialità trasformativa [V. Sanfilippo 2005]. Il sottosistema culturale sarebbe il luogo principe della riproduzione sociale e su questo terreno bisognerebbe sviluppare una strategia alternativa.
Queste analisi, senza dubbio tra le più interessanti proposte negli ultimi anni, richiedono delle puntualizzazioni su problemi di fondo, come il rapporto mafie-società meridionale e più in generale mafie-capitalismo. Quel che è certo è che non si può operare una criminalizzazione generalizzata; quindi più che parlare di un Mezzogiorno italiano definibile come “sistema sociale mafioso” parlerei di “società mafiogena”, cioè di una società che presenta alcune caratteristiche (accettazione dell’illegalità e della violenza, esiguità dell’economia legale, estraneità e complicità delle istituzioni, fragilità del tessuto sociale, cultura della sfiducia ecc.) che facilitano il perpetuarsi del fenomeno mafioso [U. Santino 2002a].
Quanto al rapporto mafie-capitalismo, si può dire, schematicamente, che nella fase di transizione dal feudalesimo al capitalismo sono nate organizzazioni di tipo mafioso nelle aree dove non è riuscito a imporsi il monopolio statale della forza (mafia siciliana, triadi cinesi, yakuza giapponese); nei paesi a capitalismo maturo tali fenomeni si sono sviluppati in presenza di determinate condizioni (immigrazione e difficoltà di integrazione, presenza di mercati neri per la legislazione proibizionista). Nella fase attuale, che va sotto il nome di mondializzazione e di globalizzazione, le contraddizioni sistemiche aumentano gli squilibri territoriali e i divari sociali, e in molte aree del pianeta l’unica possibilità di accumulazione è quella illegale; riducono l’economia produttiva a vantaggio dell’economia finanziaria, con un alto tasso di opacità, rendendo sempre più facile la simbiosi tra flussi di capitale legale e illegale. Anche qui bisogna resistere alla tentazione della generalizzazione. La globalizzazione, a dire di alcuni studiosi [S. Amin 1998; B. Amoroso 1999] sarebbe di per sé criminale, fondandosi sull’economia illegale e sulla clandestinità dei poteri decisionali. Parlerei piuttosto di globalizzazione criminogena per gli aspetti già richiamati precedentemente, cioè il ricorso all’accumulazione illegale per gli esclusi dal banchetto neoliberista e la funzione simbiotica della finanziarizzazione [U. Santino 2002b].
5. Raccontare l’antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile
Per anni abbiamo assistito a una liturgia che coniugava smemoratezza del passato e enfatizzazione del presente. Lo stereotipo imperante voleva che l’antimafia fosse una novità degli ultimi anni, databile dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio (1992) o, per chi guardava un po’ più lontano, dall’assassinio di Dalla Chiesa (1982).
In questo contesto ho pensato di scrivere una Storia del movimento antimafia che comincia con le lotte contadine della fine del XIX secolo e arriva fino ai nostri giorni. Il libro è apparso nel 2000 ed è fino ad oggi l’unico tentativo di raccontare una storia quasi completamente dimenticata (c’erano ricostruzioni delle lotte contadine ma queste non venivano ricondotte nell’alveo della mobilitazione contro la mafia).
Per tutte le fasi delle lotte contadine (prima fase, dal 1891 al 1894, con i Fasci siciliani; seconda fase, nel primo ventennio del XX secolo; terza fase, negli anni ’40 e ’50), lo scontro con la mafia, legata ai proprietari terrieri nella difesa di un assetto di dominio secolare, è stato lo specifico siciliano della lotta di classe e del conflitto sociale.
I problemi da affrontare studiando le lotte contadine sono molteplici. Riguardano la composizione di classe, le prassi politiche e sindacali locali, nazionali e internazionali, le forme di lotta, gli obiettivi, i risultati. La vulgata vuole che il movimento contadino abbia vinto la sua lunga guerra; in realtà la riforma agraria siciliana del 1950 fu una beffa, assegnò per sorteggio individuale (mentre prima le terre incolte venivano assegnate alle cooperative) poca terra e ben presto i contadini presero la strada dell’emigrazione (circa un milione e mezzo su una popolazione di quattro milioni e mezzo). Il potere fu saldamente nelle mani dei partiti conservatori, con in testa la Democrazia cristiana, nonostante la vittoria delle sinistre raccolte nel Blocco del popolo alle prime elezioni regionali del 20 aprile 1947. Dieci giorni dopo ci fu la strage di Portella della Ginestra e nel mese di maggio si formarono i governi centristi a Roma, dove dal 1944 governava una coalizione antifascista, e a Palermo [U. Santino 1997].
Negli anni ’60 e ’70 la lotta contro la mafia si sposta sul terreno istituzionale, con l’istituzione della Commissione parlamentare antimafia, e sul piano sociale vede l’impegno significativo ma minoritario di gruppi e singoli personaggi, come Danilo Dolci e Giuseppe Impastato [U. Santino 2000a]. Successivamente , con la lievitazione della violenza interna ed esterna, si avrà la risposta delle istituzioni in termini emergenziali, con la legge antimafia del 1982, gli arresti, i processi e le condanne, mentre la mobilitazione sociale ha come protagonisti i soggetti della società civile (centri, associazioni, comitati), più o meno legati ai partiti politici e ai sindacati. Anche questa mobilitazione risente del clima dell’emergenza: grandi manifestazioni dopo i delitti e le stragi, ma solo alcune migliaia di militanti impegnati continuativamente. I terreni sono molteplici: la scuola, con le attività di educazione alla legalità, l’antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati.
La riflessione su questa nuova fase è appena cominciata [A. Jamieson 2000; J. – P. Schneider 2003, A. La Spina 2005] e, al di là della ricostruzione dei fatti, pone problemi teorici come la definizione e il ruolo della società civile. Il termine va esteso a tutto ciò che si muove all’esterno dello Stato o, come ritengo, vada limitato alle espressioni dell’agire sociale al di fuori delle istituzioni come pure dei partiti politici? La forma partito è in crisi ma è ancora operante, anche se sotto forma di gruppi leaderistici, e spesso associazioni e strutture formalmente indipendenti in realtà sono condizionati, se non colonizzati, dai partiti.
Lo studio dei movimenti sociali e dell’azione collettiva rappresenta ormai un capitolo significativo delle elaborazioni delle scienze sociali. A partire dagli anni ’60 le mobilitazioni di quegli anni hanno stimolato la riflessione degli studiosi che hanno sottolineato i mutamenti delle forme di lotta rispetto a quelle partitiche e sindacali. Si sono confrontate le visioni delle varie scuole (funzionalismo, interazionismo simbolico, resource mobilization approach, political model negli Stati Uniti; analisi dei nuovi movimenti sociali in Europa) e alla luce dei modelli proposti ho studiato il movimento antimafia degli ultimi anni sotto un duplice profilo. Dal punto di vista descrittivo esso è un insieme eterogeneo di soggetti e di pratiche; da un punto di vista analitico ho tenuto conto di vari aspetti: struttura e composizione sociale, compiti e funzioni, modalità d’azione, autonomia o eterodirezione, autopercezione e coscienza di sé.
L’attuale movimento antimafia è in larga parte informale o strutturato in forme di tipo associazionistico ed è interlassista o aclassista, ma la componente maggiore è formata dal ceto medio: studenti, insegnanti, impiegati, commercianti, con scarso coinvolgimento degli strati popolari. Le funzioni sono molteplici (mobilitazione, educazione, analisi-ricerca, denuncia, testimonianza) e le modalità d’azione le più varie (manifestazioni lineari e circolari, fiaccolate, sit-in, spettacolarizzazioni), spesso precarie ma alcune continuative (lavoro nelle scuole, associazioni antiracket, uso sociale dei beni confiscati). L’autonomia formale spesso deve fare i conti con i legami partitici, sia per quanto riguarda le attività che l’accesso ai fondi pubblici, e l’autopercezione risente dell’eterogeneneità delle componenti e delle culture. Per alcuni fare antimafia significa soprattutto o unicamente sostenere i magistrati impegnati in inchieste sulla mafia, praticare un’educazione alla legalità astratta e formalistica, coltivare idee di mafia stereotipe (emergenza, antistato), delegare a leaders più o meno carismatici, predicare l’unanimismo (“la lotta contro la mafia debbono farla tutti, non ha colore”); per altri vuol dire impegnarsi in un’analisi controcorrente e in iniziative di denuncia e di proposta che richiedono necessariamente rotture e prese di distanza, con il rischio dell’isolamento.
In conclusione possiamo dire che il movimento antimafia è un movimento peculiare, che nei confronti del sistema ha un atteggiamento ambivalente: alla richiesta di riforma, con l’eliminazione delle complicità di settori istituzionali con i gruppi criminali, che spesso rimane allo stadio di aspirazione, si affiancano teorizzazioni e pratiche tendenzialmente alternative [U. Santino 2000c].
6. Scienze sociali e società contemporanea
Le definizioni della società contemporanea degli ultimi anni (“società del rischio”: U. Beck 2000; “società dell’incertezza” o “sotto assedio”: Z. Bauman 1999, 2002) hanno un denominatore comune: la scena mondiale è segnata da processi che hanno cancellato vecchi equilibri e introdotto pericoli e tensioni che non si riesce fronteggiare con i paradigmi e gli strumenti cognitivi del passato. Si richiede una nuova “immaginazione sociologica” ma soprattutto ci sarebbe bisogno di teorizzazioni non astrattamente globali e non penalizzate da una parsimonia che equivale a una resa di fronte alla complessità.
Il crimine nella sua forma organizzata fa parte a pieno titolo del contesto, si inserisce nei processi di accumulazione e nelle dinamiche sociali, si coniuga con il globale e con il locale. La tentazione di farne una metafora universale è forte ma cederle significa sposare una criminalizzazione generalizzata che non mi sembra di poter condividere.
Nel quadro della globalizzazione assistiamo al proliferare di forme criminali e di processi criminogeni e questo è ben più di una paura e di un rischio. Non ci sono mai stati criminali così potenti e forme di criminalità così articolate e diffuse. E in una prospettiva anche soltanto di contenimento si rivelano insufficienti gli armamentari della repressione che spesso inducono reazioni di adattamento dei gruppi criminali, come pure sono spiazzate rispetto alla realtà terapie preventive, come i programmi di educazione alla legalità generici e formalistici, che non tengono conto che è in crisi la legalità stessa, a tutti i livelli, da quello internazionale a quelli nazionali e locali.
L’egemonia di un singolo Paese ha archiviato quel tanto di diritto internazionale che si era riusciti ad elaborare, con grande fatica, nel contesto dell’equilibrio bipolare. Oggi si confrontano due facce dell’illegalità: quella dello strapotere imperiale degli Stati Uniti, che si ritengono al di sopra delle leggi, e quella degli assedianti, sotto forma di terrorismi alimentati da fanatismi religiosi elevati a modelli identitari o di gestione criminale dei bisogni di masse crescenti di periferie sempre più ampie (si pensi al ruolo delle criminalità nella gestione dei flussi di immigrazione clandestina). Lo scontro di civiltà e le guerre di religione, vanamente esorcizzate, ci sono già e l’uso della violenza è diventato pratica quotidiana.
Nel nostro Paese si sono affermate pratiche di governo che si possono adeguatamente catalogare come forme di “legalizzazione dell’illegalità” [U. Santino 2002a]: l’illegalità diventa risorsa, funzionale al modello istituzionale e di sviluppo, e l’impunità consacrazione sociale e politica. La delega alla magistratura del rapporto mafia-politica, con esiti prevedibilmente deludenti, e la rinuncia alla lotta politica da parte dell’opposizione hanno comportato la percezione di tale rapporto come naturale e inevitabile, una componente del paesaggio italiano.
La questione criminale è sempre stata questione socio-politica ma oggi più di ieri è questione complessa, insieme geopolitica e culturale. La prospettiva del pluralismo metodologico, della transdisciplinarietà, è certamente l’unica credibile, ma le resistenze frapposte dalla parcellizzazione accademica sono sempre molto forti, per cui essa rimane più un’aspirazione che una pratica.
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