Per una storia dell’impunità
Umberto Santino
Per una storia dell’impunità
Introduzione alla nuova edizione del volume: Peppino Impastato. anatomia di un depistaggio, Editori Riuniti, Roma 2006.
La prima edizione di questo libro è uscita nel maggio del 2001, pochi mesi dopo l’approvazione della Relazione della Commissione parlamentare antimafia sul “caso Impastato”.
Da allora sono passati cinque anni e il “caso Impastato” è diventato una delle narrazioni esemplari della storia del nostro Paese. Esemplare è la vicenda esistenziale e politica di Peppino Impastato, un caso unico nella storia delle lotte contro la mafia, per la sua provenienza da una famiglia mafiosa e la rottura radicale con il padre e la parentela che è alla base delle sue scelte, anche se l’icona mediatica, modellata sul titolo del film (I cento passi), che lo ha fatto conoscere a centinaia di migliaia di persone, è schiacciata sullo stereotipo della vicinanza e della contiguità. Esemplare la scelta della madre e del fratello di rompere con la cultura mafiosa della vendetta e di attivarsi per chiedere verità e giustizia. Esemplare la decisione di alcuni compagni di militanza di continuare sul cammino intrapreso con Peppino, quando ormai si respirava aria di riflusso e di resa. Esemplare l’azione del Centro siciliano di documentazione, nato nel 1977 e successivamente dedicato a Impastato, che ha avuto un ruolo decisivo nel salvare la memoria di Peppino, quando quasi tutti lo consideravano un terrorista e un suicida, legando al suo nome l’attività di ricerca e di mobilitazione, da trent’anni condotta con le scarse risorse dei soci. Esemplare l’attività della Commissione parlamentare che in soli due anni ha ricostruito una vicenda complessa e spinosa, mettendo a nudo le responsabilità dei depistatori, rimaste fuori dai procedimenti giudiziari che nei mesi successivi all’approvazione della relazione, dopo quasi venticinque anni dal delitto, hanno individuato e condannato i mafiosi incriminati: Gaetano Badalamenti e il suo vice Vito Palazzolo, successivamente deceduti.
Purtroppo è esemplare anche il dopo. Nella introduzione alla prima edizione scrivevo che la Relazione poteva essere il primo capitolo di una storia dell’impunità nel nostro Paese dal dopoguerra a oggi e davo qualche indicazione sui possibili capitoli successivi, “dagli omicidi dei militanti del movimento contadino (a cominciare dall’inchiesta sull’assassinio di Accursio Miraglia, del gennaio 1947, con due sentenze contraddittorie) ai fatti più recenti, guardando al ruolo che hanno avuto le istituzioni nella legittimazione del delitto, garantendo l’impunità e attivandosi solo dopo i delitti eclatanti e le stragi, e solo in un’ottica di emergenza, cioè di risposta alla violenza mafiosa”.
Questa storia non si è potuta scrivere, anzi si è cercato di scriverne un’altra. Il quinquennio da cui stiamo uscendo, lentamente e a fatica, ha visto una gestione del potere che rimanda a un modello culturale e antropologico che ha fatto dell’illegalità una risorsa e dell’impunità un programma e una bandiera. In tale quadro la mafia non poteva non essere declassata a mera criminalità, con la mitizzazione della figura di Provenzano, latitante per 43 anni a due passi da casa, e l’antimafia a retorica celebrativa, in cui la commemorazione dei morti serviva per assolvere o condannare i vivi.
Così abbiamo assistito a riti funerari che santificavano magistrati come Falcone e Borsellino officiati da ministri che tacciavano come “toghe rosse” i magistrati impegnati sullo stesso fronte. Il rapporto mafia-politica, storicamente e attualmente costitutivo del fenomeno mafioso, è stato negato e marchiato come invenzione di una magistratura politicizzata e nel contempo venivano candidati ed eletti uomini sotto processo per mafia, presentati come martiri di una giustizia persecutoria e distorta. Prima, anche nei tempi più bui della storia del nostro Paese, non si era mai arrivati a tanto.
In questa operazione di riscrittura della storia e di autoassoluzione di un ceto politico, forse il più squallido e sfrontato della storia nazionale, la Commissione parlamentare antimafia ha avuto il suo ruolo e si deve dire che lo ha assolto interamente e diligentemente. Già nella relazione del 2001 la maggioranza della Commissione parlamentare dichiarava che il rapporto mafia-politica non esisteva e per avallare tale affermazione venivano utilizzate anche le critiche di chi scrive rivolte a contestare come parziale e riduttiva l’icona del “terzo livello” (secondo cui ci sarebbe un edificio a tre piani: in basso i gregari, al centro i capimafia, in vetta una sorta di supercupola massonico-finanziaria), formulate nel contesto di una prospettiva analitica fondata sulla centralità dell’interazione tra mafia e politica, ben più complessa e articolata di quella rappresentazione mediatica. Nella relazione finale della maggioranza questa concezione, infondata e interessata, viene ribadita e corredata da una lettura del processo Andreotti smaccatamente falsa: si ignora che il rapporto con i mafiosi dell’ex presidente del Consiglio è stato accertato fino al 1980 ma prescritto e che l’assoluzione riguarda soltanto il periodo successivo. Una sentenza bifronte, emblematicamente “all’italiana”, fatta per salvare capra e cavoli, cioè Procura e imputato, che però veniva omologata a un’analisi che vorrebbe il fenomeno mafioso unidimensionale e spoliticizzato.
Le vicende della Commissione, con una maggioranza che eseguiva un compito che le era stato affidato, e un’opposizione che si lasciava paralizzare, mi hanno portato nel febbraio del 2005 a presentare le dimissioni da consulente, incarico che avevo accettato confidando che almeno qualche frammento di quella storia dell’impunità potesse essere tratteggiato, anche soltanto da parte di un’opposizione non imbrigliata. La relazione di minoranza è venuta troppo tardi, quando i guasti erano già fatti e solo qualche rappresentante della magistratura, sempre più isolato e disarmato, insisteva nel porre l’accento sulle relazioni tra mafia e politica, utilizzando anche espressioni di chi scrive, per molto tempo messe all’indice. Una per tutte: “borghesia mafiosa”, che non ha mai voluto significare, nel corpo delle mie ricerche, criminalizzazione in blocco ma attenta e documentata, o documentabile, analisi di un sistema relazionale, intessuto di rapporti con soggetti del mondo delle professioni, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione, della politica e delle istituzioni, che condividono con i capimafia interessi e codici comportamentali e senza di cui i boss di Cosa Nostra sarebbero soltanto dei criminali primitivi e semianalfabeti. Tali sono i personaggi che sono stati indicati come “capi dei capi”, Totò Riina e Bernardo Provenzano, fermi alle prime classi delle scuole elementari, vissuti nel ristretto orizzonte locale e pure, grazie a quel sistema di rapporti, proiettati nei traffici internazionali, nel controllo di settori strategici come l’uso del denaro pubblico, degli appalti, della sanità. Anche le loro lunghe latitanze non si spiegano senza quel sistema di rapporti, non sempre configurabili come reati e che dovrebbero essere analizzati non solo da studiosi di buona volontà ma da soggetti istituzionali intenzionati a decriminalizzare un apparato di potere il cui funzionamento è in aperta contraddizione con la Costituzione democratica. Cosa diventa la democrazia se non una spoglia procedurale quando il delitto condiziona scelte e decisioni, seleziona alleanze ed esclusioni, come è avvenuto con la strage di Portella della Ginestra che ebbe un ruolo importante se non decisivo nella rottura della coalizione antifascista e nella nascita del centrismo a Roma e a Palermo, nonostante la prima e ultima vittoria delle sinistre nelle elezioni regionali del 20 aprile 1947? E quale è stato il ruolo della violenza, mafiosa-neofascista-piduista, nel determinare o condizionare la vita politica del nostro Paese? E quale peso hanno avuto i rapporti con la mafia e la cultura dell’illegalità nella nascita e nell’affermazione del berlusconismo? Domande che non hanno avuto e difficilmente avranno una risposta in sede giudiziaria.
La pubblicazione della nuova edizione della Relazione sul caso Impastato ripropone queste domande e riapre un cammino interrotto. Il nuovo governo e la nuova Commissione antimafia saranno in grado di scrivere altri capitoli di quella storia dell’impunità che nel 2001 si fermò alle prime pagine?
Luglio 2006