Poesie di Peppino e Poesie per Peppino
Poesie di Peppino Impastato
1
Un mare di gente
a flutti disordinati
s’è riversato nelle piazze,
nelle strade e nei sobborghi.
È tutto un gran vociare
che gela il sangue,
come uno scricchiolio di ossa rotte.
Non si può volere e pensare
nel frastuono assordante;
nell’odore di calca
c’è aria di festa.
2
Appartiene al suo sorriso
l’ansia dell’uomo che muore,
al suo sguardo confuso
chiede un po’ d’attenzione,
alle sue labbra di rosso corallo
un ingenuo abbandono,
vuol sentire sul petto
il suo respiro affannoso:
è un uomo che muore.
3
Fiore di campo nasce
sul grembo della terra nera,
fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada,
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.
4
È triste non aver fame
di sera all’osteria
e vedere nel fumo
dei fagioli caldi
il suo volto smarrito.
5
E venne a noi un adolescente
dagli occhi trasparenti
e dalle labbra carnose,
alla nostra giovinezza
consunta nel paese e nei bordelli.
Non disse una sola parola
né fece gesto alcuno:
questo suo silenzio
e questa sua immobilità
hanno aperto una ferita mortale
nella nostra consunta giovinezza.
Nessuno ci vendicherà:
la nostra pena non ha testimoni.
6
Lunga è la notte
e senza tempo.
Il cielo gonfio di pioggia
non consente agli occhi
di vedere le stelle.
Non sarà il gelido vento
a riportare la luce,
né il canto del gallo
né il pianto di un bimbo.
Troppo lunga è la notte,
senza tempo,
infinita.
7
Passeggio per i campi
con il cuore sospeso
nel sole.
Il pensiero,
avvolto a spirale,
ricerca il cuore
della nebbia.
8
Seduto se ne stava
e silenzioso
stretto a tenaglia
tra il cielo e la terra
e gli occhi vuoti
fissi nell’abisso.
9
Fresco era il mattino
e odoroso di crisantemi.
Ricordo soltanto il suo viso
violaceo e fisso nel vuoto,
il pianto delle donne,
il singhiozzo della campana
e una voce amica:
“è andato in paradiso
a giocare con gli angeli, tornerà presto
e giocherà a lungo con te”.
10
Stormo d’ali contro il sole,
capitombolo nel vuoto.
Desiderio,
erezione,
masturbazione,
orgasmo.
Strade silenziose,
volti rassegnati:
la notte inghiotte la città.
11
Il cuore batte con l’orologio
il cervello pulsa nella strada:
amore e odio
pianto e riso.
Un’automobile confonde tutto:
vuoto assoluto.
Era di passaggio.
12
Sulla strada bagnata di pioggia
si riflette con grigio bagliore
la luce di una lampada stanca:
e tutt’intorno è silenzio.
13
Nubi di fiato rappreso
s’addensano sugli occhi
in uno strano scorrere
di ombre e di ricordi:
una festa,
un frusciare di gonne,
uno sguardo,
due occhi di rugiada,
un sorriso,
un nome di donna:
Amore
Non
Ne
Avremo.
14
I miei occhi giacciono
in fondo al mare
nel cuore delle alghe
e dei coralli.
Poesie per Peppino e per Felicia
Salvo Vitale
Contadini di Punta Raisi
Cade ancora la luna sulla terra del passato.
Vivevamo i mattini di silenzio
mentre il sole tardava.
Buon odore di terra sulle mani.
Buon sapore di brina sopra l’erba.
Le parole dei vecchi
crescevano fanciulli di salsedine
dentro i secoli fermi di lavoro.
Era il mito a gridare
nell’estate mai finita,
sulle strade di polvere e di ulivi,
sulle vaste radure che, la notte,
aprivano nel cuore felicità e paura.
Il presente come allora si vive
dentro un mondo di lotta e di illusioni.
Non c’è niente che possa cambiarci:
gente forte, un po’ triste,
forse troppo ignorante e troppo sola
per tenerci soltanto ciò che è nostro.
Il domani è già buio,
dove passano uccelli di fame
e fanciulli muti,
dove muoiono i vecchi senza un cielo,
mentre cadono uccelli d’acciaio
sul giardino distrutto.
1969
Umberto Santino
Sarai meno solo
Avremmo potuto pensare
il silenzio ritorna
e noi stretti intorno ai frammenti
del tuo corpo
schiacciati da troppe morti
prima che dagli altri
vinti da noi stessi
(dov’erano i compagni più amati
di cui più ti fidavi?
Come nei presepi dell’infanzia
le rocce si sono rivelate
sugheri dipinti
leggere come il fumo
e più delle parole rubate
da chi ti vuole suicida
la tua morte ci giudica
la tua solitudine ci misura)
gridare per l’ultima volta
per sentirci meno soli
per darci coraggio.
Ma c’erano i vecchi
che stringevano la mano
dopo il comizio,
c’erano le mani che chiedevano
il volantino,
c’erano le porte aperte
dopo la prima paura
(Mafiopoli prendeva respiro)
c’era il tuo nome
segnato sulla scheda
per rispondere
a chi l’aveva cancellato
sui manifesti:
piccole crepe, certo,
in un muro che restava muro.
E c’era l’ira dei cortei
anche se i gesti erano
troppo piccoli
(un sasso scagliato
contro la bottega del potere)
e le parole troppo grandi
(come possiamo dire
nulla resterà impunito
se non possiamo neppure impedire
che il tuo volto distrutto
venga infangato sui giornali?).
La tua vendetta
sarà allargare la breccia
spalancare le porte.
Così sarai meno solo
dietro il muro dei morti.
1978
Umberto Santino
La matri di Pippinu
Chistu unn’è me figghiu.
Chisti un su li so manu
chista unn’è la so facci.
Sti quattro pizzudda di carni
un li fici iu.
Me figghiu era la vuci
chi gridava ’nta chiazza
eru lu rasolu ammulatu
di lo so paroli
era la rabbia
era l’amuri
chi vulia nasciri
chi vulia crisciri.
Chistu era me figghiu
quannu era vivu,
quannu luttava cu tutti:
mafiusi, fascisti,
omini di panza
ca un vannu mancu un suordu
patri senza figghi
lupi senza pietà.
Parru cu iddu vivu
un sacciu parrari
cu li morti.
L’aspettu iornu e notti,
ora si grapi la porta
trasi, m’abbrazza,
lu chiamu, è nna so stanza
chi studìa, ora nesci,
ora torna, la facci
niura come la notti,
ma si ridi è lu suli
chi spunta pi la prima vota,
lu suli picciriddu.
Chistu unn’è me figghiu.
Stu tabbutu chinu
di pizzudda di carni
unn’è di Pippinu.
Cca dintra ci sunnu
tutti li figghi
chi un puottiru nasciri
di n’autra Sicilia
1979
La madre di Peppino
Questo non è mio figlio.
Queste non sono le sue mani
questo non è il suo volto.
Questi brandelli di carne
non li ho fatti io.
Mio figlio era la voce
che gridava nella piazza
era il rasoio affilato
delle sue parole
era la rabbia
era l’amore
che voleva nascere
che voleva crescere.
Questo era mio figlio
quand’era vivo,
quando lottava contro tutti:
mafiosi, fascisti,
uomini di panza
che non valgono neppure un soldo
padri senza figli
lupi senza pietà.
Parlo con lui vivo
non so parlare
con i morti.
L’aspetto giorno e notte,
ora si apre la porta
entra, mi abbraccia,
lo chiamo, è nella sua stanza
a studiare, ora esce,
ora torna, il viso
buio come la notte,
ma se ride è il sole
che spunta per la prima volta,
il sole bambino.
Questo non è mio figlio.
Questa bara piena
di brandelli di carne
non è di Peppino.
Qui dentro ci sono
tutti i figli
non nati
di un’altra Sicilia.
Salvo Vitale
Compagno
Ti riscopro tra la neve dei mandorli,
petalo anche tu, staccato dal vento
tra i frammenti di luna sul mare caldo,
anche tu scaglia di luce inafferrabile,
nella sera d’agosto, sulla spiaggia,
con il corpo abbronzato, poi distrutto,
nel mattino di aprile sul divano
a tentare una via di comunicazione
tra le nostre schermate solitudini.
Ti risento amplificato, senza enfasi,
pronunciare la tua elegia di morte,
in mezzo alla nostra fame di bisogni
aprire rivoli di speranza e di scontro,
e ancora, nella tela dell’angoscia,
piangere e rialzarti con la consueta energia.
Da molto ci sei stato. Non avevo che te,
compagno, finito nella notte,
portando sul fondo della gola
la paura di darmi un bacio.
1980
Umberto Santino
Lettera ai compagni di Peppino, per ricordare
e, se è possibile, per continuare
Io non so
se è ancora possibile
parlare senza mentire
guardarsi negli occhi
senza abbassare le palpebre
ripensare i giorni dei vivi
(quando Peppino
era ancora tra noi
e la sua vita era nuda
febbrile
e le sue lacerazioni
chiedevano tenerezze negate
abortite carezze)
e le notti dei morti
(quando il suo corpo
fu steso sul binario
le gocce del suo sangue
esplosero nel lampo del tritolo
e il suo nome
fu cancellato sui manifesti
il suo volto offeso
da nemici più feroci degli assassini)
Io non so se è ancora possibile
ricordarlo
e ricordarci
sono trascorsi pochi anni
ma è passato un tempo più lungo
di mille eternità
e oggi abbiamo
mani più vuote
della bara che portava
le sue briciole
oggi siamo nudi
più dei suoi nervi
che bucavano la pelle
siamo disperati
più di quando meditava il suicidio
e lanciava al mondo
la sfida dei suoi fallimenti
Il millennio muore
in una infinita Chernobyl
del desiderio e della speranza
Non vogliamo più piangere
non abbiamo più certezze
e cerchiamo di arredare
i nostri giorni
con mani più umili
di quelle che allevavano
sogni e furori
nelle viscere del ’68
ma una sola cosa
vorrei che ci dicessimo
(se è ancora possibile
parlare senza mentire
guardarci negli occhi
senza abbassare le palpebre)
che non possiamo consegnarci
alla viltà e alla menzogna
Peppino ci unisce
se sappiamo ancora
vivere la sua vita
in una stagione diversa
con nuove immagini
e nuove parole
ma con la stessa volontà
di negarsi alla crudeltà degli assassini
alle astuzie dei mercanti
che offrono scampoli di potere
per elevare al cielo
le loro piramidi di voti
alle chiacchiere di chi copre
la sua svendita
al migliore offerente
con patacche senza valore
Peppino ci divide
se non abbiamo più voglia
di scontrarci
quando è necessario
scontrarsi
di rompere con il padre
quando tutti diventano
figli della desolazione
ed eredi della viltà
Il millennio muore
in un’infinita Chernobyl
del desiderio e della speranza
ma non ci saranno nuovi giorni
se non sapremo
parlare senza mentire
guardarci negli occhi
senza abbassare le palpebre
se non avremo dentro
tanta rabbia e tanta tenerezza
da squarciare le nuvole
se non saremo capaci
di dare amore
a un compagno come lui
separato da tutti
se non sapremo incontrarlo
anche in fondo
al pozzo delle solitudini
e camminare insieme
a testa alta
tra le case
con le finestre sbarrate
sfidando
il silenzio dei vili
e la vittoria degli assassini
1990
Umberto Santino
Neppure un passo
I cento passi
che non hai mai percorso
perché non occorreva
neppure un passo
per ritrovare dentro di te
il sangue dei padri
la voce antica
che raccontava
guerre familiari
atrocità palesi
e complicità segrete
che bisognava chiudere gli occhi
per non vederle.
Ora vogliono importi
un’icona che non ti appartiene
e consolare il tuo isolamento
con parole che nascondono
distanze incolmabili
tra storie diverse.
L’amore che non hai avuto
ci obbliga a risponderti:
le guerre non sono finite
e il silenzio dei vili
continua a inquinare il pianeta
ma la tua figura distrutta
si ricompone lungo un binario
che corre per il mondo,
misura del desiderio
orizzonte del sogno.
2005
Umberto Santino
Un seme di speranza
Ora le tue parole
ci giungono come le onde
di un mare finalmente placato;
Il padre va incontro
alla sua morte
tendendo una mano
per proteggere il tuo ultimo viaggio
e la madre si china a raccogliere
le briciole del tuo corpo
per poterti partorire
ancora una vola
in un mondo senza odio
senza sangue.
Ora sono tutti nel giro del tuo sguardo
i volti degli amori negati
e anche se le strade
sono sempre più in salita
e non sappiamo qual è la meta
pure le parole più disperate
possono nutrire
un seme di speranza.
2005
Umberto Santino
Le parole e i canti
(per il CD: 26 canzoni per Peppino Impastato)
Scrivevi:
Amore Non Ne Avremo
e in tutti questi anni
abbiamo cercato di darti
quello che non hai avuto da vivo.
Non ti abbiamo vendicato
ma abbiamo seguito il cammino
che ti ha diviso
dal tuo sangue,
raccolto le briciole
del tuo corpo,
parlato alle finestre chiuse,
tempestato i palazzi
per smascherare
mafiosi e depistatori.
Ora le tue parole
sillabate in silenzio
si levano nei cieli delle piazze
a ridire la tua pena.
Lo sappiamo:
non ci sono angeli
con cui giocare,
Mafiopoli era una metafora
del pianeta
e la notte è così lunga
da negarsi al mattino.
Il tuo volto rischia
di diventare un’icona
se non sapremo guardarti
per quello che eri:
un figlio in rotta con i padri
un compagno di lotte
che non sono morte con te,
che anche dentro le delusioni
sapeva trovare il filo
a cui aggrapparsi.
La tua storia
è la nostra
e con le mani di tua madre
la porta che ti si chiudeva
alle spalle
si spalanca al futuro.
2006
Umberto Santino
Per Felicia
(Saluto laico, 9 dicembre 2004)
Distribuivi garofani rossi
alle mani levate nel pugno
e il gesto restituiva
valori dimenticati
come bandiere
colorate di primavere
che dovevano ancora nascere.
Gli occhi nutrivano silenzi
grandi come orizzonti
e le parole sgorgavano dalle labbra
lievi di tenerezza
fermentate d’ironia
taglienti di sarcasmo
come quelle di tuo figlio,
una sfida per i mafiosi
che non tolleravano
la tua forza di donna
maturata nell’ombra
esplosa in un giorno di maggio
quando credevano di uccidere la vita
camuffandola da morte.
Ti sia dolce la notte
Felicia
e la gioia del tuo nome
segua i nostri passi
alla ricerca del mattino.
Ti hanno messo un rosario tra le dita
e un crocifisso culla il tuo sonno
con le sue braccia di morto
ma le preghiere che affiorano
dalla tua bocca
sono più antiche
di quelle che si leggono
nei libri sacri
e parlano a un dio
che agita le viscere delle partorienti
e accoglie i deliri dei moribondi.
L’inferno a cui siamo condannati
è in questa vita
e i nostri occhi
sono l’unica terra
dove fioriscono i paradisi.
Ora da morta
potrai spalancare le finestre
con mani più sicure
di quelle che ti reggevano da viva.
Ora nessuno potrà dire
di non sentire la tua voce
levata a condannare i carnefici
e a maledire i vigliacchi.
È più forte il tuo silenzio
di questi rumori
che giungono da un mondo
che non ha imparato
a viversi.
Ci specchiamo nella tua morte
ed è come sporgersi
su un pozzo senza fondo
dove affiorano
brandelli di storia
in cui rivivono
le stazioni della tua via crucis.
Ora sembri immutabile
trasfigurata nella bellezza del trapasso
rischiarata la fronte
cancellate le rughe
e sono un sacrilegio
i flash dei fotografi
le parole di chi ti ha ignorato da viva
e ti esalta da morta
con un paese che si nega
all’ultimo saluto
e le voci che s’infrangono
contro pareti di silenzio.
Tu ormai sei al di là
del muro d’ombra
e la tua morte è pace;
i vivi imparino
a viverla, la pace.