La mafia di Falcone e quella di oggi
Umberto Santino
La mafia di Falcone e quella di oggi.
Nel pomeriggio del 21 febbraio del 1992 Giovanni Falcone è a Palermo, nell’aula magna di Giurisprudenza, e partecipa alla presentazione di un volume in cui viene pubblicata una ricerca sui processi per omicidio. Non nasconde la soddisfazione: è certo che sarà il procuratore nazionale antimafia (ma andrà incontro a nuove delusioni) e proprio in quei giorni la Cassazione ha confermato le condanne del maxiprocesso. Più che l’avallo del “teorema Buscetta” è il riconoscimento della validità dell’impostazione che ha dato il pool antimafia, con il contributo decisivo di Falcone: la mafia come organizzazione piramidale, verticistica, con le famiglia alla base, i mandamenti, le commissioni provinciali, la cupola e il capo dei capi e la responsabilità collegiale nei maggiori delitti. Una sorta di repubblica confederale che nel frattempo, con il trionfo dei corleonesi nella guerra di mafia dei primi anni ’80, si era trasformata in monarchia assoluta, una dittatura della forza, un totalitarismo della violenza. Ed è proprio da quel surplus di violenza, e soprattutto di quella rivolta verso l’alto, che era nata la legge antimafia del 1982, dieci giorni dopo l’assassinio del prefetto Dalla Chiesa, della moglie Setti Carraro e dell’agente Russo. Non erano bastati l’assassinio di Mattarella e di La Torre, per avere la reazione dello Stato bisognava colpire il prefetto inviato in Sicilia senza poteri e senza forze adeguate. E la legge antimafia, che sancisce che la mafia è un reato di per sé, ha consentito l’avvio dell’iter che ha portato al processo più rilevante nella storia della mafia e dell’antimafia istituzionale.
Ci si chiede oggi, a 30 anni dal maxiprocesso di primo grado e a venticinque dalle stragi del ’92, che ne è della mafia? E’ ancora quella fotografata da quel processo o è mutata? Com’è noto, la dittatura dei corleonesi è stata smantellata, per l’effetto boomerang dell’escalation della violenza, con le condanne di capi e gregari che si sono succedute in questi decenni; Provenzano ha dovuto usare il freno nel ricorso agli omicidi e alle stragi e ricucire i rapporti; l’organizzazione ha dei vuoti nelle strutture di base e in quelle di comando. Si parla di mandamenti accorpati, di reggenze affidate alle nuove leve, ma pure di boss che sono usciti dal carcere o si preparano a farlo e vogliono tornare a occupare le postazioni che hanno dovuto lasciare, con le prevedibili frizioni che potrebbero dar vita a nuovi atti di violenza interna.
Sul piano del sistema di rapporti si registrano scollamenti e prese di distanza, con imprenditori che si ribellano al pizzo, ma ci sono professionisti, amministratori, rappresentanti della politica e delle istituzioni che continuano a fare da consoci e condividono strade nuove, o vecchie ammordernate: appalti, supermercati, agroalimentare, energie rinnovabili, centri di accoglienza dei migranti, rifiuti, per riannodare la catena degli affari e dei profitti. E la corruzione, sempre più diffusa, è il terreno su cui intrecciare o rafforzare alleanze e complicità. Attorno al boss latitante Matteo Messina Denaro si è fatta terra bruciata, ma godrebbe ancora di complicità e coperture. L’arcaica mafia dei pascoli si è riciclata come accaparratrice dei fondi europei. Sul piano dei grandi traffici, come quello di droghe, sono comparsi nuovi soggetti, meno esposti e meglio posizionati, con maggiori agganci nei circuiti internazionali. E proprio a Palermo, dove si è esercitata una signoria territoriale pressoché assoluta, si sono insediati gruppi etnici, tra cui i nigeriani, con cui bisogna relazionarsi. Inchieste recenti parlano di collaborazioni con i nuovi arrivati per il traffico di droga e di possibilità che si aprirebbero nel traffico di esseri umani.
E’ del 1986 un mio saggio sulla mafia finanziaria, che sottolineava come le classificazioni e le periodizzazioni debbano tener conto che i mutamenti vanno a braccetto con la continuità e le nuove attività si innestano sullo zoccolo duro del dominio territoriale, di cui l’estorsione, come la fiscalità statale, è emblema del riconoscimento di una sovranità che va dalle attività economiche ai rapporti interpersonali. E sarei dell’avviso che, invece di marcare differenziazioni epocali, il paradigma che coniuga continuità e innovazione sia ancor’oggi valido. Le voci e le immagini catturate dalle intercettazioni sono ben lontane dal lessico manageriale e replicano accenti e posture vernacoli e rionali.
Di fronte al prevalere di dimensioni finanziarie e “mercatiste” si pone il problema di un aggiornamento dell’apparato legislativo? Penso di sì, se si tiene conto che la legge del 1982 era ancorata alla “mafia imprenditrice”, che una teorizzazione discutibile collocava negli anni ’70, mentre a quel tempo si era già sviluppata l’accumulazione legata ai traffici internazionali, di cui solo una parte imboccava la strada dell’investimento imprenditoriale, spesso con funzione di riciclaggio. Basterà il nuovo codice antimafia in discussione? Occorrerebbe una legislazione globalizzata, che vada oltre le frontiere nazionali e le mafie locali. Ci si era messi su questa strada con la convenzione sul crimine transnazionale del 2000, ma bisognerebbe fare un bilancio di cosa si è fatto e di cosa è rimasto sulla carta. In ogni caso continua ad essere attuale l’indicazione di Falcone: tallonare il denaro.
Pubblicato su “Repubblica Palermo”, 24 maggio 2017, con il titolo: “La mafia mercatista e le leggi che servono”.