loading...

Il pensiero banale sulla mafia

Amelia Crisantino

Il pensiero banale sulla mafia

Le dichiarazioni del nuovo pentito di mafia Salvatore Facella hanno meritato pochi titoli sui giornali, al momento sembrano altre le emergenze in corso.
Facella è figura di secondo piano, non pare che le sue rivelazioni possano cambiare granché in quello che già sappiamo dell’universo mafioso. Eppure non è così, le sue parole compiono un’operazione di tutto rispetto perché ne portano a compimento la banalizzazione: Cosa nostra diventa una questione di ripicche personali, gelosie, invidie e incomprensioni. E non si capisce come mai una simile scalcagnata organizzazione possa mettere in difficoltà un qualsiasi sistema investigativo.
Di Salvatore Facella sappiamo che ebbe come maestro di mafiosità un certo mastro Ciccio, al secolo Francesco Messina, mafioso del trapanese. L’8 agosto 1983, giorno dell’iniziazione a Cosa nostra, mescolò il suo sangue con quello di Totò Riina. Qualificato da Brusca come “uomo d’onore della famiglia di Lercara Friddi”, emigrato a Torino e condannato per una serie di omicidi commessi negli anni Ottanta, a ottobre ha cominciato a collaborare con i magistrati della Procura di Torino. Sembra che finora le sue dichiarazioni si riferiscano a tre circostanze: i retroscena dell’omicidio del procuratore di Palermo Gaetano Costa; la collocazione nel giardino dei Boboli a Firenze di un proiettile di mortaio; l’esistenza di uno statuto che regola la vita di Cosa nostra.
Il procuratore Costa venne ucciso a Palermo il 6 agosto 1980. Lavorava su materiali pericolosi. Voleva fare chiarezza sui meccanismi di riciclaggio dei narco-dollari, tentando di dirimere gli intrecci societari e bancari per risalire ai soci occulti dei clan mafiosi degli Spatola, degli Inzerillo, dei Gambino e dei Bontade. A venire fuori erano i legami con la P2, con Sindona, con la mafia americana. Oggi Facella ne ridimensiona l’omicidio, dichiara che venne consumato ad insaputa della Commissione che aveva il ruolo di decidere sui delitti eccellenti. Rischiando quindi i provvedimenti del caso, sarebbe stato Di Maggio ad ideare l’eliminazione dello scomodo procuratore, suo nipote Inzerillo a metterla in pratica.
Nell’ottobre del ’92, preludio in tono minore della futura campagna stragista, una bomba da mortaio usata durante la seconda guerra mondiale e non più in dotazione all’esercito viene collocata nel giardino dei Boboli a Firenze. I corleonesi pensavano in grande, avendo capito che il patrimonio artistico era come un nervo scoperto da utilizzare per ottenere la resa dello Stato. La bomba ha scopo dimostrativo, vuole spaventare ma non fare danni. Gli stessi che l’hanno depositata provvedono a dare l’allarme, molto delusi perché la stampa non s’occupa di loro. Facella è della compagnia, anzi è lui che non sapendo dove trovare della dinamite s’era industriato e aveva riciclato l’ordigno.
Le dichiarazioni di Facella che più attirano la nostra attenzione hanno del surreale. A detta del neopentito la mafia ha un suo statuto, come ogni associazione che si rispetti, stilato dall’avvocato Panzeca fra la prima e la seconda guerra mondiale.
L’avvocato Panzeca, cugino dell’omonimo mafioso di Caccamo braccio destro di Nino Giuffrè, era un uomo avveduto e aveva regolato tutte le circostanze che possono attraversare la vita di un’associazione di tal fatta. Quando si prestò a scriverne le regole la massima aspirazione del mafioso di provincia era ancora quella di non attirare troppe attenzioni, di integrarsi. Rispettando formalmente i compiti e le attribuzioni dello Stato, specie per quanto riguardava i suoi diritti. E la protezione della proprietà privata non è certo il più insignificante fra i doveri dello Stato verso i cittadini. Così il mafioso non riconosceva allo Stato il monopolio della violenza, ma gli attribuiva l’esclusiva nel recupero dei crediti: contravvenendo al principio d’omertà, un mafioso poteva denunciare chi non onorava un assegno o una cambiale.
Nel 1981 Stefano Bontade voleva modificare quest’articolo, portò la sua proposta alla Commissione di Cosa nostra. Riina non fu dello stesso avviso, e secondo Facella questa potrebbe essere una delle cause della guerra di mafia degli anni ’80 che costò la vita allo stesso Bontade.
Lo statuto di Cosa nostra sarebbe rimasto in possesso di Riina sino al 15 gennaio 1993, giorno del suo arresto. Possibile che fosse custodito nella cassaforte della sua villa, la stessa che fu asportata in tutta tranquillità dai mafiosi dopo che incredibilmente la casa era stata lasciata incustodita e non perquisita.
Quindi, nel racconto di Facella la mattanza dei corleonesi avrebbe fra le sue cause un diverbio quasi fra condomini. Se è vero che la nostra immagine di Cosa nostra si è storicamente formata sulle dichiarazioni dei pentiti, in che modo le banalizzazioni di Facella provano a modificarla? Non vorranno forse rappresentare un’idea di mafia sottotono, in linea con la strategia di basso profilo riconducibile a Provenzano?
Nel gioco delle parti interno a Cosa nostra moderati e irriducibili hanno lo stesso obiettivo, la revisione dei processi e la cancellazione del regime di carcere duro. Oggi la stabilizzazione del 41 bis nega i risultati sperati alla politica di moderazione di Provenzano, si teme il riemergere dell’ala dura e una nuova guerra allo Stato. La mafia banale del neopentito Facella emerge al momento giusto, e dà corpo ai timori del compianto pm della direzione nazionale antimafia Gabriele Chelazzi: siamo forse di fronte ad un nuovo tentativo di trattativa fra Stato e mafia?

Pubblicato su “la Repubblica Palermo”, 13 giugno 2003