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I pregiudicati nell’Antimafia

Umberto Santino

I pregiudicati nell’Antimafia

La costituzione della nuova Commissione parlamentare antimafia è stata accompagnata da prese di posizione e commenti che hanno posto problemi che non possono essere ignorati.
Molti hanno contestato che ne facciano parte personaggi condannati con sentenza definitiva, e questo è già di per sé un nodo non secondario, ma si pone un interrogativo di fondo: a che serve la Commissione?
Com’è noto, due parlamentari, la Napoli di Alleanza nazionale e Licandro dei Comunisti italiani, chiedevano che dalla Commissione fossero esclusi deputati e senatori che avessero avuto condanne o fossero inquisiti. La proposta è stata bocciata e della Commissione ora fanno parte, tra gli altri, Cirino Pomicino condannato per finanziamento illecito e corruzione, e Alfredo Vito condannato per corruzione. Le giustificazioni che sono state addotte da chi ha votato contro, tra cui l’attuale presidente della Commissione, è che una volta eletti il mandato parlamentare non può non essere pieno e che le responsabilità sarebbero, come si usa dire, “a monte”. Cioè: i partiti avrebbero dovuto accogliere l’appello, fatto anche dall’attuale Superprocuratore antimafia, a non candidare personaggi sotto inchiesta o condannati. Dato che i partiti li hanno candidati e gli elettori hanno condiviso le scelte dei partiti (come si ricorderà, alle ultime elezioni le liste erano bloccate e chi doveva essere eletto era stato deciso prima nelle segreterie di partito), non c’è niente da fare: il mandato parlamentare è sacro e inviolabile.
Siamo, come si vede, in piena teoria-e-prassi ipergarantista, non nuova nel nostro Paese, che ha “digerito” nefandezze intollerabili, come l’impunità di stragisti e, per lunghissimi anni, di mafiosi, e a cui si sono convertiti anche alcuni epigoni del comunismo nostrano che però non hanno avuto nulla da ridire, né prima né ora, sulla pena di morte a cui si è fatto ricorso a piene mani nei “paradisi proletari”. Qualche tempo fa ho scritto per una rivista della superstite “area marxista” un articolo in cui sostenevo che la proposta di Rifondazione di abolire l’ergastolo potesse essere condivisa, ma che quella pena dovesse rimanere per gli stragisti e i mafiosi pluriomicidi, e a chi voleva dare un colpo di forbice a queste affermazioni ho risposto invitando l’aspirante censore a inviare una letterina al “compagno” Fidel Castro chiedendogli di abolire la pena di morte, impiegata anche, o soprattutto, contro i suoi avversari politici. Inutile dire che da allora si sono interrotti i rapporti.
Ritornando alla Commissione antimafia, si poteva, anzi si doveva, in sede di votazione, accogliere quella proposta, quanto meno per dare un segnale. Invece si è dato un segnale in senso contrario, in continuità con una linea abituale, ma non da molto. Nel 1972, per la presenza in Commissione del democristiano Giovanni Matta, che non era né condannato né sotto processo, ma era stato soltanto ascoltato dalla precedente Commissione come testimone, in quanto assessore ai Lavori pubblici al comune di Palermo ai tempi di Lima e Ciancimino, i commissari, ad eccezione dei missini, si dimisero e la Commissione fu sciolta. Altri tempi.
Il riferimento ai partiti che avrebbero dovuto, ma non hanno voluto, selezionare i candidati, si fonda su un’espressione che circola ormai da parecchi anni. Dal 1993, data di una relazione della Commissione su mafia e politica, approvata con larga maggioranza, in omaggio al clima del dopostragi in cui tutti, o quasi, fingono di essere antimafiosi e si professano amici dei personaggi stroncati dal tritolo mafioso che avevano tenacemente avversato in vita, si parla di “responsabilità politica”. Accanto alla responsabilità accertata in sede giudiziaria, ci sarebbe una responsabilità non ancorata alla commissione di reati ma che poggia su dati che mostrerebbero che ci sono stati e ci sono rapporti di politici e rappresentanti delle istituzioni con mafiosi e dintorni.
Bene, è tempo di finirla di prenderci in giro. La responsabilità politica senza nessun tipo di sanzione, affidata all’autoregolazione dei partiti, che si guardano bene dall’autoregolarsi, è una scatola vuota. Se si vuole riempire quel vuoto bisogna, tassativamente, disporre sanzioni efficaci e definite. In un Paese con un livello di morale pubblica così basso si dovrebbe almeno dare una dimensione politica a responsabilità accertate o in via di accertamento in sede giudiziaria. Per esempio: la sospensione da ogni carica politica e istituzionale per chi è indagato o sotto processo: l’incandidabilità, prima ancora dell’ineleggibilità, di chi è stato condannato, anche non definitivamente. Se non si ha il coraggio di fare queste scelte, si inchioda il nostro Paese a un’immagine che il berlusconismo ha codificato come “legalizzazione dell’illegalità” e che molti altri hanno avallato e continuano ad avallare, con i loro atti di fede in un garantismo fuori luogo.
Al di là della composizione che certamente graverà sull’attività della Commissione, ci si chiede: a che serve la Commissione antimafia così com’è e come è stata negli ultimi anni? Può essere utile, a quali condizioni? Quel che è certo è che la ricerca di unanimismi, la formazione di comitati paralizzati sul nascere, le audizioni in giro per l’Italia, inseguendo le ultime emergenze, i consulenti lottizzati, fanno parte di un rituale che sarebbe bene archiviare. La Commissione potrebbe essere utile se venissero definiti con precisione i suoi compiti. Essa dovrebbe fare quello che organi investigativi e giudiziari non fanno e non possono fare: dare un quadro complessivo delle attività e del ruolo delle organizzazioni criminali e soprattutto sul loro sistema di relazioni con il contesto sociale e istituzionale (quello che si era cominciato a fare con la relazione sul depistaggio delle indagini per il delitto Impastato, individuando le responsabilità di rappresentanti di forze dell’ordine e della magistratura, ma che si è fermato lì). Lo strumento potrebbe essere un rapporto annuale, che registri le varie voci presenti nel Parlamento e attivi la collaborazione della società civile organizzata. Ma qui si incrociano due circuiti viziosi: il primo è quello istituzionale afflitto da mali organici: la mediazione di infimo profilo, l’incompetenza e gli interessi di bottega, con un centrosinistra che non considera la lotta alle mafie una priorità (e non per caso i proclami dei governanti in visita a Napoli suonano come i ballabili delle orchestrine a bordo del Titanic); il secondo è quello di centri studio e associazioni poco propensi allo studio e all’elaborazione di progetti, dediti a liturgie e retoriche e finanziati in modo clientelare. In queste condizioni non è solo la Commissione parlamentare ad essere un ente inutile se non dannoso, ma è buona parte dell’antimafia che è tale più per autodefinizione che effettivamente.
Certo, non mancano altre voci, di studiosi, di comitati e associazioni realmente e proficuamente impegnati, ma sono minoranze che potranno contare solo se sapranno parlare con la necessaria chiarezza e scontrarsi tutte le volte che è necessario farlo. La lotta alle mafie e alle diffuse complicità non è mai stata e non può essere indolore.

Pubblicato su “La Repubblica – Palermo”, 5 dicembre 2006, con il titolo: Il nodo irrisolto della Commissione Antimafia.

N.B. Il Centro ha presentato richiesta di dimissioni della Commissione antimafia. Si veda il comunicato stampa nella pagina “Comunicati”.