I cento chiodi di Olmi e le verità del procuratore Grasso
Umberto Santino
I cento chiodi di Olmi e le verità del procuratore Grasso
Nel film I cento chiodi di Ermanno Olmi il protagonista, un giovane professore che si atteggia a Gesù Cristo, inchioda al pavimento codici miniati e libri sacri ed enuncia una filosofia che vorrebbe essere profonda ma non mi pare che lo sia: “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”. Crocifiggere i libri ricorda un po’ troppo da vicino i roghi dei nazisti e basterebbe già questo per toglierci dalla testa l’idea di imitare il professore, ma con l’alluvione di libri da cui siamo continuamente sommersi non si può non pensare che il più delle volte sarebbe preferibile risparmiare le foreste. Pensiero che spesso ci assale davanti alle sfornate di libri sulla mafia. Per fortuna non sempre è così. Sono certamente utili i libri, non molti a dire il vero, che sono frutto di ricerche, che contengono una documentazione più o meno inedita o riportano le testimonianze di protagonisti della lotta alla mafia. Tutti gli altri, che nascono da esigenze commerciali e sono meramente occasionali, lungi dal pensare di condannarli alla crocifissione o al rogo, si può semplicemente non comprarli e non leggerli. Con la speranza che finiscano naturalmente al macero.
Tra i libri più recenti c’è il libro-intervista del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso scritto con il giornalista Francesco La Licata. Nei limiti del genere dialogico il libro spazia dall’antropologia, con ampi squarci sulla morale sessuale dei mafiosi, alla storia, con le inevitabili semplificazioni, alla sociologia, con la descrizione dell’articolazione dell’organizzazione criminale e del sistema relazionale, alle riflessioni sulle prassi giudiziarie.
E su questo punto si sviluppa la parte più intrigante e più “calda” del libro. Grasso polemizza apertamente con quanti ritengono che Provenzano sia un povero vecchio che probabilmente si è autoconsegnato e ritengono tutto il battage pubblicitario sulla sua cattura “un’arma di distrazione di massa”, ponendo unicamente l’accento sul rapporto tra mafia e politica.
Su questa diversa valutazione si innesta la polemica dell’ex procuratore capo di Palermo con il suo predecessore Caselli e con i “caselliani”. Grasso dice di non condividere la legge contra personam del governo Berlusconi che escluse Caselli dalla corsa a procuratore nazionale antimafia, e ribadisce quello che aveva già detto o lasciato capire altre volte: i processi debbono fondarsi su prove concrete e non debbono essere delle gogne mediatiche.
Queste affermazioni hanno suscitato la reazione di Caselli che sulle pagine del quotidiano “La Stampa” ha rilevato che solo ora Grasso esprime il suo disaccordo con il provvedimento che lo tagliò fuori. Non si può non dargli ragione: in effetti non risulta che a suo tempo Grasso abbia espresso il suo dissenso. Sull’operato della Procura di Palermo sotto la sua gestione Caselli elenca i risultati conseguiti e sul processo Andreotti ricorda la conclusione: il reato di associazione a delinquere semplice è stato commesso fino al 1980 ma è prescritto, per il resto Andreotti è stato assolto per insufficienza di prove. Anche Grasso sciorina i risultati ottenuti e ricorda le diverse condizioni politico-istituzionali in cui si è trovato ad operare, con una serie di leggi che limitavano l’azione giudiziaria.
Non c’è da scandalizzarsi che i magistrati portino nella loro professione culture, sensibilità, esperienze diverse, e sarebbe bene che si aprisse un confronto, franco e ragionato, tra le pratiche giudiziarie messe in atto, ma le polemiche a fior di pelle sono un pessimo esempio e rischiano di fare un servizio ai mafiosi. Sarebbe consigliabile in ogni caso una maggiore sobrietà. Ma non va dimenticato che il rapporto mafia-politica dovrebbe essere il terreno proprio della lotta politica e non può essere delegato alla magistratura che ha strumenti inadeguati, come il concorso esterno, definito solo in sede giurisprudenziale, e lo scambio elettorale politico-mafioso.
Un’ultima osservazione: leggendo il libro capita abbastanza spesso di incontrare giudizi che sembrano ricavati di peso dalle analisi di chi scrive o di altri che hanno nome e cognome (qualche scampolo: borghesia mafiosa, espressione diventata ormai quasi un luogo comune, intreccio di continuità e innovazione come filo che percorre l’evoluzione storica della mafia, controllo totalitario sul territorio o signoria territoriale, pagine sulle donne), anche se non c’è il minimo accenno agli autori. Come pure non viene ricordato che il primo che ha parlato di un certo Pino Lipari, “consigliori” di Provenzano, si chiamava Giuseppe Impastato. E’ già successo e continua a succedere. Ci si sarebbe aspettato che quando Grasso ricorda le benemerenze di alcune associazioni e fondazioni, dedicasse qualche parola all’attività trentennale e autofinanziata del Centro Impastato. Evidentemente gli è sembrata meno importante di altre, forse perché è meno telegenica. Sappiamo quanto siano importanti i mass media, pure per i magistrati. Anche il riferimento ai “parenti americani” che consigliavano a Felicia Bartolotta Impastato di rinunciare alla giustizia e rifugiarsi nella vendetta mafiosa più che alla realtà, popolata di parenti mafiosi residenti a Cinisi, è ispirato alle invenzioni del film I cento passi. Cento come i chiodi di Olmi che ci guarderemo bene dall’usare per qualsiasi libro.
Pubblicato si “Repubblica Palermo” il 25 aprile 2007, con il titolo: Un fronte politico nella lotta alla mafia.