Dopo la disfatta
Umberto Santino
Dopo la disfatta
La sconfitta era certa ma la disfatta non era in conto. E bisogna impietosamente partire dalla constatazione che essa è frutto di innumerevoli errori ma che, almeno per le sinistre, si è chiusa un’epoca.
Gli errori non ci vuol molto a individuarli: ha sbagliato Veltroni a correre da solo, dopo avere affrettato la fine di Prodi, hanno sbagliato i capetti di quel pasticcio che si chiamava La Sinistra – L’Arcobaleno a illudersi che bastasse presentarsi con il cartello di “lavori in corso” per mantenere il vecchio elettorato e possibilmente conquistare nuovi voti.
Il risultato: si è regalato di nuovo l’Italia a Berlusconi e a Bossi che adesso avranno mano libera per fare quello che vogliono.
In Sicilia la disfatta è più che meritata, con una candidata alla Presidenza totalmente inventata, senza nessun legame con il territorio, che parlava continuamente di una “modernità” che non si è capito bene cosa volesse significare. Ha stravinto Lombardo, con il suo sicilianismo avventurosamente collegato al leghismo e in alleanza con Berlusconi, che pone il Ponte e le grandi opere come priorità assolute, per un’ennesima pioggia di risorse volte a rafforzare un blocco sociale che non è mai venuto meno e, che sotto spoglie diverse, domina la Sicilia dagli anni ’40 a oggi.
Di mafia ha parlato soprattutto Dell’Utri per chiamare a raccolta capielettori che si temeva potessero polarizzarsi solo su Cuffaro. Lo ha fatto santificando Vittorio Mangano come martire dell’omertà. Da esperti strateghi quei capielettori hanno equamente diviso i loro suffragi tra Cuffaro, Lombardo e Berlusconi, e ora attendono di incassare sia a livello regionale che nazionale.
Ma più che il voto mafioso è il modello mafioso che trionfa, con l’occupazione del potere e la vittoria dei tanti sotto processo o condannati eletti alla grande. L’impunità, se non è garantita a livello giudiziario, lo è su quello politico-elettorale.
Per il Partito democratico ora si tratta di decidere, se vuole spostarsi sempre più al centro o fagocitare un po’ delle sinistre in sfacelo. Per queste ultime, per la prima volta nella storia d’Italia fuori dal Parlamento, ci sono due possibilità: chiudere bottega, licenziando dirigenti vanitosi e incapaci o avviare una vera e propria rifondazione, a partire dai bisogni reali di tanta parte della popolazione. Disoccupati, precari, ultraflessibili attendono di essere organizzati e rappresentati. Non è facile, data la frammentarietà che caratterizza questo mondo, diviso tra astensionismo e rifugio nel clientelismo, con spiccate simpatie per il razzismo leghista. Ma è una strada obbligata, se si vuole ricostruire un’identità. Con un lavoro quotidiano, senza spocchie e senza telecamere, ripopolando il territorio. E sui temi ambientali bisogna sapere che se si dicono solo dei no, la Campania con le sue montagne di rifiuti che hanno seppellito Bassolino e i suoi sostenitori, è alle porte.