Mafia e politica
Mafia e politica
Giuseppe Montalbano della Scuola Normale di Pisa intervista Umberto Santino
1) Un rapporto tra la politica e la mafia, o meglio “le mafie” declinato al plurale, può essere tracciato in maniera trasversale lungo l’intero arco della storia della Repubblica. Diversi sono invece i rapporti di forza che si sono delineati dalla Liberazione ai giorni nostri, come differenti sono le interpretazioni date dagli studiosi sulla natura del fenomeno. Riferendoci inizialmente alla mafia siciliana, definita a partire dalle confessioni del pentito Tommaso Buscetta “Cosa Nostra”, che tipo di rapporto si instaura nel dopoguerra con l’egemonia democristiana in Sicilia? E’ corretto parlare di un rapporto di sudditanza della politica a un sistema di potere che ha trovato dopo lo sbarco degli alleati un terreno fertile su cui riattecchire? Questa posizione mi sembra possa esprimersi nel quadro tracciato dall’avvocato Giuseppe Alessi, rifondatore della Dc in Sicilia e primo presidente della Regione, in un intervento sul dopoguerra in Sicilia tenuto a Caltanissetta il 26 aprile 1984: racconta infatti di un vero e proprio scontro col “partito” del cosiddetto “Vallone” (un insieme di comuni del nisseno che è stato patria dei capimafia più potenti di allora) e di un asservimento al capo dei capi Calogero Vizzini, in cui un ruolo centrale avrebbe giocato la Chiesa nella figura di monsignor Jacono, allora vescovo di Caltanissetta. Abbiamo quindi inizialmente un rapporto di sudditanza della politica alla mafia? Un’organizzazione onnipotente che detta le sue leggi alla politica? E’ corretto interpretare con questo modello i complessi rapporti tra Dc e mafia che si sarebbero sviluppati a livello nazionale?
2) Il noto concetto andreottiano di “quieto vivere” esprime l’ideale del compromesso, dell’equilibrio possibile tra criminalità organizzata e politica da garantire e mantenere in Sicilia e a livello nazionale. Come si è realizzata storicamente questa pax mafiosa? Può essere letta come una definitiva sconfitta da parte delle istituzioni o al contrario come il trionfo di una mediazione che è servita ad “addomesticare” la mafia alla politica?
Penso che il rapporto mafia-politica sia stato e sia più complesso dello schema autonomia-dipendenza. Mi sembra più corretto parlare di interazione e di convergenza o identità di interessi. Alla base di questa impostazione c’è la mia analisi della mafia come soggetto politico in senso weberiano, cioè di un gruppo che ha un suo complesso di regole, valide entro un dato territorio, un apparato e dei mezzi per farle attuare, comminando sanzioni per chi non le rispetta. Come tale la mafia ha un rapporto duale con le istituzioni: non riconosce il monopolio statale della forza ma intrattiene con esse una serie di rapporti. Questo vale per l’organizzazione criminale (Cosa nostra e altri gruppi) ma il quadro si complica se si considera che aspetto costitutivo del fenomeno mafioso è il sistema di relazioni, che vanno dagli strati sociali più bassi a quelli più alti, e che danno vita a un blocco sociale, dominato da soggetti illegali e legali: capimafia, professionisti, imprenditori, amministratori, politici, rappresentanti delle istituzioni, definibili come borghesia mafiosa. Questo rapporto interrattivo comincia con la formazione dello Stato unitario ed è preceduto da una lunga fase di incubazione (quelli che chiamo “fenomeni premafiosi” sono documentabili fin da XVI secolo).
La mafia nell’immediato dopoguerra è un soggetto decisivo nella repressione del movimento contadino e l’assunzione diretta del potere da parte di capimafia, nominati sindaci e amministratori, configura una criminocrazia formale. Successivamente si pone il problema di arrestare con tutti i mezzi le lotte contadine e battere le sinistre che, sull’onda delle mobilitazioni contadine, avevano vinto le elezioni regionali del 20 aprile 1947. La risposta fu Portella della Ginestra e la fine della coalizione antifascista al governo dal 1944, con l’esclusione delle sinistre dal potere. Quindi il problema non è solo Caltanissetta, come nell’analisi di Alessi, è l’assetto di potere nazionale e regionale, con l’affermazione del centrismo, cioè della supremazia democristiana con il contorno dei partiti conservatori, che furono indicati come mandanti della strage del primo maggio. Non vedo pertanto una mafia onnipotente che detta le leggi alla politica e la politica che obbedisce ed esegue. Direi piuttosto che c’è un matrimonio consensuale che consente all’assetto politico di riprodursi e perpetuarsi e alla mafia di prosperare e di inserirsi in posizione privilegiata dentro un quadro sociale in mutamento, con la spesa pubblica che diventa la risorsa fondamentale, una volta ridimensionata l’agricoltura e sviluppatosi il settore terziario-parassitario.
Il “quieto vivere” di Andreotti è un modo molto soft di riconoscere questa convivenza che serviva tanto alla mafia quanto alla politica e alle istituzioni. Può essere utile il concetto di mediazione? Direi che l’aspetto prevalente è la comunanza di interesse a tenere fuori dal potere le sinistre e a controllare il conflitto sociale. La mafia è stata un baluardo nella lotta anticomunista (anche la Chiesa cattolica metteva al centro della sua azione l’anticomunismo), finché c’è stato un forte Partito comunista, ma in Sicilia la partita con il Pci e le sinistre era stata vinta già nel corso degli anni ’40 e ’50, con un’autonomia regionale gestita dalle forze conservatrici e una riforma agraria che spinse all’emigrazione circa un milione e mezzo di persone e dissanguò la Sicilia delle sue forze più combattive e ridusse a minoranze i partiti di opposizione.
3) Con la fine dell’egemonia delle famiglie mafiose palermitane, sancita con l’eliminazione dei Bontade, e l’instaurazione della dittatura sanguinaria dei corleonesi il sottile equilibrio si rompe dando vita all’epoca stragista. Come interpreta una simile rottura nei rapporti mafia-politica?
La convivenza pacifica tra mafia e politica governativa dura fino alla fine degli anni ’70 e ai primi anni ’80, quando l’accumulazione illegale straripa e la mafia chiede molto di più, abbattendo gli ostacoli che incontra al suo processo di espansione, anche all’interno dello schieramento al potere. Leggo in quest’ottica il delitto Mattarella del gennaio 1980. Hanno volutamente colpito un uomo-simbolo: figlio ed erede di Bernardo, da più fonti indicato come politico “chiacchierato”, anche se non ci sono riscontri sul piano giudiziario (Danilo Dolci, che pure aveva fatto denunce puntuali, fu condannato per diffamazione), ma impegnato in una politica di moralizzazione e di apertura al Pci, sulla linea di Aldo Moro. Più che di rottura con la politica parlerei di un alt a tentativi di rinnovamento che potevano ostacolare o contenere la strategia espansiva della mafia. Questa strategia nasce dalla lievitazione dell’accumulazione illegale, che porta a una lievitazione della richiesta di spazi di potere, e si mischia con la volontà di dominio dei corleonesi, fino ad allora parenti poveri della mafia cittadina. I corleonesi impongono una dittatura monarchica a un’organizzazione tradizionalmente repubblicana e colpiscono a morte anche chi all’esterno si oppone o non è “affidabile”. Vincono la guerra interna ma con il delitto Dalla Chiesa e con le stragi del ’92 e del ’93 suscitano effetti boomerang: la legge antimafia, approvata dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa, il maxiprocesso, gli arresti e le condanne.
4) Diversi studiosi hanno datato a questi anni il delinearsi da parte dello Stato di una risposta forte alle mafie e la nascita di una “lotta antimafia” che partendo dalla società civile avrebbe presto coinvolto le istituzioni e la politica nella costituzione di un fronte comune. Si può davvero parlare di una “nascita dell’antimafia” nell’epoca post-stragista? Quale è stata la reazione dello Stato e della politica? Come si ridefinisce in quegli anni il rapporto mafia e politica? Si assiste davvero a una completa inversione di rotta o ad un’inversa strategia di rapporti?
5) Quanto le leggi antimafia adottate a partire dall’omicidio del generale Dalla Chiesa e la lotta condotta dalle istituzioni hanno intaccato il “sistema di rapporti” del potere mafioso che fa da filo conduttore dei suoi libri? Quanto sono state incisive a suo avviso le risposte della politica da quel momento, in particolare in Sicilia?
L’antimafia nasce già alla fine dell’Ottocento, con i Fasci siciliani, e prosegue con le lotte contadine degli anni precedenti e successivi al Fascismo. Dal 1944 al 1947 la mobilitazione contadina è sollecitata e sostenuta dai governi di unità antifascista, dopo viene condotta solo dalle forze dell’opposizione.
Negli anni ’80 e ’90 più realisticamente abbiamo l’impegno di alcuni settori delle istituzioni, soprattutto di parte della magistratura che gode di una sorte di delega a tempo, in una logica di risposta emergenziale all’escalation della violenza mafiosa. La legge antimafia è stata un fatto storico, intervenuto con più di un secolo di ritardo rispetto alla realtà, ma essa e le altre leggi antimafia più che costituire una risposta organica sono una risposta emergenziale a un fenomeno considerato soprattutto come emergenza delittuosa, cioè come fabbrica di omicidi. Non si pongono adeguatamente il problema dei rapporti, tanto che per affrontarlo si è dovuto ricorrere al concorso esterno, che è una elaborazione giurisprudenziale.
Il “fronte comune” costituitosi negli anni ’80 e ’90 raccoglie minoranze, sia all’interno delle istituzioni sia all’esterno. Le grandi manifestazioni successive alle stragi coinvolgono centinaia di migliaia di persone, sull’onda dell’emozione e dello sdegno suscitato dai grandi delitti, ma a svolgere un lavoro continuativo, nelle scuole, nell’antiracket, per l’uso sociale dei beni confiscati, si era e si è rimasti in pochi, anche se c’è stato un relativo incremento.
Il pool antimafia invece di essere rafforzato viene smantellato dopo il maxiprocesso, buona parte della legislazione antimafia viene attenuata (penso in particolare alle restrizioni per i collaboratori di giustizia), Falcone è costretto a lasciare Palermo dopo una serie di traversie che preparano il terreno all’assassinio. Lo stesso può dirsi per Borsellino, isolato e osteggiato in vita e osannato da morto. Chinnici, che ha il merito storico di aver avviato l’azione del pool antimafia, ha avuto grossi problemi ed è per giunta dimenticato.
Sul piano politico l’autoelisione della Democrazia cristiana, partito di mediazione con tutti i poteri reali, a cominciare dalla mafia, porta alla nascita di Forza Italia, che ignora la mediazione e privilegia una strategia di legalizzazione dell’illegalità, che va oltre le vicende personali del leader-padrone. La relazione su mafia e politica della Commissione antimafia del 1993, che teorizza una responsabilità politica e l’affida all’autoregolamentazione dei partiti, rimane interamente sulla carta. I partiti hanno continuato a candidare e a fare eleggere personaggi sotto processo e condannati. Più che un’inversione di rotta c’è stata una ridefinizione delle strategie di rapporti. La mafia ha capito che la strategia della violenza era perdente e ha preferito rilanciare la mediazione attraverso la sommersione, cioè il controllo della violenza, soprattutto di quella rivolta verso l’alto; i nuovi aspiranti al potere si sono aggrappati a Berlusconi come l’unico personaggio che li potesse portare al comando, allineandosi alla sua politica di privatizzazione del potere, che ha molto da spartire con il modello mafioso: l’illegalità come risorsa e l’impunità come legittimazione. Il guaio è che la maggioranza degli elettori italiani ha votato per Berlusconi per ben tre volte, e ciò vuol dire che questo modello, strutturalmente illegale, gode di un ampio consenso.
6) Il caso del governatore della Regione siciliana Salvatore Cuffaro si inscrive all’interno della “questione etica” e nelle contraddizioni di una classe politica che spende migliaia di euro per affigere in tutte le città della Sicilia manifesti recanti la fulgida intuizione “La mafia fa schifo” e festeggia con cannoli e spumante la condanna per favoreggiamento del Presidente della Regione. Aspetto a mio avviso più inquietante della vicenda è il fatto che Cuffaro sia stato candidato dal suo partito al Senato e che grazie ai voti della Sicilia sia salito. Che senso può avere a suo avviso una “questione etica” se il popolo “premia” chi è stato condannato per mafia? Quali sono le insufficienze e le debolezze di un’antimafia che fa molta pubblicità, ma sembra non avere ancora presa all’interno della società?
La “questione etica” per moltisimi cittadini non esiste, se non come riprovazione per le attività delittuose più eclatanti e per i boss più sanguinari, poiché agisce una dinamica di creazione del consenso che poggia le sue radici nella consistenza dell’accumulazione illegale e nella pratica dell’illegalità. Cuffaro è stato eletto con gran numero di voti anche dopo la condanna e l’Udc non poteva non candidarlo perché senza Cuffaro sarebbe sparita. La presenza al Senato si deve a Cuffaro. I proclami antimafia vanno benissimo pure per la mafia se il sistema di potere rimane integro e da questo punto di vista Berlusconi è molto più pericoloso di Cuffaro, rappresentando una summa di poteri, economico, politico, mediatico, che non ha eguali in Italia e anche altrove. Si ripropone il problema del consenso che invano si tenta di aggredire con le denunce dei rapporti di alcuni personaggi con dei mafiosi. Si pensa che dovrebbero agire da deterrenti e invece agiscono da collanti e da spot pubblicitari. Non è affatto vero che “se li conosci li eviti”. Anzi è vero il contrario: se li conosci li voti. Il voto della maggioranza degli elettori è pienamente consapevole.
7) In un libro-intervista uscito recentemente “Pizzini, veleni e cicoria”, realizzato dal giornalista della Stampa Francesco La Licata, il procuratore Grasso polemizza apertamente con quanti, in primis Travaglio e Lodato, hanno definito l’arresto dell’ultimo boss corleonese Bernardo Provenzano come una sorta di “arma di distrazione di massa” sul cui sfondo si nasconderebbe ancora il rapporto mafia-politica. Perchè questa accusa? Che peso ha avuto per Cosa Nostra l’arresto di Provenzano?
In quel libro si parla ampiamente di borghesia mafiosa ma si tralascia di indicare il mio lavoro. Non è la prima volta che succede e non sarà l’ultima. Anche nell’antimafia ci sono vetrine e protagonismi, veicolati dai media. In televisione circolano servizi in cui si ignora il ruolo decisivo del Centro pure per le vicende di Peppino Impastato (si veda un filmato per “La storia siamo noi”).
Le polemiche sono da ricondurre al clima del palazzo di giustizia di Palermo, dominato dalle divisioni tra i magistrati. Al centro delle divisioni il rapporto mafia-politica e la valutazione sul processo ad Andreotti, che a mio avviso si è chiuso con un verdetto “all’italiana”: associato a delinquere fino al 1980, ma il reato è prescritto, assolto per il resto. In realtà i rapporti di Andreotti con un personaggio come Salvo Lima sono durati fino alla sua morte, nel 1992. Il 1980 è una data inventata e la scelta di incriminare senza condannare e di assolvere è un compromesso che salva il lavoro della Procura e contribuisce alla santificazione di Andreotti. Grasso è stato accusato da altri magistrati di aver tralasciato le indagini sui rapporti con la politica. Ritengo che su questo terreno la magistratura abbia mezzi inadeguati (il concorso esterno) e che dovrebbe essere la società nel suo complesso ad affrontare questi temi, ma si guarda bene dal farlo, escluse poche minoranze.
L’arresto di Provenzano è certo un fatto positivo, ma viene con troppo ritardo e significa che per molti anni non lo si è cercato. Resta il problema del ruolo di Provenzano negli ultimi anni: un capo dei capi monarchico, o un primus inter pares di un organo collegiale composto da pochissimi boss? Propendo più per la seconda ipotesi. L’arresto di un capomafia è senz’altro un colpo alla mafia ma la sua sostituzione non è difficile. La mafia del dopo Provenzano si trova a dover fare una scelta: o continuare, anche con qualche sussulto, sulla linea della mediazione e del controllo della violenza o riprendere la linea della violenza eclatante. Finora pare che abbia capito che la linea più conveniente, con un quadro politico abbastanza ospitale, è quella della “sommersione”.
8) Nei giorni successivi alle ultime elezioni è andato in onda su Exit, programma di attualità della rete televisiva “La 7”, un servizio sul sistema dei patronati gestiti dall’Mpa. Un servizio che ha messo in luce uno scandalo sotto gli occhi di tutti e che, come prevedibile, non ha destato alcuno scandalo nell’opinione pubblica. Riassumendo: delle strutture pubbliche finalizzate a garantire assistenza e aiuti ai cittadini dei quartieri più disagiati si sono improvvisamente trasformate in comitati elettorali dei partiti del Movimento per l’Autonomia e del Popolo delle Libertà, dando vita a un vero e proprio mercato di voti. La risposta del neo-eletto presidente della Regione, Raffaele Lombardo è degna di riflessione: la legge non vieta che queste strutture pubbliche diventino dei comitati elettorali. Perché nessuno ha mai parlato di questa grave “lacuna” e non sono stati presi provvedimenti in tal senso? Come queste “lacune” nelle leggi favoriscono il diffondersi di un sistema clientelare? Quanto questo sistema debba considerarsi la “chiave” per intendere oggi i rapporti tra mafia e politica particolarmente nel meridione?
Non c’è stato nessuno scandalo perché tutto questo, all’insegna della privatizzazione del pubblico, viene considerato normale. Si tratta di “lacune” o di prassi che continuerebbero anche con regole più adeguate? Le regole certamente sono necessarie ma bisognerebbe preoccuparsi di farle rispettare.
Lombardo e l’MPA hanno ripreso i temi classici del sicilianismo, solo che avranno a vedersela con il settentrionalismo leghista e con i personalismi di Berlusconi. Non so quanto Lombardo potrà ottenere in un contesto in cui il suo peso non è tale da bilanciare la preponderanza di Forza Italia e della Lega. Non so neppure se Lombardo abbia voglia e possibilità di rilanciare il separatismo come movimento di massa per rafforzare il suo peso. Comunque la mafia da tempo non è più un fenomeno solo locale e non so quanto sarebbe interessata a un’operazione del genere.
Per intanto il nuovo presidente della Regione cerca di tenere in piedi il sistema clientelare, in continuità con Cuffaro, e ricorre alla foglia di fico di qualche magistrato per dare parvenza di legalità ed efficienza a settori come la sanità che scatena grandi appetiti essendo diventato uno dei più danarosi e dei più funzionali all’esercizio della “signoria territoriale”. Anche Cuffaro vi aveva fatto ricorso e ha trovato qualcuno che si è prestato…
9) Un modello di controllo territoriale con cui è possibile interpretare anche il “sistema” camorra?
10) Il rapporto camorra-politica tratteggiato da Saviano nelle pagine di “Gomorra” viene sintetizzato in un passo significativo in cui l’autore pone una netta distinzione dal modello della mafia siciliana: “I clan di camorra non hanno bisogno dei politici come i gruppi mafiosi siciliani, sono i politici che hanno necessità estrema del Sistema (alias camorra, ndr)” [R. Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006, p. 57]. Può commentarci questa affermazione?
Il mio concetto di signoria territoriale si può applicare anche alla ‘ndrangheta e alla camorra. Non mi convincono le affermazioni di Saviano che ha scritto un romanzo di successo che non indica le fonti di documentazione. Il successo poi lo ha portato a un protagonismo eccessivo, come al solito ingigantito dai media, come se fosse il primo e l’unico a parlare di camorra e a correre rischi. Non si dimentichi che Siani è stato ucciso e non ha mai avuto vetrine. Anche in Campania i rapporti camorra e politica sono complessi e non riducibili a semplificazioni buone per i bestsellers.
10) Lo scorso giugno l’omicidio dell’imprenditore Michele Orsi a Casal di Principe, definito dal Saviano come il “Salvo Lima nei rapporti tra clan e politica” ha riaperto la questione della “protezione” offerta dallo Stato a chi collabora con la giustizia. In vista del maxi-processo “Spartacus” che minaccia di infierire pesantemente sul clan dei casalesi, le dichiarazioni dell’Orsi avrebbero fornito elementi di fondamentale importanza. Nonostante le numerose intimidazioni, il prefetto non gli ha concesso la scorta. Perché un collaboratore così prezioso è stato lasciato solo? Come lo Stato difende chi è disposto a denunciare o collaborare?
Non capisco il raffronto Orsi-Lima: sono storie diverse. Sul problema della protezione ai collaboratori bisogna conoscere i casi concreti e su Orsi io so solo quello che ho letto sui giornali. Comunque a mio avviso bisognerebbe rivedere tutta la politica anticrimine, in particolare quella per i testimoni di giustizia, per anni condannati a una condizione di isolamento e di misconoscimento del loro ruolo.
11) Quali sono le nuove norme sulla confisca dei beni mafiosi contenute nel “pacchetto sicurezza” del governo? Forniscono a suo avviso una risposta sufficiente a quello che è stato definito più volte dall’onorevole Forgione, presidente della commissione parlamentare antimafia nella scorsa legislatura, una delle più gravi lacune presenti nella nostra legislazione? Quali sono oggi le risposte della politica nella lotta alla criminalità organizzata? Quanto la “questione sicurezza” ha posto in secondo piano la minaccia prioritaria della criminalità organizzata?
Il pacchetto sicurezza è nato soprattutto per proteggere Berlusconi dagli attacchi della giustizia e per dare fiato alle politiche xenofobe della Lega, alla ricerca di capri espiatori, con il progetto semplicemente vergognoso di prendere le impronte ai bambini Rom. Poi per fare inghiottire la pillola il pacchetto è diventato un sacco in cui c’è di tutto, comprese le misure antimafia. Ma il massimo che si potrà fare è continuare a perseguire boss e gregari, facendo la faccia feroce con loro. Mentre il sistema di rapporti è in pieno vigore e informa il sistema di potere complessivo. Quando Dell’Utri definisce un “eroe” Vittorio Mangano, non lo fa solo per calamitare voti ma per proclamare un’identità politico-culturale. E l’immunità per Berlusconi, fatta passare con l’immunità per le più alte cariche dello Stato, l’immunità dei parlamentari che si vuole ripristinare, parlano chiaro: la legalità si riscrive come illegalità garantita. Ma non mi stanco di sottolineare che tutto ciò gode di largo consenso e questo è il pozzo in cui guardare, con un’analisi adeguata che dal sistema di potere si allarghi al contesto sociale.
12) Quali sono le prospettive e le lacune dell’antimafia sociale e quanto sono presenti nel fronte antimafia contrasti interni che impediscono la costituzione di un vero e proprio “fronte unico”. La politica come può essere in prima linea a questa che Borsellino definì innanzitutto nei termini di una “battaglia culturale”?
Si parla di antimafia sociale ma in realtà le esperienze significative sono pochissime: l’uso dei beni confiscati riguarda poche cooperative con decine di soci, la lotta per la casa a Palermo che ha portato anche all’uso delle case confiscate riguarda solo alcune centinaia di persone. Anche l’antiracket coinvolge minoranze: un centinaio di associazioni, quasi tutte al Sud (al Centro-Nord è diffusa la cultura leghista del fai da te, cioè: difenditi con le tue armi), con alcune migliaia di associati. Per il resto l’antimafia ignora i problemi sociali e si fonda soprattutto sulla predicazione di una legalità astratta e formale. I contrasti interni (penso per esempio a quelli che hanno portato a rotture con Libera) sono dovuti alla mancanza di una cultura della convivenza democratica, a protagonismi che ignorano il lavoro collettivo e il rispetto delle storie e delle esperienze di ciascuno.
La lotta alla mafia dovrebbe essere uno dei punti qualificanti di una lotta per la democrazia e per l’uso sociale delle risorse, condotta su vari terreni, non solo su quello culturale. Su questo progetto dovrebbe ridefinirsi un’identità dei soggetti alternativi. Le sinistre sono sparite prima che dal Parlamento dal contesto sociale, nonostante i tentativi di legarsi ai movimenti, in particolare ai noglobal. Non sono presenti sul territorio, non hanno nessun ruolo dentro i conflitti sociali. Il Pd marcia speditamente verso il centro, pur non avendo avuto nessun voto da quelle parti. E se non si costruisce una politica che metta al centro i problemi della disoccupazione, del lavoro nero e precario, del rafforzamento dell’economia legale, con una diffusa presenza sul territorio, mafie e destre sono destinate a riprodursi e a perpetuarsi chissà per quanto tempo. Le borghesie più o meno mafiose fanno ottimi affari con le grandi opere e gli strati popolari tutto sommato riescono a intercettare quote di reddito attraverso l’economia illegale e i reticoli clientelari. Queste, nel vuoto di politiche concretamente alternative, sono le basi strutturali del potere delle destre.
Sono convinto che non ci sia una valutazione adeguata della gravità della situazione che stiamo vivendo. E’ in corso uno svuotamento dei principi fondamentali della Costituzione, operato con leggi ordinarie e con procedure accelerate. L’immunità per Berlusconi e le cariche più alte dello Stato viola il principio di eguaglianza, la riforma della giustizia cancellerà l’indipendenza della magistratura. Tutto questo sta accadendo in un contesto di barbarie culturale e politica, che si declina con gesti e linguaggi da bordello e da trivio. Le corna e il dito medio sono il degno emblema del personale politico più squallido della storia del nostro Paese, ma godono dell’apprezzamento del pubblico; il CSM viene definito una “cloaca” e subito dopo si dice che è stato solo un lapsus. Non sono un difensore d’ufficio della magistratura e dico chiaramente che alcuni magistrati farebbero bene ad evitare apparizioni in televisione e ritengo sconveniente la decisione del CSM di nominare Di Pisa, ache se assolto nei processi per calunnie a Falcone, procuratore capo a Marsala. L’unica manifestazione che in qualche modo ha focalizzato questo quadro estremamente preoccupante, quella di piazza Navona, viene esorcizzata per le battute di due comici che hanno attaccato il presidente della Repubblica e il papa. Si avvia una raccolta di firme e si continua a sperare nella possibilità di un dialogo che Berlusconi non vuole poiché il voto gli consente di aver mani libere per poter rafforzare la sua autocrazia. Senza un’analisi e una mobilitazione adeguate, temo che per l’Italia si preparino tempi tristissimi. E non potremo evitarli cercando unanimismi impossibili. Termino con una domanda: sapremo ricostruire una polis più civile e una dignità individuale e collettiva?