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Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario-industriale

  1. A) Il denaro sporco del Clark Syndicate australiano
  2. B) Le holdings della World Finance Corporation

La Mafia Finanziaria

Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario-industriale

Prima pubblicazione in “Segno”, n. 69-70, aprile-maggio 1986.

It is the duty of the bank to accept proffered funds. If you came into my office with one million dollars in your suitcase, I would take it.
Un alto funzionario della Banca Centrale delle Bahamas.

Potete fare due tipi di peccato, uno veniale e uno mortale. Il veniale è scappare con la cassa;
il mortale è fornire ad altri un’informazione riservata
.
Enrico Cuccia, Presidente della Mediobanca, ai nuovi assunti dalla banca.

Premessa

Questi appunti sono una prima traccia di un’ipotesi di ricerca sugli aspetti finanziari del fenomeno mafioso attuale e delle altre forme di crimine organizzato e sui processi di finanziarizzazione dell’economia contemporanea. Mafia e crimine organizzato vengono considerati come delle grandi macchine di accumulazione del capitale che intrecciano metodi legali e illegali e operano in un contesto mondiale dominato da quello che può essere definito il “complesso finanziario-industriale”, un composto egemonico formato dalle imprese multinazionali e da grandi unità finanziarie, le cui caratteristiche di opacità permettono l’inserimento del capitale illegale nei circuiti finanziari internazionali.

Tale ricerca richiede un notevole impegno di energie e una dotazione di mezzi rilevante: uno staff internazionale, una massa di documentazione adeguata, una metodologia multidisciplinare affinata. Per adesso è solo un’ipotesi di lavoro supportata da una documentazione insufficiente e praticata con gli scarsi mezzi di un centro di documentazione privato che opera in un contesto come la Sicilia, per alcuni aspetti un osservatorio “privilegiato” ma non certo un terreno favorevole per una ricerca scientifica su temi così scottanti, se si tiene conto che le università e le istituzioni culturali che godono di finanziamenti pubblici, tolto qualche impegno sporadico a livello individuale, sono assenti dalla ricerca sulla mafia.

Un mutamento di paradigma

Gli stereotipi correnti tendono a presentare il fenomeno mafioso essenzialmente come devianza, criminalità, prodotto di situazioni particolari, residuo di irrazionalità arcaica, subcultura, eversione. Caratteristica comune di queste valutazioni è la contrapposizione tra una società fondamentalmente, se non interamente, sana e una serie di fenomeni (mafia, ‘ndrangheta, camorra, crimine organizzato di vari Paesi: americano, turco, giapponese, cinese, latino-americano, australiano etc.) considerati come eventi patologici.

L’analisi della mafia che si svilupperà in questo articolo mira a un rovesciamento delle visioni correnti, partendo dalla considerazione che il fenomeno mafioso è il prodotto organico di un ecosistema sociale. Ciò vale per le sue origini, per il suo sviluppo e per le sue determinazioni attuali.

La definizione di mafia che viene qui adottata è quella di uno strato di classe dirigente, o tendente a diventare tale (“borghesia mafiosa”), che servendosi, più o meno scopertamente e direttamente, di metodi violenti e legali, riesce ad accumulare masse di capitale e ad acquisire e gestire posizioni di potere all’interno del sistema di comando nel suo complesso, in alleanza-concorrenza-conflitto con altri strati dominanti, sviluppando un suo modello di dominio-egemonia inteso alla riproduzione del consenso. Violenza, sistematica, organizzata, normalmente impunita, accumulazione, potere, codice culturale, un relativo consenso sociale, appaiono pertanto come termini essenziali per comprendere il fenomeno mafioso, a partire dal contesto in cui esso si sviluppa, e per distinguerlo da fenomeni meramente criminali.

Sul piano storico l’evoluzione del fenomeno viene vista come un intreccio strettissimo di elementi di continuità con elementi di trasformazione, in forza di un’elevata elasticità-capacità di adattamento che si presenta come uno dei caratteri più rilevanti dello stesso fenomeno.

Le considerazioni precedenti valgono in particolare per la mafia siciliana e siculo-americana, ma da un ventennio a questa parte è in atto un processo di omologazione delle varie forme di crimine organizzato, nelle quali è possibile riscontrare, accanto ad elementi specifici, elementi di carattere generale identici o assimilabili.

Dai fenomeni premafiosi alla mafia finanziaria

L’ipotesi di periodizzazione che è alle spalle di questi appunti e che qui si può soltanto richiamare sinteticamente, individua quattro fasi:

1) processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo in Sicilia e formazione di un “sistema economico mondiale”, dal secolo XVI al XIX. La Sicilia, utilizzando lo schema proposto da Wallerstein (1974), che distingue tra centro (prevalenza del lavoro salariato e affermazione dello Stato centralizzato), semiperiferia (mezzadria e policentrismo del potere), periferia (lavoro schiavistico e vuoto di potere), si configura come “semiperiferia anomala” e nella Sicilia occidentale si sviluppano i “fenomeni premafiosi” (Santino, 1983a: 140-143).

In sintesi il quadro appare così delineato: oligopolio della violenza, diviso tra Stato e poteri baronali; trasformazione delle colture nella Sicilia orientale attraverso l’istituto dell’enfiteusi (affitto a lunga scadenza) e nella Sicilia occidentale diffusione del latifondo e prevalenza della mezzadria (contratto di affitto a breve termine). Per “fenomeni premafiosi” possiamo intendere: primo: la delittuosità regolarmente impunita di soggetti al servizio dei baroni e quindi il profilarsi di una “delinquenza garantita” perché espressa da classi dirigenti (Cancila, 1984); secondo: la finalità economica di alcuni reati, che vengono normalmente praticati per la loro capacità di accumulazione di ricchezza (esempio: furti, sequestri di persona seguiti da “composizione”, cioè da richiesta di un esborso di denaro o altro per riavere la persona o il bene sottratti).

2) Creazione dello Stato unitario in Italia, con un blocco dominante composito, al cui interno prevalgono i grandi industriali del Nord e i grandi proprietari terrieri meridionali. L’economia rimane prevalentemente agricola fino agli anni ’50 del XX secolo. La stratificazione sociale nella Sicilia occidentale vede al vertice i grandi agrari, al centro gli affittuari dei latifondi (gabelloti), alla base i contadini: piccoli proprietari, mezzadri, braccianti etc. Affermazione della “mafia agraria” (il che non vuol dire che è presente solo nelle campagne: la capitale politico-professionale della “mafia agraria” è Palermo), rappresentata principalmente dagli affittuari che si servono normalmente della violenza, impunita, per lo sfruttamento della forza-lavoro contadina. Le funzioni della “mafia agraria” sono: accumulazione del capitale, in proprio o per conto dei proprietari terrieri, con i quali sono in rapporto di alleanza-concorrenza; governo locale, mediazione tra comunità locale e comunità nazionale, controllo e repressione del movimento contadino, suo principale antagonista dai Fasci siciliani (1892-1894) alle lotte per la riforma agraria degli anni ’40 e ’50; perno del sistema clientelare attraverso cui avviene l’integrazione subalterna del Mezzogiorno nel contesto nazionale.

3) Dalla seconda metà degli anni ’50 trasformazione dell’economia e della società italiana in società industriale-terziaria. Dopo la sconfitta delle lotte contadine comincia l’emigrazione di massa dalla Sicilia e dal Mezzogiorno, con il conseguente spopolamento delle campagne. Gonfiamento delle città terziarie ed affermazione della “mafia urbano-imprenditoriale”, con le seguenti funzioni: controllo dei mercati, edilizio ed alimentari, delle assunzioni nell’impiego pubblico, del credito. Al “clientelismo dei notabili” si sostituisce il “clientelismo di massa” organizzato dai partiti di governo. Le fonti di accumulazione illecite della mafia sono: contrabbando di sigarette, fonti precedenti, mantenute e “riconvertite”, per esempio le tangenti (i vecchi “pizzi” sui prodotti agricoli diventano sempre più taglieggiamenti sulle attività commerciali e imprenditoriali: racket). Alle attività illecite si intrecciano quelle lecite: appalti di opere pubbliche, attività imprenditoriali. Comincia la diffusione della mafia sul territorio nazionale e diviene sempre più stretto il collegamento con i mafiosi americani, dopo l’esperienza di “lavoro comune” avviata con lo sbarco degli Alleati nel 1943. Già nel periodo del proibizionismo (1920-1933) il gangsterismo americano, di varie nazionalità, si era costituito in “mafia-impresa”, “nel senso che le attività criminose si sposano alle attività di produzione e commercializzazione degli alcolici, beni dichiarati illegali ma di largo consumo” (Santino, 1982b: 16, 1983b: 44).

4) Dagli anni ’70 ad oggi, attraverso lo sviluppo sul piano internazionale dei traffici di droga e di armi e la conseguente accumulazione di grandi masse di capitale, si afferma la “mafia finanziaria”, come soggetto economico polivalente, multinazionale. In tal modo fenomeni che prima potevano essere considerati come “vie criminali al capitalismo” delle aree periferiche e di settori sociali marginali sono diventati “vie criminali del capitalismo e della società contemporanea” (1).

Mercato mondiale mafioso e società contemporanea

Siamo entrati in una fase nuova della criminalità organizzata. L’esistenza di grandi organizzazioni criminali in varie parti del mondo è una realtà storica che si è sviluppata nell’arco di uno o più secoli, ma solo nel corso degli ultimi anni si è formato un “mercato mondiale mafioso”, le cui caratteristiche essenziali possono così indicarsi:

1) la diffusione di traffici a scala planetaria, di cui quelli di droga e di armi sono i più lucrosi, ma non gli unici, e la sempre più marcata caratterizzazione di tali traffici come servizi, cioè come produzione e smercio di beni destinati al consumo di massa, nonostante la loro collocazione, in tutto o in parte, sul mercato nero e illegale. Tale collocazione permette agli operatori illegali di agire in una situazione di monopolio;

2) l’omologazione delle organizzazioni che dirigono tali traffici. Pur rimanendo aspetti culturali specifici delle varie tradizioni, le organizzazioni criminali sono diventate sempre più simili, per struttura organizzativa, articolazione internazionale, affermandosi come multinazionali che entrano in rapporti reciproci di collaborazione-concorrenza-competizione, anche violenta, all’interno di una divisione internazionale del lavoro criminale-legale.

Insieme con la mafia siculo-americana si sono affermate negli ultimi anni le mafie colombiana e boliviana, le Triadi cinesi, la Yakusa giapponese, le criminalità organizzate portoricana, australiana etc. (2);

3) il formarsi di un circuito finanziario internazionale e di canali di riciclaggio del capitale di provenienza illecita e di investimento a scala internazionale;

4) la compenetrazione tra illecito e lecito all’interno del mercato internazionale;

5) lo svilupparsi di un processo di identificazione-compenetrazione-complicità con i centri di potere politico-militare in molte aree del pianeta.

In presenza di tali caratteri fondamentali, pur non potendosi parlare di un’unica mafia supernazionale e internazionale, si può dire che le varie criminalitàorganizzate sono diventate, o tendono a diventare, delle mafie, cioè recepiscono e sviluppano i caratteri della mafia siculo-americana precedentemente accennati (violenza-accumulazione-potere-cultura-consenso).

Il contesto economico-politico mondiale si è mostrato particolarmente ospitale per lo sviluppo di queste realtà.

Le definizioni proposte per la società contemporanea (società tardo-capitalistica, società postindustriale, società di massa), anche se si rifanno a universi concettuali diversi e contengono elementi di divaricazione irriducibili, tuttavia permettono di individuare alcuni punti essenziali che caratterizzano l’assetto sociale che si è venuto a configurare negli ultimi decenni. Tali punti sono:

1) uno sviluppo tecnologico che tende a ristrutturare il settore industriale con processi di meccanizzazione che espellono forza lavoro, e ad espandere gli altri settori produttivi (terziario: trasporti, servizi pubblici; quaternario: commercio, finanza, assicurazioni; quinario: assistenza sanitaria, educazione, ricerca scientifica, impiego del tempo libero) aprendo nuove occasioni di lavoro che però non sono tali da compensare i vuoti prodotti dalla ristrutturazione industriale, per cui si ha un aumento della sovrappopolazione relativa. La scena economica mondiale è occupata dalle imprese multinazionali animate da grandi strutture finanziare e la sempre maggiore unificazione planetaria consente il decentramento dei processi di produzione e l’utilizzo della forma lavoro periferica al più basso costo possibile;

2) l’accentuazione degli squilibri territoriali tra aree centrali e aree periferiche condannate al sottosviluppo, la distruzione della natura e il depauperamento delle risorse, l’intensificazione della gara egemonica tra le superpotenze affidata a processi di militarizzazione crescenti. L’onnipotenza di morte degli arsenali militari accentua la dipendenza degli Stati satelliti, limitandone, se non annullandone, le sovranità, e induce un generale senso di insicurezza;

3) la stratificazione sociale tende a diventare sempre più complessa, con la riduzione della classe operaia, l’aumento di strati intermedi, il proliferare di figure sociali composite, l’allargarsi dei processi di emarginazione sociale per fasce sociali e fasce d’età: giovani, vecchi, donne etc.;

4) l’intensificazione dei processi di urbanizzazione con la concentrazione di masse crescenti di popolazione nelle megalopoli, il cui sviluppo sfugge a razionali processi di pianificazione dello spazio urbano, in cui si accampano folle sconosciute e proliferano fenomeni di violenza e di criminalità diffusa;

5) l’omologazione dei comportamenti di massa, degli stili di vita, sotto l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, con la diffusione di simboli di successo legati al denaro, alla violenza, al sesso etc. I mass media tendono a diventare sempre più i reali strumenti di socializzazione di massa, sostituendosi alla famiglia e alla scuola;

6) la crisi dello Stato sociale e della rappresentatività delle istituzioni nei confronti di una società civile sempre più massificata e disgregata, con il proliferare dì centri di potere detentori di capacità decisionali effettive sempre meno visibili e controllabili;

7) la crisi dei modelli classici di analisi e di prassi politica (democratico-borghese e marxista, riformista o rivoluzionario), la cosiddetta “fine delle ideologie”, che omologa le forze politiche, produce disorientamento e qualunquismo, alimenta il misticismo come fuga dalla realtà, genera fenomeni di intolleranza e di terrorismo. I movimenti di massa, nonostante la forza d’urto delle ondate cicliche di contestazione e antagonismo, non riescono a sottrarsi all’assorbimento nel sistema e a produrre progetti alternativi, concreti e praticabili.

La “fase nuova” della criminalità organizzata di cui parlavamo prima si inserisce in questo contesto e si spiega con i caratteri propri di esso (3).

Il complesso finanziario-industriale

La simbiosi tra capitale bancario e capitale industriale, indicata dal concetto di “capitale finanziario”, non è un fenomeno nuovo La novità odierna è data dalla mondializzazione dell’economia e della società per cui l’internazionalizzazione della circolazione delle merci, che caratterizzava la fase precedente, è stata integrata dalla internazionalizzazione della produzione di merci, l’esportazione di capitali si è trasformata in esportazione del capitale, cioè del modo di produzione capitalistico (Dockès, 1977; Michalet, 1978). Tale processo è stato condotto da soggetti che intrecciano funzioni finanziarie e imprenditoriali e operano con strutture multinazionali. Quando si parla di “mondializzazione” o di “multinazionalità” non si vuol dire che si è operata, o è in corso, una omogeneizzazione mondiale all’insegna della creazione di una serie indeterminata di soggetti disseminati sulla scena planetaria. Le imprese giganti, le grandi unità finanziarie non sono apolidi ma hanno nazionalità ben precise e individuabili. Sono in primo luogo quelle degli Stati Uniti e degli altri paesi capitalistici più importanti. Quello che definiamo “complesso finanziario-industriale”, per indicare la compenetrazione tra capitale finanziario nel suo insieme (l’attività finanziaria va oltre l’attività bancaria) e attività imprenditoriale nell’epoca del “capitalismo mondiale”, non va inteso pertanto come un soggetto super partes né come un unicum indistinto, la cui omogeneità non conosce contrasti o contraddizioni. Il “complesso” in realtà è la forma attuale dell’egemonia di alcune parti su un tutto caratterizzato da sempre più profonde disparità ed è animato al suo interno da processi concorrenziali che danno vita a scontri e alleanze.

Gli studi sviluppatisi dal dopoguerra ad oggi e in particolare nell’ultimo ventennio hanno posto al centro i processi di multinazionalizzazione dei gruppi finanziari e delle imprese industriali, facendo emergere soprattutto gli aspetti della compenetrazione tra finanza e impresa, della diversificazione produttiva, delle alleanze tra i vari gruppi e dei rapporti con il potere politico (per una sintesi: Comito, 1976).

Gli esempi più significativi presi in esame riguardano il Giappone, gli Stati Uniti, la Francia, l’Italia e la Germania.

I grandi conglomerati giapponesi (zaibatsu), governati da pochissime famiglie, tra cui hanno un ruolo egemonico i gruppi Mitsubishi, Mitsui e Sumitomo (Noguchi, 1973; Young, 1974) che già dominavano la scena economica prima della guerra, nonostante la legge antitrust del 1947, hanno ricostituito e potenziato il governo finanziario dell’economia giapponese attraverso la banca originaria e una serie di società finanziarie (finanziarie di settore, società assicuratrici, fondi di investimento) e con “l’aumento considerevole delle funzioni finanziarie delle trading companies” (Comito, 1976: 330).

Le trading companies giapponesi rappresentano l’epicentro dei grandi conglomerati e sono state definite “il più efficiente canale di distribuzione internazionale che ci sia al mondo” (ibidem). Le sogo soshas, nome giapponese delle trading companies, avevano svolto fino al 1970 il ruolo di intermediarie del commercio internazionale, dopo si sono trasformate in una realtà più complessa, ampliando i ruoli di distribuzione (magazzini, impianti di conservazione, lavorazione e confezionamento delle merci) e finanziario (crediti ai clienti, finanziamento all’esportazione, funzioni finanziarie interne ai conglomerati) e hanno assunto la guida del processo di riconversione dell’economia nazionale, disegnato dal piano strategico di sviluppo preparato dal MITI (Ministero del commercio estero). In tal modo le trading companies rafforzano la loro presenza all’estero nel settore commerciale e in quello degli investimenti diretti (Noguchi, 1973).

La struttura finanziaria dell’economia americana è stata studiata in particolare da J. M. Chevalier (1970). Tre aspetti fondamentali emergono:

1) le prime 200 società industriali americane sono dominate da quattro gruppi finanziari: Morgan, Rockefeller, Mellon, Hanna Cleveland;

2) le grandi commercial banks sono un elemento fondamentale della struttura economica e tendono a diventare le cellule matrici dell’industria americana;

3) i legami personali esistenti tra i gruppi egemoni permettono di rilevare l’esistenza di una minoranza di corporate rich.

Poiché la legge americana proibisce alle commercial banks di possedere delle azioni in proprio, il potere delle banche deriva principalmente dai capitali azionari che esse gestiscono per conto terzi, attraverso tre forme principali: gestione dei fondi pensione loro affidati dalle imprese, “gestione in cui c’è spesso la possibilità di impiegare i fondi senza vincoli particolari” (Comito, 1976: 338); gestione di patrimoni individuali e familiari; gestione di fondi patrimoniali di imprese. “Già nel 1965 il valore totale delle azioni controllate dalle banche sotto una delle tre forme descritte era, secondo una stima, di 110 miliardi di dollari, pari cioè al 18% del valore totale delle azioni emesse” (ibidem).

Basteranno alcune informazioni sui principali gruppi finanziari americani per avere un’idea della simbiosi tra capitale finanziario e struttura industriale nel Paese-guida dell’economia capitalistica. I più grandi gruppi finanziari americani sono i seguenti:

– gruppo Rockefeller. I pilastri fondamentali del gruppo sono costituiti da quattro banche: la First National City Bank, seconda banca americana, la Chase Manhattan, terza banca americana; a queste due banche sono collegate la First National Bank of Chicago e la Wachovia Banck & Trust. Intorno alle quattro banche ruotano 18 grandi società industriali. Dal grafico riprodotto nella figura 1 è possibile ricavare un’immagine del complesso sistema di relazioni e influenze, avvertendo che nello schema sono riportate solo le società controllate dalle banche e non quelle possedute direttamente dalla famiglia Rockefeller e che il grafico dà scarso peso al settore petrolifero che invece può considerarsi fin dal 1870 la base principale della fortuna della famiglia: dagli enormi profitti ricavati dall’industria petrolifera ha origine la First National City Bank. È nota l’enorme influenza politica del gruppo Rockefeller, che ha avuto il monopolio di cariche fondamentali dell’amministrazione degli Stati Uniti, quale quella di segretario di Stato, da Foster Dulles a Kissinger, uomini notoriamente legati al gruppo;

– gruppo Morgan. Gestisce la banca Morgan, quarta banca americana, la Bankers Trust e la Irving Trust. Ha interessi nel settore delle costruzioni elettriche (General Electric), dell’acciaio (US Steel), dei contenitori (Continental Can, American Van), delle telecomunicazioni (General Telephone), del petrolio (Socony Mobil, Cities Service);

– gruppo Mellon, con la Mellon National Corporation e la First Boston Corporation e interessi nel petrolio (Gulf Oil), nelle costruzioni elettriche (Westinghouse), l’acciaio (Armco Steel), l’aviazione (TRW);

– gruppo Hanna Cleveland, con il Cleveland Trust e la National Bank of Cleveland, e interessi nella Crysler, nell a Goodyear, nella Firestone, nella Hanna Mining;

– gruppo Manufactures Hanover Trust, la cui banca con lo stesso nome ha interessi nella Union Carbide, nella Crysler, nella American Home Products;

– gruppo della Chemical Bank, sesta banca americana, con interessi nella Sinclair Oil, la Corn Products, la Avco, la Betlehem Steel.

Già al tempo dello studio di Chevalier “delle principali 50 banche commerciali americane, 26 esercitavano una qualche influenza su una o più delle 200 principali imprese americane; di queste 26 banche, tre sono controllate da famiglie, 8 sono influenzate o controllate da altre istituzioni finanziarie; per tutte le altre il controllo è “interno”” (Comito, 1976: 339 s.).

In genere le banche americane sono legate da una rete fittissima di partecipazioni finanziarie. Un esempio di tali intrecci è dato dalla Chase Manhattan Bank. Non si sa quale è la parte effettiva di proprietà della famiglia Rockefeller. Nel 1963, anno per il quale si hanno informazioni dettagliate attendibili, la maggior parte del capitale era disperso tra innumerevoli azionisti. La banca aveva direttamente solo il 2% del suo capitale, un gruppo di 15 banche controllava il 10%. La famiglia Rockefeller aveva quote di capitale notevolmente variabili a seconda delle fonti di informazione: secondo alcune solo il 3%, secondo altre dal 10 al 17% (Comito, 1976: 340).

La finanziarizzazione dell’economia francese è stata analizzata da F. Morin (1974). Al centro dell’economia francese sono due grandi costellazioni finanziarie: la Paribas (Compagnie financière de Paris et de Pays-Bas) e la Suez (Compagnie financière de Suez et de l’union des mines).

La Paribas, fondata nel 1872, ebbe fin dall’inizio la struttura di “banca d’affari”, controllando già nel 1914 più di 120 imprese; ha attualmente partecipazioni rilevanti in circa 300 aziende e controlla direttamente 15 e indirettamente 5 tra le grandi aziende francesi comprese tra le prime 200.

La Compagnie de Suez controlla direttamente 11 aziende industriali di grandi dimensioni, tra cui la Saint Gobain Pont à Musson e 5 indirettamente. Ha poi accordi e intese di vario genere che allargano notevolmente il suo raggio di controllo. I due gruppi hanno il dominio su tutto il settore bancario privato francese e uno dei punti fondamentali della strategia della Paribas è costituito dall’alleanza con il capitale pubblico.

Per quanto riguarda l’economia italiana un ruolo centrale nei processi di multinazionalizzazione, con la relativa diversificazione produttiva, e di finanziarizzazione, ha il gruppo Ifi-Fiat. La Fiat si è andata sempre più trasformando in una holding che gestisce una serie di imprese di settore, costituite spesso attraverso l’assorbimento delle attività di società di altri paesi. Le principali imprese di settore sono:

– la Iveco (Industrial Vehicles Corporation), costituita nel 1975 con l’80% delle azioni di proprietà della Fiat e il rimanente 20% della Klockner-Humboldt-Deutz di Colonia. La società ha stabilimenti in Italia, Francia e Germania. La Iveco è al secondo posto in Europa nel settore delle macchine industriali, subito dopo la Mercedes Benz;

– la Fiat-Allis, costituitasi nel 1974, opera nel settore delle macchine per movimento terra. Fa capo a due società: una ha sede in Olanda, l’altro nello Stato del Delaware, noto “rifugio fiscale”, e ha stabilimenti in Inghilterra, Brasile e USA;

– la società Fiat Trattori, che opera nel campo dei trattori agricoli;

– la società Costruzioni ed Impianti Spa-Fiat Engineering, opera in vari settori, tra cui quello metalmeccanico, siderurgico ed elettro-nucleare.

Attualmente l’impero degli Agnelli ha al centro tre società finanziarie che hanno il controllo dei vari settori. Insieme con la vecchia Ifi, fondata nel 1927 da Giovanni Agnelli, concorrono la Ifil e la Gemina. Questa politica di articolazione del controllo finanziario va di pari passo con quella della diversificazione produttiva, anche se l’interesse principale del gruppo rimane il settore dell’automobile. A dire dello stesso presidente dell’Ifi, la differenza tra questa e la Ifil consisterebbe in ciò: “L’Ifi ha una vocazione industriale e il suo principale scopo è quello di mantenere e potenziare la quota di partecipazione nella Fiat, mentre la controllata Ifil opera nel campo dei servizi e soprattutto di quelli finanziari” (Morelli, 1986).

L‘Ifil è nata nel 1916 come finanziaria per l’attività laniera, fu rilevata dagli Agnelli nel 1958 e di recente ha avuto un notevole impulso: nella subholding Ifil sono state fatte confluire le società di servizio: finanziarie (Mito), assicurative (Toro e consociate), grande distribuzione turistico-immobiliare (Saes e, attraverso questa, Rinascente) (Tropea, 1986). L’Ifil ha attualmente in programma la costituzione di una “merchant bank” con quattro grandi istituti di credito: il Monte dei Paschi di Siena, la Cariplo, il Mediocredito regionale lombardo e la Cassa di risparmio di Torino.

La Gemina è stata e continua ad essere “il salotto del Gotha finanziario italiano”. Nel suo sindacato di controllo siedono i rappresentanti della Fiat, della Pirelli, Lucchini, presidente degli industriali italiani, Orlando (Smi), Camillo De Benedetti (Gaic) e recentemente sono entrati l’industriale Arvedi, la Finanziaria Mittel e l’ltalcementi. La Gemina ha partecipazioni nella Rizzoli e dispone di ingenti capitali provenienti dalla vendita della partecipazione nella Montedison. Gli Agnelli ultimamente hanno rafforzato la loro presenza nella Gemina e ciò ha comportato preoccupazione nell’ambiente editoriale perché la famiglia torinese, che già è proprietaria del quotidiano “La Stampa”, verrebbe ad avere nel suo patrimonio anche il “Corriere della sera”, violando in tal modo la legge antimonopoli. Il garante nominato dal parlamento ha riconosciuto che l’acquisto del gruppo Rizzoli-Corriere da parte della Gemina, controllata da Agnelli, è contrario alla legge (la notizia è apparsa con grande risalto sui giornali italiani del 22 gennaio 1976).

Un carattere importante della strategia Ifi-Fiat è dato dal collegamento con il capitale pubblico che si è realizzato nel settore siderurgico, aeronautico, ferroviario e dei “progetti speciali” (Comito, 1976: 375).

Il ruolo del capitale finanziario nella struttura industriale italiana è stato e continua ad essere particolarmente rilevante e sull’argomento esiste un’abbondante letteratura a cui rimandiamo (5).

La scena economica tedesca è dominata dai Konzerne, cartelli costituiti da imprese al fine di abbassare i costi di produzione ed elevare i prezzi di vendita. Anche dopo la guerra, nonostante i tentativi di decartellizzazione, la Germania federale è rimasta il paese dei Konzerne, ricostituiti in modo più o meno camuffato. Il Konzerne tedesco presenta due caratteristiche: la concentrazione orizzontale e quella verticale (la concentrazione orizzontale consiste nel riunire un numero sempre maggiore di imprese che producono lo stesso prodotto, la concentrazione verticale associa all’interno delle stesse imprese produzioni che derivano l’una dall’altra, in ordine successivo o divergente).

I Konzerne si sono negli ultimi anni sempre più multinazionalizzati e il ruolo assunto dalle grandi banche nel controllo delle imprese è diventato sempre più massiccio. La Deutsche Bank può considerarsi la struttura finanziaria maggiormente presente nell’industria tedesca (6).

La documentazione raccolta sulle grandi imprese multinazionali operanti in vari settori è diventata negli ultimi anni molto vasta e conferma l’esistenza e l’affermazione di un rapporto sempre più stretto e sempre più esteso tra banche e imprese (7).

I caratteri principali di quello che chiamiamo “complesso finanziario-industriale” possono così sinteticamente indicarsi:

1) incontrollabilità, o grandi difficoltà di controllo, delle attività bancarie internazionali. Anche il recente Concordato di Basilea (maggio 1983), che pure cerca di fissare alcune regole di controllo su tali attività, quale la responsabilità del mutuante di ultima istanza, è solo un piccolo passo sul terreno della vigilanza internazionale, che le crisi recenti di banche come il Banco Ambrosiano hanno rivelato essere gravemente carente o pressoché inesistente (Onado, 1984; Patroni Griffi, 1984; Gilibert, 1985);

2) opacità o scarsa trasparenza. Il segreto bancario, nonostante alcune eccezioni, continua ad essere la regola fondamentale, e la tendenza attuale verso la liberalizzazione dei servizi e una configurazione sempre più imprenditoriale e sempre meno pubblica dell’attività finanziaria non può che accentuare questo carattere di opacità. Anche le recenti direttive della Comunità Economica Europea in materia creditizia vanno in questa direzione (8);

3) affermazione di strumenti bancari particolarmente adatti all’attività internazionale e alla compenetrazione del capitale finanziario con attività imprenditoriali. Le commercial banks degli Usa, le merchant banks britanniche, le banche d’affari: queste varie denominazioni designano un identico fenomeno. Le banche più adatte a questa funzione di mondializzazione e finanziarizzazione dell’economia presentano caratteri simili, derivati da prototipi angloamericani (Gelsomino, 1985: 449-463);

4) innovazione finanziaria e sempre maggiore articolazione delle strutture finanziarie. Concorrono con le banche una serie di strumenti e di intermediari creditizi (società finanziarie, in particolare le holdings, società fiduciarie, titoli atipici etc.) che complicano il quadro rendendolo difficilmente governabile (9);

5) uso di una serie di tax havens (rifugi fiscali), che permettono non solo l’evasione fiscale ma rendono possibili operazioni di vera e propria prestidigitazione finanziaria e coprono le compenetrazioni tra attività illegali e attività legali. I tax havens non sono isole marginali dell’illusionismo finanziario ma sono pienamente inseriti nel cosmo finanziario internazionale. Su tale argomento torneremo tra poco;

6) il combinarsi di interessi economici con interessi politico-militari che in molte situazioni (l’esempio più noto ed eclatante è dato dall’America Latina) si configura come un rapporto strettissimo inteso alla pianificazione ed attuazione di strategie reazionario-conservatrici, con forti connotati fascisti e colonialistici (LAB – Iepala, 1982: 112-144).

Questi caratteri dell’intero sistema, o di parti non secondarie di esso, spiegano fenomeni come quelli legati alle attività di personaggi come Sindona, Calvi e Gelli e favoriscono il formarsi di canali di comunicazione tra capitali di provenienza illecita e lecita. L’accumulazione illegale del capitale, che si è sempre più espansa e intensificata a livello internazionale, non troverebbe possibilità di sbocco senza l’esistenza di questi canali di compenetrazione e identificazione tra illecito e lecito.

Il sistema Sindona-Calvi-Gelli

Interpretare le attività di Michele Sindona, Roberto Calvi e Licio Gelli come eventi eccezionali e patologici, esempi di una “finanza nera”, cattolica e reazionaria, che confermerebbero la regola di una finanza sana, laica e progressista, vuol dire ignorare una realtà di fatto. Le attività delle banche di Sindona e di Calvi e della loggia massonica Propaganda 2 hanno potuto svolgersi e affermarsi come prassi vincente nel milieu finanziario e politico per un lasso di tempo rilevante, unicamente perché erano filiazioni di un sistema che ha favorito i processi di criminalizzazione dell’economia e del potere, e il tracollo di quei personaggi, dovuto alla reattività di settori sani o al giuoco delle concorrenze, può anche significare molto poco se non si inserisce in una profonda operazione di risanamento.

La struttura del sistema finanziario sindoniano era basata su tre elementi:

a) un gruppo di aziende industriali operanti in vari settori e usate come merce di scambio;

b) una costellazione di società finanziarie, la maggior parte delle quali ubicate nei vari “paradisi fiscali”;

c) le banche, che costituivano il perno della struttura operativa (Commissione Sindona, relazione maggioranza, Azzaro, 1982: 12).

Le banche erano: le due milanesi Banca Privata Finanziaria e Banca Unione, il Banco di Messina, la Banca Generale di Credito, la Franklin National Bank americana. Un complicato sistema di collegamenti permetteva al gruppo di operare su scala planetaria. Erano collegate con le banche milanesi: Finabank, Finterbank, Ior (Istituto opere religiose, la banca del Vaticano), Amincor, Privat Kredit Bank, Bankhaus Wolff, New Bank e altre.

Le società finanziarie erano innumerevoli: Finambro, Fasco AG, Fasco International, Fasco Europe, Capisec lnternational Holding, Edilcentro International, Edilcentro Sviluppo International, Arana, Comarsec, Talcott, Moneyrex, Generale Immobiliare, Società Generale Immobiliare, Banking Corporation etc. ed erano dislocate in Svizzera, nel Lussemburgo, in Liechtenstein, Liberia, a Panama, nella Bahamas, nelle isole Caymane e altrove: “non c’è paese dalla legislazione fiscale e valutaria permissiva o centro finanziario offshore in cui Sindona non possa vantare un punto d’appoggio” (Lombard, 1980: 52).

Si è soprattutto sottolineato il rapporto di Sindona con il Vaticano e con lo Ior, diretto da monsignor Marcinkus (Di Fonzo, 1983), ma questo non può essere portato come prova dell’estraneità della “finanza laica”. Se il sistema finanziario del Vaticano è stato attore, e non vittima, dei processi di criminalizzazione dell’economia, come risulta anche da altri avvenimenti (Hammer, 1982), non va dimenticato che le due banche milanesi hanno potuto operare perché la Banca d’Italia non è intervenuta (10) e che molte operazioni sindoniane sono avvenute alla luce del sole con l’avallo di strutture creditizie pubbliche. Esempi: la fusione tra le società Società Generale Immobiliare ed Edilcentro Sviluppo voluta da Sindona era sostenuta da tutti e sei gli istituti di diritto pubblico italiani (Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banca nazionale del lavoro, Istituto bancario San Paolo di Torino, Monte dei Paschi di Siena, Banco di Sardegna) e aveva il giudizio favorevole della Banca d’Italia; con la Moneyrex, società di brokerage che serviva per esportare capitali all’estero, cioè per commettere reati, operavano tre banche di interesse nazionale (Banco di Roma, Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana); presso le banche di Sindona depositavano somme cospicue gli istituti centrali di categoria: INA (Istituto nazionale delle assicurazioni), INPDAI (Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti di aziende industriali), ICCRI (Istituto di credito delle casse di risparmio italiane), FASDAI (Fondo assistenza sanitaria dirigenti aziende industriali) e gli istituti di credito speciali: CREDIOP (Consorzio di credito per le opere pubbliche), GESCAL (Gestione case lavoratori), ICIPU (Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità), successivamente incorporato nel CREDIOP. “Tutto questo dà una chiara dimostrazione del fatto che le banche di Sindona non sono due cellule impazzite di un sistema bancario assolutamente sano e tetragono ad ogni operazione meno che lecita. Sono in realtà due banche che ricevono ampi sostegni da parte di moltissime aziende di credito” (Commissione Sindona, relazione minoranza, D’Alema, 1982: 244).

Se il comportamento della Banca d’Italia ha favorito oggettivamente le attività di Sindona, ciò non è il frutto di una “atipicità italiana”: le crisi bancarie del 1974 videro le banche centrali attenersi ad un linea di condotta sostanzialmente unitaria, se si fa eccezione per la Banca centrale della Repubblica Federale Tedesca, che abbandonò al suo destino la banca Herstatt, coinvolta nelle operazioni di Sindona (11). Esempio tipico di questa “linea di condotta” delle banche centrali è quello riguardante la Franklin National Bank: “quando la filiale londinese si trovò impossibilitata a rinnovare i suoi depositi a scadenza sul mercato interbancario, essa ottenne fondi dalla casa madre, che a sua volta si valse di un’operazione eccezionale nell’importo e inusuale nella forma, concessa dalla Federal Reserve”: il Federal Reserve System (Fed), istituito nel 1913, è la banca centrale degli Stati Uniti (Onado, 1984: 5; Spero, 1980). Se i rapporti di Sindona con la mafia sono accertati, e vanno dal riciclaggio del denaro sporco all’organizzazione dell’autosequestro e all’assassinio di Ambrosoli, liquidatore della Banca privata, (Commissione Sindona, relazione maggioranza, Azzaro, 1982: 161-178; relazione minoranza, D’Alema, 1982: 479-501; relazione minoranza, Teodori, 1982: 588-592; relazione minoranza, Rastrelli, 1982: 758-775; De Zulueta, 1980), anche i rapporti con il mondo politico erano alla luce del sole. È risultato chiaramente dai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta che Sindona finanziava regolarmente la Democrazia cristiana (Relazione maggioranza, Azzaro, 1982: 60-74) e sui rapporti con Andreotti, che ebbe a definire Sindona il “salvatore della lira”, si è fatta abbastanza luce (Relazioni maggioranza e minoranza, 1982), anche se non si è voluto andare fino in fondo perché i suoi rapporti con il PCI nel periodo del compromesso storico lo hanno salvato da un voto parlamentare esplicito di condanna.

Il fallimento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi è stato giudicato “il più grave crack che abbia colpito una singola banca nel dopoguerra” (Buxton, 1982, che riprende un giudizio del ministro del tesoro Andreatta) e come tale esso va considerato non solo nell’ambito del sistema finanziario di un singolo paese ma del sistema internazionale nel suo complesso. Si è individuata una tendenza storica del capitale finanziario italiano “a crescere, rispetto alla ricchezza nazionale, a ritmi notevoli e superiori a quelli riscontrati nella maggioranza dei paesi” (Ciocca, 1982: 138) e tale tendenza era già stata rilevata da Piero Sraffa in un suo studio sulla crisi bancaria in Italia nei primi anni ’20 (Sraffa, 1922: 178-197). Ma questo gap tra “sovrastruttura finanziaria” e “ricchezza reale”, considerato tipico dell’economia italiana, non basta a spiegare la vicenda finanziaria di Calvi. La sua attività è il prodotto di un fenomeno internazionale, costituito dalla “rapida e crescente internazionalizzazione del sistema bancario” (Spaventa, in Cornwell, 1983: XI).

Calvi sfrutta gli spazi offerti dalla Borsa italiana, la cui disciplina dettata dalla legge n. 216 del 1974 è inadeguatamente applicata soprattutto per ciò che riguarda i poteri della CONSOB (Commissione nazionale sulle società e la borsa), approfitta delle incertezze dell’organo di vigilanza (Patroni Griffi, 1984), ma è soprattutto sul piano internazionale che la sua attività si sviluppa, con l’uso di una serie di tax havens, al di fuori di ogni controllo.

Anche la vicenda P2-Gelli non può essere considerata soltanto un “caso italiano”, grave ma limitato. Gelli ha coinvolto nelle sue attività settori politici, militari, finanziari, della magistratura, della pubblica amministrazione, dei servizi segreti, ha dato la scalata al più grande organo di stampa italiano, ha fatto uso impunemente del terrorismo fascista, come dimostra il ruolo avuto nella strage del treno Italicus del 3-4 agosto 1974 e in quella alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980 (Commissione P2, relazioni di maggioranza, Anselmi e minoranza, Teodori, 1984, che però non si occupano dell’ultima strage). Anche se la “Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2” non ha potuto approfondire adeguatamente il tema, “il rilievo dell’attività internazionale del Maestro Venerabile è di segno certamente non inferiore a quello della sua presenza italiana” (relazione maggioranza, Anselmi, 1984: 129). Gelli ha avuto un rapporto costante e intenso con paesi dell’America Latina, attraverso un’apposita istituzione sovranazionale (l’ONPAM); aveva un “solido legame” negli Stati Uniti “con gli ambienti politici e finanziari che costituivano il retroterra del finanziere siciliano (Sindona) con una rete di rapporti di livello altamente qualificato” (ibidem: 131). Accertati i suoi rapporti, per esempio, con Philip Guarino, membro del comitato organizzatore della campagna elettorale del presidente Reagan, che lo fece invitare alla cerimonia d’insediamento del nuovo presidente (Lernoux, 1984: 201, 217).

La dimensione affaristica dell’attività di Gelli e di altri personaggi come Umberto Ortolani e Francesco Pazienza è strettamente compenetrata con il ruolo svolto all’interno di ambienti politici internazionali interessati ad esercitare una pesante ipoteca conservatrice, con il ricorso a tutti i mezzi, a cominciare da quelli terroristico-militari.

La forma holding

In mancanza di una precisa definizione giuridica, almeno per quanto riguarda l’ordinamento italiano, delle società finanziarie e tra queste delle holdings, gli studiosi si sono preoccupati soprattutto di individuare le attività da esse svolte e di formulare delle definizioni fondate sulla realtà concreta del loro operare. Lo sviluppo delle società finanziarie si inserisce nel quadro più generale del proliferare di canali di finanziamento, soprattutto delle piccole e medie aziende, alternativi rispetto alle banche (Vender, 1976: 8) cioè di quelle “nuove forme di intermediazione finanziaria” che si sono andate affermando nel corso degli ultimi decenni. Si tratta di un fenomeno composito, in cui si intrecciano vecchie e nuove funzioni. È da considerare certamente tra i “vecchi spazi operativi” l’attività consistente nella “pura e semplice detenzione di partecipazioni di altre società ed enti” (ibidem: 13), come pure rientrano nelle categorie tradizionali le “società di investimento, che operano sul mercato di borsa per lucrare margini nelle attività di compravendita di titoli quotati in borsa” (ibidem: 14 s.). Ma anche su questo terreno tradizionale si sono andate sviluppando forme nuove come le società che gestiscono i fondi comuni di investimento, fino a pochi anni fa assenti in Italia.

Quanto ai “nuovi spazi operativi”, nella realtà economica italiana, “essi sono individuabili prevalentemente in alcune carenze del sistema finanziario italiano, o meglio nella espansione unidirezionale della intermediazione finanziaria, a tutto vantaggio del sistema bancario e del settore del reddito fisso” (ibidem: 15) e la bancarizzazione del sistema finanziario italiano ha ritardato, rispetto ad altri Paesi, l’ingresso sulla scena di strutture del tipo “merchant banks”, o “banche d’affari”, le quali non si limitano all’erogazione di mezzi finanziari ma forniscono alle aziende l’assistenza finanziaria necessaria soprattutto per le società in via di sviluppo. Così pure hanno avuto vita stentata nel sistema italiano le strutture finanziarie qualificate come “venture capital”, cioè le iniziative finanziarie volte al finanziamento dell’innovazione (Sunseri, 1985). Le holdings sono “società socie di altre società”, cioè aziende che investono il loro patrimonio in partecipazioni di altre imprese (Vender, 1976: 47). Tradizionalmente esse vengono distinte “in base alla intensità del loro intervento nella gestione industriale delle aziende possedute”, per cui si intendono per “holdings pure” quelle che “si occupano esclusivamente del coordinamento e della strategia finanziaria del gruppo di aziende di cui si trovano a capo”; le “holdings miste” sarebbero invece quelle che “intervengono anche nel processo produttivo delle aziende possedute” (ibidem). Per superare la genericità di tale bipartizione è stata proposta una distinzione più precisa, che individua tre categorie:

1) holdings pure: sono quelle che assolvono “una funzione puramente strumentale”, limitando la loro funzione “al puro e semplice possesso di uno o più pacchetti azionari” (ibidem: 48);

2) holdings operative: “assolvono precise funzioni economiche e finanziarie nei confronti delle società possedute” (ibidem: 49);

3) holdings di tipo industriale: il loro sviluppo è determinato soprattutto da motivi di carattere organizzativo. Un gruppo industriale che ha praticato una politica di diversificazione produttiva si trova a dover gestire settori che hanno raggiunto dimensioni tali da richiedere una politica gestionale autonoma: “è a questo punto che le varie divisioni vengono trasformate in altrettante società autonome, non solo in senso gestionale ma anche giuridico; esse quindi vengono trasformate in altrettante partecipazioni, il cui possesso, ovviamente, rimane nelle mani di una società ad hoc facente parte del gruppo” (ibidem). È evidente che nella terza ipotesi ci troviamo di fronte più che a un nuovo tipo di intermediario finanziario ad una “tendenza in atto da parte dei maggiori gruppi industriali in campo organizzativo: essi tendono ad istituzionalizzare la politica di diversificazione” con cui cercano di integrare verticalmente e orizzontalmente la loro attività sociale (ibidem: 50). La forma holding permette di conciliare l’esigenza del controllo centralizzato con quella dell’amministrazione decentrata. Quanto alle “holdings operative”, esse sono state individuate come le più adatte a sviluppare nuove forme di intermediazione finanziaria, perché consentirebbero una serie di vantaggi, quali: la facilitazione de l ricorso al canale delle borse, un migliore accesso al credito bancario, una gestione più lenta delle eccedenze e deficienze di cassa delle società del gruppo, un’immagine più qualificante delle società del gruppo, una maggiore tutela del risparmiatore derivante dalla diversificazione tra i vari settori operativi (ibidem). In definitiva, sarebbero i soggetti finanziari più adatti a far fronte ad esigenze fondamentali dell’economia capitalistica nella sua fase di mondializzazione, in cui sono chiamati a convivere una diversificazione produttiva sempre più articolata, un processo produttivo sempre più a scala planetaria, e un’esigenza di comando finanziario complessivo, formalmente rispettoso delle strutture di autonomia settoriale e di decentramento ma sostanzialmente dittatoriale nelle sue scelte fondamentali.

Parlare di “holding mafiosa” non può certo significare una traslazione meccanica di tali strutture nel mondo della criminalità organizzata, né l’identificazione dell’economia criminale con l’economia nel suo complesso. L’economia criminale, già per il suo articolarsi in illegale e legale, convive con l’economia complessiva, si compenetra con essa per ragioni di fondo a cui abbiamo già accennato e attraverso forme e canali che illustreremo più avanti.

La “holding mafiosa” è una forma di strutturazione dell’economia criminale e di compenetrazione di essa con quella legale. Tale struttura comprende:

1) centri direzionali finanziari, che concentrano masse di capitali a bassissimo costo, provenienti da varie attività, soprattutto illecite, sotto forma di profitti, rendite etc., e li avviano a impieghi molteplici, una volta ripuliti attraverso le banche e altre strutture finanziarie. Questo cuore finanziario tiene in piedi l’economia mafiosa;

2) una serie di attività diversificate: attività industriali e commerciali lecite, attività illecite, investimenti in titoli, immobili etc. Alla molteplicità delle fonti di accumulazione corrisponde la diversificazione degli impieghi di capitale (cfr. figura 3). Volendo fare un parallelo con i tipi descritti precedentemente, la “holding mafiosa” è assimilabile a quella di tipo industriale, proprio per l’esigenza di carattere complessivo a cui questa corrisponde, più che per la sua natura tecnica di intermediario finanziario.

Forme e canali di compenetrazione tra attività illecite e lecite

Il gruppo di studio del “Permanent Subcommittee on Investigations” istituito dal “Committee on Governmental Affairs” del Senato degli Stati Uniti, che ha prodotto il rapporto su “Crime and Secrecy: the use of offshore banks and companies”, ha esaminato tre tipi di casi:

1) riciclaggio o occultamento di profitti illegali;

2) occultamento di profitti legali per scopi illegali;

3) uso di banche offshore e di enti stranieri come parte integrante di un piano criminale globale.

Di questi casi riguardano particolarmente mafia e criminalità organizzata il primo e il terzo, ma l’interesse delle organizzazioni criminali riguarda anche il secondo caso, in materia, per esempio, di evasione fiscale.

Il canale più importante attraverso cui avviene la commistione dei capitali illeciti con quelli leciti è costituito dai cosiddetti “rifugi fiscali” (tax havens).

Sono state individuate due caratteristiche essenziali perché un paese possa essere considerato come tax haven: “esso impone una bassa aliquota di tasse o non impone tasse su tutte o su alcune categorie di reddito; offre un certo livello di segretezza bancaria o commerciale, o presenta entrambe le caratteristiche” (United States Senate, 1983: 8). C’è una terza caratteri stica, che finisce con l’assumere un ruolo fondamentale: “Le banche e le trust companies nei paesi “rifugi” possono fornire i servizi necessari per facilitare complesse transazioni multinazionali” (ibidem: 9). Un tax haven è perciò un crocevia del sistema finanziario internazionale. Per avere un’idea dello sviluppo di alcuni paesi in questo senso basterà considerare cos’è avvenuto nelle isole Caymane, una colonia della corona britannica, a circa 170 miglia a sud di Miami. Nel 1964 le isole Caymane avevano soltanto una o due banche: nel 1981 avevano 30 commercial banks multinazionali e più di 300 brass plate banks (letteralmente: banche targhe d’ottone) autorizzate a svolgere ogni sorta di business. Erano registrate nel paese circa 13.000 companies, mentre la popolazione dell’isola è solo di 15.000 persone (ibidem).

L’IRS (Internal Revenue Service) in un rapporto del 1981 indicava 29 paesi come tax havens. Nei Caraibi e nell’area del Sud Atlantico i seguenti Paesi: Antigua, Bahamas, Barbados, Belize, Bermuda, Isole Virginie britanniche, Isole Caymane, Costarica, Grenada, Antille olandesi, Panama, St. Kitts, St. Vincent, Isole Turks e Caicos.

In Europa e nell’area mediorientale e africana: Austria, Bahrain, Isole del Canale, Gibilterra, Isola di Man, Liberia, Liechtenstein, Lussemburgo, Monaco, Paesi Bassi e Svizzera. Nel lontano Oriente e nell’area del Pacifico: Hong Kong, Nauru, Nuove Ebridi e Singapore (ibidem: 10).

La lista dell’IRS non è esaustiva; altri organismi sono per il suo allargamento. Per esempio la WFI Corporation, un’organizzazione del Sud della California che offre licenze bancarie in molte località, in una lista distribuita nel corso di un seminario svoltosi nella primavera del 1982, aggiunge al catalogo i seguenti paesi: Canada, Guam, Irlanda, Messico, Isole Cook, le Maldive e le Isole Marianne (ibidem: 11).

Lo stesso rapporto del Senato degli Stati Uniti su “Crime and Secrecy” rileva che l’introduzione delle International Banking Facilities (IBFs) equivale a fare degli Stati Uniti un centro offshore (ibidem: 12).

Tali facilities, autorizzate nel dicembre del 1981 dal Federal Reserve Board, venivano così definite nel provvedimento di autorizzazione: “International Banking Facilities o IBF significano una serie di attivi e passivi registrati a parte nei libri e documenti dell’istituto dove sono depositati, succursale di una banca degli Stati Uniti o agenzia di una banca straniera” (ibidem: 33).

Circa 200 banche degli Stati Uniti e banche sussidiarie di banche straniere hanno deciso di applicare le IBFs. Poco meno della metà sono a New York. Le altre sono nelle maggiori città degli Stati Uniti, incluse Miami, Chicago, New Orleans e San Francisco. Numerose altre banche sono in attesa di applicarle (ibidem: 34).

“In effetti il Federal Reserve Board (FRB) ha autorizzato gli uffici delle banche impegnate in attività bancarie internazionali su larga scala a diventare “tax havens”. Questi sono uffici presso cui si svolgono le transizioni degli eurodollari di natura bancaria” (ibidem).

Il mercato degli eurodollari è stimato ammontare a 1,6 trilioni di dollari l’anno. Alcuni economisti del FRB prevedevano che qualcosa come 125 bilioni di dollari di tale mercato si sarebbe trasferito alle nuove IBFs nei primi mesi del 1982. L’accesso alle IBFs è limitato agli individui non residenti negli Stati Uniti, alle corporations straniere, alle banche straniere e alle filiali straniere delle corporations americane. I depositi sui conti delle IBF non sono soggetti ai limiti dei tassi d’interesse vigenti negli Stati Uniti. Per incoraggiare l’istituzione delle IBFs, molti Stati, inclusi New York, Connecticut, Florida, California, Georgia e Maryland, hanno emanato leggi di esenzione dei depositi IBF dalle tasse sul reddito statali e locali (ibidem).

Le IBFs hanno consentito l’escalation finanziaria di Miami, destinata a diventare il secondo centro bancario internazionale dopo New York. Già nel 1981 si calcolava che i depositi nelle banche di Miami di capitali provenienti dall’America Latina ammontavano a 4 bilioni di dollari. È abbastanza noto che i narcotrafficanti di vari paesi dell’America Latina usano le banche di Miami per riciclare i cocadolares. Su 250 banche è risultato che 31 avevano 1.300 conti sospetti e 5 banche sono risultate di proprietà dei narcotrafficanti (LAB – Iepala, 1982: 42; Lernoux, 1984: 100-142).

Il circuito finanziario del capitale illegale. Due esempi

A) Il denaro sporco del Clark Syndicate australiano

La Commissione d’inchiesta sul traffico di droga del governo australiano ha posto al centro dei suoi lavori l’indagine sulle attività del “Clark Syndicate”, un’organizzazione criminale di circa settanta associati diretta da Terrence John Clark. Le attività di Clark e dei componenti l’associazione criminosa vanno dal traffico di droga all’assassinio, all’intimidazione, alla corruzione delle corti giudiziarie, al trasferimento di capitali all’estero. Particolarmente interessanti sono le pagine del rapporto dedicate all’uso delle banche e di altre istituzioni finanziarie per il riciclaggio e l’investimento del capitale ricavato dai traffici illeciti (Royal Commission, 1983: 202-237).

Al centro di una ragnatela che si estende dall’Australia a Hong Kong, da Singapore a Londra, all’Olanda e alla Repubblica Federale Tedesca, sono banche e strutture finanziarie nazionali e internazionali.

Uno dei canali più usati per il deposito di capitali ricavati dal traffico di droga è stata l’agenzia di cambio Bain & Company, con i suoi uffici di Sidney e Hong Kong. Si sono accertati depositi di capitali dell’ordine di un milione di dollari australiani, qualcosa come un miliardo di lire, effettuati da associati al Clark Syndicate dal febbraio al dicembre del 1979.

L’organizzazione criminosa ha depositato ingenti somme anche al Credit Suisse di Singapore e di Londra, mentre la Commissione si ripromette di svolgere indagini supplementari sulla Nugan Hand Bank. Come risulta da fonti giornalistiche e pubblicistiche, la Nugan Hand Bank si è trovata al centro di un vasto giro di riciclaggio del denaro sporco effettuato per conto della CIA, dei trafficanti di eroina del Sudest asiatico e di trafficanti di armi (Lernoux, 1984: 65-76). Nel 1980 uno dei comproprietari della banca, Frank Nugan, venne trovato morto e nonostante i tentativi di farlo passare per suicidio apparve subito chiaro che si trattava di un assassinio. Frank Nugan e Michael Hand fondarono la banca nel 1973 e in sei anni essa già aveva ventidue filiali disseminate in tutto il mondo. La politica finanziaria della banca era quella classica delle banche dei tax havens: fornitura di servizi bancari sofisticati, alti tassi di interesse, depositi esentasse, il più impenetrabile segreto. Ma le fortune della banca si basavano sul ruolo che essa svolgeva come deposito dei capitali provenienti dal traffico di droga del Sudest asiatico: traffico fiorentissimo che si sviluppava sotto la protezione della CIA interessata a favorire criminali e governanti reazionari in nome della “crociata anticomunista” (McCoy, 1973). Alti dirigenti e operatori della CIA fungevano da funzionari e consulenti della banca, a cominciare da William Colby, direttore della CIA dal 1973 al 1976, stipendiato come legale della banca. La banca svolgeva il suo lavoro al coperto, potendo contare sugli ottimi rapporti di cui godeva all’interno dell’Australian Federal Bureau of Narcotics e dell’ASIO, Australian Security Intelligence Organization, un gruppo di controspionaggio segreto al servizio della CIA. Questo intreccio di finanza sporca, spionaggio, politica reazionaria nazionale e internazionale, fu usato per far cadere il governo laburista australiano e per finanziare partiti politici conservatori europei, tra cui la Democrazia cristiana italiana (Lernoux: 72). La banca fallì nel 1980 e a quanto pare molti capitali presero la volta di Miami dove fu fondata una banca che risulta proprietà di un “misterioso imprenditore colombiano” (Lernoux: 74).

Un aspetto interessante messo in luce dalla Commissione d’inchiesta del governo australiano è il ruolo degli avvocati nelle attività del Clark Syndicate in genere e nella collocazione del denaro sporco in particolare. È stato accertato che i legali collaboravano con l’organizzazione criminosa in tre modi: rappresentanza, attività finanziaria, fornitura di informazioni. A qualsiasi ora del giorno e della notte gli avvocati potevano essere contattati e svolgere le attività che di volta in volta erano necessarie. In pratica c’era uno staff di legali che lavorava stabilmente per l’associazione criminosa. Tra questi c’era uno dei più rinomati avvocati di Sidney. Un ruolo essenziale avevano i legali nelle operazioni di riciclaggio del capitale sporco, come risulta da varie prove raccolte dalla Commissione (Royal Commission, 1983: 170-184, 229-258).

B) Le holdings della World Finance Corporation

La World Finance Corporation (WFC) fu fondata nel 1971 a Miami da Hernández Cartaya, un banchiere cubano in esilio. In pochi anni la corporation aveva, oltre a nove società e una banca a Miami, succursali in otto paesi latino-americani, nelle Antille olandesi, nelle isole Caymane, a Londra, negli emirati arabi e nel Texas. Il suo giro di prestiti registrava un ammontare di 500 milioni di dollari l’anno.

La WFC, com’è risultato da indagini governative di tre continenti, era una grande macchina di riciclaggio del denaro sporco, proveniente dal traffico di droga e di armi, ma soprattutto un crocevia internazionale in cui si incontravano personaggi e interessi diversi, da mafiosi come Santo Trafficante, a cui la CIA commissionò l’assassinio, non andato in porto, di Fidel Castro, ai narcotrafficanti latino-americani, dalla CIA allo stesso governo castrista, interessato ai traffici di droga soprattutto per procurarsi i capitali necessari per l’acquisto di armi per le forze guerrigliere impegnate in vari paesi del subcontinente americano. È risultato anche che la WFC nel 1975 ha avuto un prestito di 2 milioni di dollari dalla Narodny Bank, un istituto sovietico che servirebbe per il reperimento dei fondi necessari per finanziare lo spionaggio nei paesi occidentali (Lernoux: 147-149).

Uno dei casi da cui risultò il ruolo della WFC fu dato dalla scoperta che la King Spray Service, una società di insetticidi, era coinvolta nel traffico di stupefacenti. I personaggi che conducevano, tramite la società, il narcotraffico erano di primaria importanza. Tra essi c’era Richard Fincher, un ex senatore della Florida, proprietario di una grande azienda di trasporti, socio d’affari di persone che facevano parte dell’establishment del presidente Nixon e di noti trafficanti di droga, come Mario Escandar, al centro della cosiddetta “Cuban Connection”. Era un circolo chiuso: “Escandar era amico di Hernández Cartaya, il proprietario della WFC, che era amico di Dick Fincher, che era amico di Bebe Rebozo, che era amico di Richard Nixon” (Messick, in Lernoux: 153).

Sei mesi dopo la scoperta delle attività della King Spray, il nome della WFC venne di nuovo a galla dopo l’arresto della figlia di Orlando Bosch, un noto terrorista cubano; la donna fu arrestata all’aeroporto di Miami per tentata importazione di cocaina. Hernández Cartaya finanziava la cosiddetta “azione messicana”, condotta dal gruppo di Bosch, formato da cubani in esilio che agi vano contro Castro e che nel 1976 furono arrestati perché tentavano di rapire il console cubano in Messico (Lernoux: 153-154).

A quanto pare il doppio giuoco era la specialità di Hernández Cartaya e della sua corporation. Egli lavora nello stesso tempo con i controrivoluzionari cubani e dà una mano alla guerriglia castrista, lavora per la Cia ma tiene ad avere buoni rapporti con lo spionaggio sovietico e il riciclaggio del denaro proveniente dal traffico degli stupefacenti è l’attività che gli permette di annodare le varie fila del suo giuoco.

Già nel 1978 la WFC è sotto inchiesta: FBI, Dea, Customs, IRS, il Dade County Organized Crime Bureau, l’ufficio distrettuale dell’attorney di Miami e una interagency task force cominciarono a indagare sulle attività della corporation finanziaria. Una delle prime risultanze riguardava la National Bank of South Florida, sempre di Hernández Cartaya: furono trovate prove massicce di riciclaggio di capitali illeciti e di altre attività irregolari. “In un giorno” ñ disse un agente impegnato nelle indagini ñ, il banchiere cubano “riceveva tre milioni di dollari dalla Ajman Bank e li spediva in 130 conti in diciassette paesi” (ibidem: 160).

È significativo però che Hernández Cartaya nel 1981 viene incriminato non per frodi bancarie o per spionaggio o per riciclaggio del denaro sporco ma solo per evasione fiscale. La CIA ha fatto di tutto per coprire le attività del banchiere e, a dispetto di ogni evidenza, è arrivata a dichiarare che essa “sconosceva il caso” (ibidem: 165).

L’aspetto più grave di tutta questa vicenda è che il tracollo dell’impero finanziario della WFC non vuoI dire la scomparsa del contesto entro cui si sono inserite le sue attività: il traffico di droga in quell’area si è intensificato e le fonti di accumulazione illecita continuano a pompare denaro. L’ex chairman dell’House Section Narcotics Abuse and Control, Lester Wolff, ha sottolineato che i tentativi di lottare il traffico di droga falliscono perché il problema della droga è un problema politico; la “politicizzazione” del crimine è la chiave di volta, come dimostra la stessa vicenda della WFC. Tutte le coperture che sono state assicurate, dalla polizia, dalla CIA, dall’FBI e da altri stanno a dimostrare che sotto l’etichetta della “sicurezza nazionale” si celano interessi economici e politici chiarissimi ma che si fa di tutto per rendere oscuri e inidentificabili o, una volta identificati, per sottrarli al normale corso della giustizia (ibidem: 166-168).

Capitale illegale e innovazione finanziaria

È possibile stabilire un rapporto tra riciclaggio del denaro sporco, e in genere il capitale illegale, e “innovazione finanziaria”? Il fenomeno dell’innovazione finanziaria è in realtà qualcosa di “relativo”, per di più mancano “criteri oggettivi di rilevazione degli eventi apparentemente qualificabili come nuovi” (Fabrizi, 1985: 233). I due principali modelli elaborati dalla dottrina nord-americana per interpretare le innovazioni finanziarie sono concordi nel giudicare tali innovazioni come forme di reazione, o ai controlli pubblici o più in generale alle “costrizioni” che gli intermediari finanziari debbono subire nel perseguimento della loro funzione-obiettivo (Fabrizi, 1985: 234-235; Silber, 1975).

Questa “fuga dal controllo o dalla regola”, che caratterizzerebbe in genere la varie forme di “innovazione finanziaria”, favorisce certamente i tentativi del denaro sporco di sfuggire alle rilevazioni della sua natura.

Un caso significativo è dato dai “titoli atipici”, sospettati di essere uno dei canali attraverso i quali si realizza la simbiosi tra capitali illeciti e leciti.

I titoli atipici “possono essere definiti come strumenti di raccolta del risparmio aventi caratteristiche tecniche ed economiche diverse da quelle degli strumenti tradizionali (questi ultimi rappresentati dalle azioni, dai titoli a reddito fisso, dai buoni ordinari del Tesoro, dalle accettazioni bancarie, dai certificati di deposito a breve e a medio termine e dalle quote dei fondi comuni di investimento mobiliare) e, come tali, assolutamente non regolamentati oppure regolamentati solo in maniera parziale sotto il profilo giuridico” (Fabrizi, 1985: 239).

Sono stati individuati quattro gruppi: 1) certificati di associazione in partecipazione; 2) titoli degli enti di gestione fiduciaria; 3) quote dei fondi comuni di investimento immobiliare; 4) titoli misti.

Per quanto riguarda la situazione italiana, secondo i dati della Anasf (Associazione dei consulenti finanziari), alla fine del 1984 c’erano in circolazione titoli atipici per 2.100 miliardi di lire. Questo sviluppo dei titoli atipici sul mercato italiano si spiega soprattutto grazie alle ampie smagliature presenti nel tessuto legislativo. “Dal 1978 al 1983 sono stati vissuti anni da Far West finanziario. Le fortune sono state costruite sulla paura dell’inflazione che, giustamente, invadeva migliaia di risparmiatori. Gli immobili erano considerati l’unico bene in grado di arginare l’erosione monetaria. E infatti i cavalieri dell’atipico proponevano investimenti in beni stabili” (Sunseri, 1985). Per avere un’idea di come si sono mossi questi “cavalieri dell’atipico” basta pensare agli affari realizzati da Vincenzo Cultrera, presidente dell’IFL (Istituto Fiduciario Lombardo), con il Grande Hotel di Rimini, comprato nel 1983 per 11 miliardi di lire e offerto al pubblico sotto forma di certificazioni patrimoniali, cioè “titoli atipici”, per 23 miliardi.

Sulla connessione titoli atipici – mafia non si è in grado finora di fare un discorso preciso. Più volte è stato sollevato il sospetto di un particolare interesse dei mafiosi per i titoli atipici, dovuto proprio alla loro caratteristica di strumenti finanziari “senza controllo”, ma la risposta del ministro del tesoro italiano a un’interrogazione presentata da parlamentari del PCI è stata molto carente. Allo stato attuale, la stagione dei titoli atipici, dopo il boom dovuto all’inflazione e ai vuoti legislativi, in Italia, già dai primi mesi del 1985, sembra destinata al crepuscolo. La liquidazione dell’Europrogramme e il crak dell’Istituto Fiduciario Lombardo, che da soli avevano raccolto 1.350 miliardi, hanno coinvolto 90.000 risparmiatori e hanno posto inderogabilmente l’esigenza di una legislazione adeguata (Ruffolo, 1985).

Un recente prodotto dell’innovazione finanziaria, almeno per la scena italiana, su cui sono comparsi nel giugno del 1984, sono i Fondi comuni di investimento mobiliare. La legge istitutiva, n. 77 del 23 marzo 1983, prevede tre momenti successivi per la loro operatività: l’autorizzazione del Ministero del tesoro alla società di gestione, l’approvazione del regolamento del Fondo da parte della Banca d’Italia, il visto della Consob. Sono previsti tre tipi di Fondi: azionari, obbligazionari e bilanciati, composti da azioni e obbligazioni.

I Fondi hanno avuto in pochissimo tempo un grosso successo, dovuto anche al crollo dei titoli atipici. Nel corso dei primi sei mesi dalla loro istituzione i sottoscrittori si sono decuplicati: 22.800 nel settembre del 1984, 66.500 nel dicembre, 220.303 nell’aprile del 1985; hanno superato i 300.000 nel corso dell’anno. Nel 1985 il risparmio raccolto ha raggiunto la cifra di 15 mila miliardi e 972 milioni e si prevede che nel 1986 raccoglieranno 26 mila miliardi (Morelli, 1986b).

Già nel corso del 1985 i Fondi hanno assunto il comando della Borsa; nei primi sei mesi essi infatti hanno raddoppiato il loro peso nella Borsa di Milano passando dal 10,9% al 21,7%. Dopo una prima fase di “crescita prudente”, che pure aveva un notevole effetto rialzistico sulla Borsa, trascinandovi nuovi capitali o facendovi riaffluire capitali che se ne erano allontanati (Ramenghi, 1985), i Fondi italiani hanno assunto i caratteri dei Fondi speculativi americani (“aggressive growth fund”), pur senza avere tale veste ufficialmente. Un esempio significativo di tale vocazione speculativa è stata la scalata al gruppo finanziario Bonomi, uno dei più importanti gruppi italiani, con l’acquisto di consistenti pacchetti di azioni Bi-Invest (Gaffino, 1985).

Tale “aggressività” si spiega facilmente, se si tiene conto che le somme raccolte in un lasso di tempo relativamente breve sono delle cifre enormi se rapportate all’asfitticità del mercato italiano dei titoli che non supera i 20-25 mila miliardi di lire (Turani, 1985). La preferenza dei risparmiatori per i Fondi è dovuta anche al regime tributario favorevole concesso dalla legge istitutiva.

Questa che può considerarsi una “svolta” nel mondo finanziario italiano ha come protagonisti reali un gruppo composito di soggetti: più di 200 banche, 15 società assicuratrici, 10 finanziarie che hanno costituito 22 società di gestione. L’ingresso del sistema bancario ha impresso una spinta decisiva. Se le banche popolari sono state le più sollecite, sfruttando la loro presenza capillare sul territorio, un ruolo importante hanno avuto le grandi banche (il Monte dei Paschi di Siena nell’ottobre del 1984 ha dato vita a tre Fondi: Primecapital, Primerend, Primegest) e in particolare le banche dell’Iri. La prima è stata la Banca commerciale italiana (Comit) che nell’agosto del 1985 ha venduto 10 milioni di azioni, per metà ad investitori americani e inglesi e per metà ai Fondi comuni italiani. Anche le altre banche (le due Banche di interesse nazionale: Credito italiano e Banco di Roma, e il Banco di Santo Spirito) preparano operazioni del genere, con la vendita di pacchetti di azioni ai Fondi comuni (Ruffolo, 1985b).

Se si considera quali titoli hanno acquistato i Fondi comuni e il valore delle partecipazioni che essi hanno raggiunto, si può affermare che essi sono una delle forme più agguerrite di “governo finanziario dell’economia”. Essi sono presenti con partecipazioni rilevanti, in tutti i maggiori gruppi industriali. Nella Fiat posseggono l’11,4 delle azioni, valore che supera di molto le partecipazioni azionarie di strutture finanziarie prestigiose: la Mediobanca controlla solo il 3% delle azioni Fiat.

I Fondi italiani possono anche investire all’estero, una volta raggiunti i sei mesi attività, per cifre che non superino il 10% del patrimonio netto esistente alla fine del primo mese di operatività. Su questa strada essi sono ancora ai primi passi. Nel settembre del 1985 sette Fondi d’investimento hanno investito all’estero per 200 miliardi e alcuni di essi superando il tetto del 10%; per cui già negli ultimi mesi dell’anno si è cominciato a porre il problema di elevare la quota esente degli investimenti esteri al 15% (Ruffolo, 1985c).

Sul mercato italiano operano anche Fondi di investimento esteri, in particolare inglesi e lussemburghesi. A fine ottobre ’85 questi ultimi hanno raggiunto i 3.600 miliardi di investimenti in azioni. Essi, a differenza degli italiani, non hanno nessun regime giuridico (Ruffolo, 1985d).

Il 1985 ha visto anche il boom dei Fondi americani. Le famiglie che hanno investito attraverso di essi sono circa 13 milioni. I Fondi sono migliaia e presentano una tipologia molto articolata. Ci sono i Fondi monetari, che investono in attività finanziarie di breve periodo; i Fondi di investimento mobiliare sono specializzati: oltre agli azionari, obbligazionari e misti o bilanciati, ci sono altri che puntano su titoli industriali o immobiliari, sulle società minerarie, sulle società finanziarie etc. I Fondi monetari nel settembre ’85 avevano raccolto 208,3 miliardi di dollari, contro i 182,7 miliardi di dollari dell’anno precedente. Nei primi nove mesi dell’anno i Fondi comuni mobiliari hanno raccolto 77 miliardi di dollari, contro i 45,9 miliardi di dollari del 1984, i 40,3 miliardi del 1983 e i 15,7 miliardi del 1982 (Morelli-Polidori, 1985).

Allo stato attuale delle conoscenze è impossibile dire se i Fondi comuni sono interessati dal capitale di provenienza illecita. Quel che è certo è che la legge antimafia non fa riferimento né ad essi né ai titoli atipici, e questa è una lacuna molto grave, che va colmata rapidamente.

Un terreno su cui si consumano “spericolate operazioni finanziarie” è quello delle società fiduciarie. Le società fiduciarie non sono propriamente una novità: “da sempre le fiduciarie svolgono un ruolo importante nel mercato finanziario, intestandosi quote di società per conto di clienti che preferiscono rimanere nell’ombra” (Panara, 1985). Negli ultimi anni, almeno in Italia, il loro ruolo era decaduto, ma si è ricorsi al “paravento” di società fiduciarie straniere. Se non si è riusciti a scoprire chi stava dietro le società panamensi che controllavano il Banco Ambrosiano tanto meno si riesce a fare chiarezza dietro operazioni in corso che riguardano varie società italiane (ibidem).

Ultimamente si sarebbe registrato uno “spostamento” nelle attività delle fiduciarie, dall’amministrazione fiduciaria (intestazione, custodia e rappresentanza) verso la gestione fiduciaria “in cui la società non solo si intesta i titoli, ma li compra e li vende con notevole autonomia sulla base di un ampio mandato del cliente. È un’attività che tutte le principali fiduciarie svolgono, dal Servizio Italia della Banca nazionale del lavoro alla Fispao del San Paolo di Torino, dall’Unione Fiduciaria delle Banche popolari alla Cofina della Ras” (ibidem).

La diffusione della gestione di patrimoni ha aperto spazi che le società più importanti utilizzano correttamente, ma ha anche offerto notevoli possibilità d’azione a finanzieri che approfittano del fatto che si possono emettere e gestire titoli altrui “non solo senza il controllo pubblico ma anche senza quello dei clienti” (ibidem). Si è messo in moto in tal modo un “meccanismo perverso” basato su tre elementi: la società che emette i titoli e quella che li gestisce fanno parte dello stesso gruppo; i titoli venduti non hanno un pubblico mercato e una quotazione ufficiale; lo stesso gruppo che emette il titolo e ha la gestione fiduciaria ha anche una rete di vendita diretta che permette la commercializzazione di questi prodotti finanziari. Con tali caratteri, “non è improbabile che le fiduciarie, anche inconsapevolmente, abbiano svolto in questi anni un ruolo importante nel riciclaggio del denaro sporco” (ibidem). Come vedremo la legge antimafia prevede che gli accertamenti patrimoniali dei soggetti indiziati di mafiosità possano riguardare anche le società fiduciarie.

Se in buona parte il fenomeno dell’innovazione finanziaria non è altro che la continuazione, sotto nuovi panni, di vecchi comportamenti, si può dire che sul piano della continuità mafia e criminalità organizzata offrono esempi innegabili di “coerenza”. Esse sono riuscite ad assicurarsi la gestione di attività finanziarie ampiamente redditizie e che hanno resistito al corso del tempo. Un caso esemplare è dato dalla gestione dei fondi pensione negli Stati Uniti. Tale gestione è stata resa possibile dalla mancanza di un controllo di base dei lavoratori che ha dato il via libero ai vari speculatori. È noto il ruolo di un sindacalista come Jimmy Hoffa nel saccheggio del fondo pensioni di un grande sindacato come quello dei Teamsters (Mollenhoff, 1965: 396 ss.; Hoffa – Fraley, 1975). Attualmente i fondi pensione americani gestiscono 1.200 miliardi di dollari, di cui il 55%, cioè 660 miliardi, è investito in azioni; aggiungendo gli investimenti dei fondi comuni il totale destinato a capitale di rischio è 800 miliardi di dollari (Morelli, 1985). Cifre consistenti che non possono non destare l’interesse di boss criminali, legati tradizionalmente al mondo sindacale americano.

Un altro settore finanziario su cui i criminali organizzati hanno esercitato una notevole influenza è quello dei fondi di società di assicurazione. Negli Stati Uniti il caso più noto è quello di Robert Vesco, campione del “white collar crime”, proprietario di corporations e di banche, accusato di appropriazione indebita di centinaia di milioni di dollari, tra cui cifre cospicue riguardano le speculazioni sui fondi assicurativi (United States Senate, 1983: 170; Hutchison, 1976).

L’accumulazione illegale del capitale: stime

Solo recentemente si sono avviati dei tentativi di quantificazione in termini monetari delle attività illecite. Penso in particolare al tentativo del Censis in Italia e a quello dell’IRS negli Stati Uniti.

Il presidente del Censis ha condotto uno studio con l’intento di valutare le dimensioni economiche delle attività illecite in Italia, procedendo con metodo “puramente indiziario, basato su valutazioni in parte arbitrarie, soggettive, affidandosi in qualche caso ad accertamenti indiretti, ed impiegando parametri opinabili, di dubbia validità, diversa da caso a caso” (Martinoli, 1985: 9). Si tratta, come lo stesso Autore avverte, di uno studio “grossolano”, il cui interesse consiste nel fatto di essere un primo tentativo che mira a far uscire le attività illecite da un’atmosfera di nebulosità e inafferrabilità, cominciando con il conferire ad alcune di esse una corporeità tangibile, anche se ancora inadeguatamente definita. Tra le attività illecite prese in esame viene operata una prima distinzione tra reati che comportano un trasferimento di ricchezza da un individuo o da gruppi di individui ad altri individui o ad altri gruppi (il furto, le estorsioni, i ricatti, le frodi, gli attentati in genere contro il patrimonio privato o pubblico) e attività criminali che sono da intendere come un servizio – perverso quanto si vuole, ma pur sempre un servizio – inteso a soddisfare esigenze più o meno latenti nella società o che comunque si manifestano in gruppi non irrilevanti di essa. Tra queste attività rientrano il traffico di droga, il giuoco d’azzardo clandestino, lo sfruttamento della prostituzione. Tali attività “richiedono l’impiego di capitali e di lavoro e come tali non si può negare ad esse un certo diritto ad una remunerazione e ad un profitto; né che in un certo senso producano ricchezza” (ibidem: 12). La distinzione tra le attività criminali che si risolvono soltanto in un trasferimento di ricchezza e quelle che forniscono servizi “non può essere netta, precisa, inequivocabile” (ibidem): questo dev’essere tenuto presente anche al fine di evitare – avverte l’Autore – che si proceda ad un’addizione pura e semplice dei valori stimati, trattandosi di attività eterogenee e non assimilabili. Oltre al valore del prodotti viene stimato anche il numero delle persone coinvolte nelle varie attività. Le attività prese in esame sono le seguenti:

– fabbricazione e smercio di droghe, con valori oscillanti tra i 10.000 e i 60.000 miliardi di lire all’anno e con 20-30 mila addetti;

– produzione e smercio clandestino di armi, il cui valore viene stimato non inferiorea quello ufficiale (sui 4.000 miliardi di lire l’anno) e con un numero di addetti intorno alle 50.000 unità;

– fabbricazione e smercio clandestino di opere d’arte, con un migliaio di miliardi e con il coinvolgimento di 5.000-10.000 unità;

– sfruttamento della prostituzione, con un importo complessivo dell’ordine di 10.000 miliardi l’anno e 700-800 mila unità;

– gioco d’azzardo clandestino, con una dimensione compresa tra i 3 e i 7 mila miliardi di lire e il coinvolgimento di una decina di migliaia di persone;

– estorsioni e ricatti, compresi i sequestri di persona, con una stima intorno ai 10.000-15.000 miliardi di lire all’anno; il numero degli addetti è di difficile valutazione, anche perché queste attività si sovrappongono ad altre, come il giuoco d’azzardo, la droga e lo sfruttamento della prostituzione;

– furto, rapina e ricettazione, con una valutazione complessiva di 15.000 miliardi l’anno e 400.000 addetti;

– contrabbando: attività in ribasso, valutabile intorno ai 2-3 mila miliardi e con una cifra di addetti oscillante tra 25.000 e 50.000;

– commercio valutario occulto, valutabile sui 5.000 miliardi; il numero degli addetti è difficilmente stimabile;

– tangenti illecite per servizi dovuti, con importi complessivi valutabili tra 5.500 e 10.000 miliardi e un numero di addetti variabile tra 50 e 100.000;

– altre attività illecite, come quelle dei falsari di banconote, di certificati di credito e in genere di documenti, le frodi, le truffe di vario tipo, le false denunce alla Comunità economica europea sull’entità dei prodotti per ottenere maggiori rimborsi, l’abusivismo edilizio, appalti e gare truccate. I valori oscillano tra i 12.000 e i 17.500 miliardi; il numero degli addetti tra i 100 e i 150.000 (tabella 1).

La criminalità organizzata, principalmente sotto forma di mafia, ‘ndrangheta, camorra, copre gran parte delle attività criminali svolte in Italia, in particolare il traffico di droga e di armi, le estorsioni e i ricatti. Martinoli propone la seguente distinzione del personale impegnato nelle varie attività del crimine organizzato:

– un vertice costituito “da boss molto potenti e forse ammanicati anche subdolamente col “potere politico”, individui spesso insospettabili e ben protetti non solo fisicamente da guarda spalle, ma anche sul piano della giustizia non solo da avvocati generalmente di buon livello; i capi, coloro cioè che nell’ombra tirano le fila del mondo del malaffare, si aggirano presumibilmente sul migliaio di individui;

– la schiera degli esecutori, che vanno dagli assoldati in via permanente a coloro che svolgono attività delittuose saltuarie; in termini numerici si tratterebbe di alcune decine di migliaia di individui”;

– i conniventi, che favoriscono le attività criminali in vario modo, o con minute incombenze o con comportamenti omertosi; questa categoria comprenderebbe in qualche caso l’intera popolazione o quasi di alcuni comuni;

– coloro che pur essendo all’oscuro delle attività legali si avvalgono dei loro proventi: professionisti, commercianti, coloro che svolgono attività lecite alimentate con i flussi del denaro sporco e riciclato (ibidem: 18-19).

Il complesso dei valori stimato è compreso in una fascia tra i 100.000 e i 150.000 miliardi di lire all’anno, ai valori medi della lira del periodo 1982-1984; il numero degli addetti all’industria del crimine oscillerebbe tra il mezzo milione e il milione di persone, pari al 2,5% e al 5% della popolazione attiva italiana. Si tratta di cifre, come l’Autore spesso avverte, da considerare. con molta cautela, che però danno un’idea abbastanza eloquente della consistenza della “mafia finanziaria” in Italia, pur essendo le attività collegabili ad essa solo una parte del complesso stimato.

Tabella 1 – Stime delle dimensioni economiche dell’illecito in Italia.

Voci Importo attività illecite Numero
(in miliardi) dei rispettivi addetti
Fabbricazione e smercio droga 25.000-35.000 20.000-30.000
Fabbr. e smercio clandestino di arm 4.000-5.000 50.000
Fabbr. e traffico cland. di opere d’arte 1.000-2.000 5.000-10.000
Sfruttamento della prostituzione 5.000 50.000
Giuoco d’azzardo clandestino 3.000-7.000 10.000
Estorsione e ricatto 15.000-20.000 75.000-150.000
Furto, rapine e ricettazione, 20.000 400.000
di cui furto a livello spicciolo 1.000-2.000 250.000-300.000
Contrabbando (2.000-3.000 25.000-50.000)
Commercio valutario illecito 5.000-10.000
Tangenti illeciti per servizi dovuti 8.000-12.500 50.000-100.000
Altre attività illecite varie (falsi, truffe, frodi, etc.) 12.500-17.500 100.000-150.000

Fonte: Martinoli, “Censis”, 1985: 29.
N.B.: Alcune cifre differiscono da quelle riportate nel testo, perché, come avverte lo stesso Autore, si è preferito assumere valori inferiori.

Dopo un primo studio pubblicato nel 1979 l’IRS (Internal Revenue Service) nel settembre del 1984 ha pubblicato un rapporto in cui sono riprodotti i risultati di una ricerca commissionata alla Abt Associated Inc. (IRS, 1984). Sono prese in considerazione quattro diverse “modalità di illecito”: furti a persone e famiglie, prostituzione, giuoco d’azzardo, traffico di droga. Il reddito netto derivante dai furti è stato calcolato pari a 1.384 milioni di dollari nel 1973 e a 3.888 nel 1982. Per la prostituzione è stato stimato un reddito illegale totale di 2.641 milioni di dollari per il 1973 e di 11.583 per il 1982 (tabella 2). Il giuoco d’azzardo avrebbe reso in totale 855 milioni di dollari nel 1973 e 2.392 milioni di dollari nel 1982 (tabella 3). Il consumo di droga sarebbe passato da un totale di 7,70 miliardi di dollari nel 1973 a 26,64 miliardi di dollari nel 1982 (tabella 4). La criminalità organizzata controllerebbe soprattutto traffico di droga, gambling e prostituzione.

Tabella 2 – Reddito netto illegale derivante dall’esercizio della prostituzione.

1973 1976 1979 1982
Numero stimato 199.817 235.342 286.166 403.600
Reddito pc (in $) 13.216 16.138 21.586 28.7
Totale(milioni $) 2.641 3.785 6.175 11.583

Tabella 3 – Reddito illegale del gioco d’azzardo (in milioni di dollari).

1973 1976 1979 1982
Numeri 443 744 1.205 1.603
Cavalli 199 242 262 348
Sport 194 249 317 422
Casinò 19 19 19 19
Totale 855 1.254 1.803 2.392

Tabella 4 – Consumo di droga al prezzo di vendita (in miliardi di dollari).

1973 1976 1979 1982
Eroina 3,57 5,09 7,19 7,88
Cocaina 2,64 4,03 11,01 11,34
Marijuana 1,49 2,19 6,58 7,42
Totale 7,70 11,31 24,78 26,64

Fonte: IRS, 1984.

Secondo altre stime il solo traffico di droga arrecherebbe un “danno” alla società americana del valore di 90 miliardi di dollari e il fatturato annuale delle attività svolte dalla mafia americana ammonterebbe a 168 miliardi di dollari (Martinoli, 1985: 18); nel 1984 avrebbe superato i 170 miliardi di dollari (Baglivo, 1985).

Come si vede da questi accenni le stime sono ancora lontane da una vera e propria scientificità. Si tratta soltanto di un percorso appena avviato, che presenta notevoli difficoltà nella individuazione di strumenti di rilevazione adeguati e di metodi di stima affinati (12).

Mafia e sistema bancario in Sicilia

La lievitazione degli sportelli bancari registratasi in Sicilia (dal 1951 al 1982 gli sportelli sono passati da 564 a 1.232, con un incremento del 118,44%, mentre l’incremento sul piano nazionale è stato del 66,35%: cfr. tabella 5) è stata messa in relazione con la crescita delle attività mafiose, collegate in primo luogo con il ruolo delle organizzazioni mafiose siculo-americane nel traffico internazionale di droga (13).

Tabella 5 – Variazione sportelli bancari 1951-1982 per aree territoriali.

Aree territoriali 1951 1982 Aumento in v. a Aumento in %
Sicilia 564 1.232 +668 +118,44
Italia meridionale senza la Sicilia 1.015 2.077 +1.062 +104,63
Italia 8.406 13.984 +5.578 +66,35
Sicilia/Italia 6,71% 8,81%

Fonte: Elaborazione su dati ISTAT e Banco di Sicilia.

È indubbio che a partire dagli anni ’70 i mafiosi siciliani assumono sempre di più il traffico di droga come attività portante e da esso ricavano profitti molto più alti di quelli intascati con altre attività (contrabbando di sigarette, tangenti, controllo dei mercati, sequestri di persona etc.) che continuano ad essere esercitate insieme con la produzione e lo smercio di sostanze stupefacenti. In Sicilia operano indisturbate per almeno un decennio raffinerie di eroina (14) e le organizzazioni mafiose si arricchiscono in pochissimo tempo. Il processo di accumulazione innesca feroci concorrenze interne che si esprimono nella guerra di mafia (1981-1983) più sanguinosa che si ricordi (15) e costituisce la base per il passaggio della borghesia mafiosa dall’alleanza subalterna, all’interno del blocco dominante nazionale, alla gara egemonica, con la sistematica eliminazione degli ostacoli che il processo di espansione incontra sul suo cammino (Santino, 1982b; 1983b).

Non ci sono fino ad oggi stime scientifiche dei proventi della mafia siciliana: i valori ipotizzati vanno da 7.000 miliardi di lire a 25-30.000 miliardi di lire all’anno, provenienti dal traffico di eroina (16). Quanto di questo flusso di denaro è affluito nel sistema bancario siciliano?

Già la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in Sicilia, i cui lavori iniziarono nel 1963 e si conclusero nel 1976, sosteneva che in Sicilia, nel periodo preso in esame, “il sistema bancario è diventato lo strumento di cui la mafia e in genere la delinquenza organizzata si sono servite per riciclare il denaro proveniente dall’attività delittuosa” (Commissione d’inchiesta sulla mafia, relazione di maggioranza, Carraro, 1976: 309). Un’affermazione gravissima ma che rimase sulla carta: nessuna inchiesta venne promossa sul sistema bancario siciliano per dare corpo a quella affermazione. Per disposizione dell’art. 17 lett. e dello Statuto e delle successive norme di attuazione (Decreto Presidente Regione n. 1133 del 27.6.1952) la Regione Sicilia ha notevoli poteri in materia creditizia: essa infatti può autorizzare nel territorio regionale l’apertura, il trasferimento, la sostituzione, la chiusura di sportelli di istituti e aziende di credito operanti esclusivamente in Sicilia; come pure di quelli aventi sede centrale in Sicilia e operanti anche fuori del territorio regionale; tolta la chiusura degli sportelli la Regione ha uguali poteri sugli enti aventi sede centrale fuori della Regione.

Alcuni di tali poteri vengono esercitati dalla Regione autonomamente, per altri è previsto il coordinamento della Regione con lo Stato (artt. 3 e 6 del DPR 1133/1952), nel senso che quando si tratti di piazze su cui sono presenti istituti di diritto pubblico, banche di interesse nazionale, aziende di rilevanza extraregionale o quando si deve autorizzare la costituzione di aziende che operano in più province o hanno capitale superiore a una cifra stabilita dal Cicr (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio), la Banca d’Italia e/o il Ministero del tesoro possono sottoporre gli schemi dei provvedimenti al parere del Cicr: tale parere è vincolante per la Regione, che però può procedere liberamente nel caso che il parere non venga comunicato entro quattro mesi. Un altro strumento di coordinamento tra Regione e Stato è quello del veto che l’assessore al bilancio può emettere respingendo le richieste di autorizzazione relative all’apertura, al trasferimento e alla sostituzione di sportelli bancari di istituti di credito di diritto pubblico, banche di interesse nazionale e aziende di credito con sede centrale fuori della Regione siciliana; nel caso che l’assessore regionale accolga tali richieste le inoltra alla Banca d’Italia, soggetto competente a rilasciare l’autorizzazione. Il “veto” regionale agisce quindi da filtro delle richieste di autorizzazione.

Uno dei caratteri principali del sistema bancario siciliano è costituito dal duopolio tra grandi banche (Banco di Sicilia e Cassa di Risparmio) e banche minori. Fino al 1975 le due grandi banche controllavano il 70,1% del mercato siciliano, nel 1980 tale quota è scesa al 60,3%. L’incremento delle banche minori, e in particolare delle banche popolari (dal 1951 al 1982 hanno avuto un incremento del 672,97%: cfr. tabella 6), si può dire che costituisca il carattere più rilevante dell’ultimo periodo. Le grandi banche sono però presenti sulle piazze di maggiore rilevanza economica (Cucinella, 1983: 141-161).

Tabella 6 – Variazioni sportelli bancari 1951-1982, per categorie.

                Sicilia Italia meridionale senza Sicilia           Italia
Categorie Valori assoluti Incremento Valori assoluti lncremento Valori assoluti Incremento
1951 1982 v. a. % 1951 1982 v. a. % 1951 1982 v. a. %
I.C.D.P. 181 248 + 67 + 37,02 390 572 +182 + 46,67 1.192 1.761 + 569 + 47,74
B.I.N. 32 52 + 20 + 62,50 129 184 + 55 + 42,64 672 917 + 245 + 36,46
C.R. 125 229 +104 + 83,20 149 380 +231 +155,03 2.141 3.617 +1.476 + 68,94
B.C.O. 61 205 +144 +236,07 101 296 +195 +193,07 1.784 2.945 +1.161 + 65,08
B.P. 37 286 +249 +672,97 124 359 +235 +189,52 1.159 2.394 +1.235 +106,56
C.R.A. 62 101 + 39 + 62,90 43 117 + 74 +172,09 687 1.131 + 444 + 64,62
Altre 66 111 + 45 + 68,18 79 169 + 90 +113,92 771 1.219 + 448 + 58,11

Legenda: I.C.D.P. = Istituto di Credito di Diritto Pubblico; B.I.N. = Banca di Interesse Nazionale; C.R. = Cassa di Risparmio; b.c.o. = Banca di Credito Ordinario; B.P. = Banca Popolare; C.R.A. = Cassa Rurale e Artigiana.
Fonte: Elaborazione su dati Istat, Banco di Sicilia e Federazione Nazionale Casse Rurali.

Mentre rappresentanti del mondo accademico hanno considerato l’aumento degli sportelli bancari un fenomeno parzialmente positivo, poiché avrebbe avuto come conseguenza “una diminuzione del divario esistente tra il costo del credito nelle isole e quello delle altre zone geografiche” (Busetta, 1982: 86), e le autorità politiche hanno visto nelle accuse di compenetrazioni mafiose rivolte al sistema bancario siciliano un attacco all’autonomia regionale (17), l’interesse dei magistrati più impegnati nella lotta contro la mafia è stato in particolare diretto al riciclaggio del denaro sporco attraverso le banche piccole e grandi, già prima della Legge antimafia. Gli accertamenti bancari hanno permesso di individuare e colpire responsabilità di mafiosi e complicità di addetti collegati con essi (figura 4). Una delle inchieste più significative (quella condotta dal giudice istruttore Giovanni Falcone contro Rosario Spatola e altri mafiosi) è stata possibile principalmente attraverso gli accertamenti relativi ai passaggi dei narcodollari nelle banche, non solo siciliane e non solo minori (18). Le tracce lasciate dai movimenti di denaro connessi alle attività criminali più lucrose sono state considerate come il vero “tallone d’Achille” delle organizzazioni mafiose (Falcone – Turone, 1982: 42).

All’interno della realtà economico-finanziaria siciliana un ruolo rilevante hanno le esattorie, su cui aveva indagato la vecchia Commissione antimafia (Commissione d’inchiesta sulla mafia, relazione di maggioranza, Carraro, 1976: 310; relazione di minoranza, La Torre, 1976: 601 s.), e che solo recentemente sono state pubblicizzate, sottraendole ai cugini Ignazio e Nino Salvo, incarcerati dopo le rivelazioni di Buscetta (19). I Salvo per decenni hanno avuto una posizione dominante nel mondo finanziario-imprenditoriale siciliano approfittando di una situazione di privilegio che erano riusciti ad assicurarsi in forza del loro controllo su leve essenziali della politica regionale e nazionale (20). Gli aggi delle esattorie siciliane superavano di molto quelli nazionali (quasi il 10% contro il 2,5% nazionale) e, avvalendosi anche di grossi contributi concessi dalla Regione, gli esattori di Salemi riuscivano a disporre di ingenti masse di capitale, investito in molteplici attività (21). Insieme con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino i cugini Salvo sono gli unici rappresentanti del cosiddetto “terzo livello” che la magistratura sia riuscita ad individuare esattamente e a colpire (22).

Legislazione antimafia e accertamenti bancari

L’art. 14 della Legge n. 646 del 13 settembre 1982 (Legge Rognoni-La Torre, o Legge antimafia) prescrive che “il procuratore della repubblica e il questore, a mezzo della polizia tributaria, possono richiedere ad ogni ufficio della pubblica amministrazione, ad ogni istituto di credito pubblico privato e ad ogni società fiduciaria le informazioni e copia della documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini nei confronti dei soggetti” nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. Tale norma va coordinata con la disposizione dell’art. 1 del decreto legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito in legge con la legge 12 ottobre 1982 n. 726, secondo cui all’Alto commissario per la lotta contro la mafia “sono attribuiti, per l’esercizio delle sue funzioni, anche in deroga alle disposizioni vigenti, poteri di accesso e di accertamento presso le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici anche economici, le banche, gli istituti di credito pubblico o privati, con la possibilità di avvalersi allo scopo degli organi di polizia tributaria”.

L’art. 24 della Legge n. 646 estende le disposizioni dell’art. 14 della stessa legge alle persone nei cui confronti possa essere iniziata l’azione penale sempre per indizio di appartenenza ad associazione di tipo mafioso.

Con tali norme si sono conferiti all’autorità giudiziaria e a quella amministrativa “ampi potere di indagine all’interno degli istituti bancari ritenuti sino a qualche anno fa poco meno di santuari inaccessibili alle indagini penali, all’ombra dei quali era possibile condurre le più spregiudicate operazioni di riciclaggio del denaro “sporco” proveniente dal traffico di droga e dai sequestri di persona” (Macrì C. e V., 1983: 100). In tal modo il segreto bancario non è opponibile in presenza di indizi di mafiosità.

Nel rapporto dell’Alto commissario sullo stato di attuazione della legge antimafia, presentato il 3 settembre 1984, risultavano effettuati, dall’1 ottobre 1982 al 30 giugno 1984, 12.032 accertamenti bancari, disposti dal questore, dal procuratore della repubblica e dal tribunale, sull’intero territorio nazionale. Le banche che sono state prese di mira sono banche minori, tra cui, in Sicilia, i casi più noti riguardano la Banca Don Bosco di San Cataldo (Caltanissetta) e la Cassa rurale di Palma Montechiaro (Agrigento), come in genere gli accertamenti patrimoniali hanno riguardato principalmente piccoli mafiosi (23).

Nel corso dei suoi lavori la Commissione parlamentare di vigilanza sulla Legge Rognoni – La Torre (Commissione antimafia) ha ascoltato due volte il governatore della Banca d’Italia, la prima nell’ottobre del 1983, la seconda nel dicembre del 1985. Ciampi ha sottolineato che l’aspetto principale del rapporto tra mafia e banche è rappresentato dal riciclaggio del denaro sporco e che gli inquinamenti sul piano creditizio non hanno ragion d’essere “visto che le associazioni mafiose non hanno bisogno di ricercare mezzi finanziari sul mercato” (“Giornale di Sicilia”, 19 dicembre 1985): un’impostazione riduttiva e che non tiene conto del fatto che più volte notissimi mafiosi hanno goduto di crediti da parte di grandi istituti creditizi e hanno avuto crediti agevolati da istituti di credito speciale. Il caso più noto è quello dei fratelli Greco che hanno avuto dal Banco di Sicilia un credito di 1 miliardo e 300 milioni di lire ad interesse agevolato per “migliorie” su un terreno di 150 ettari in provincia di Caltanissetta, acquistato dal deputato democristiano Luigi Gioia (“I Siciliani”, 1984, n. 15).

Mentre nella prima audizione il governatore della Banca d’Italia, in una “memoria” predisposta per l’occasione, denunciava lo “straripamento” degli sportelli bancari in Sicilia (“una rete di sportelli ipertrofica o scarsamente concorrenziale contraddice il criterio di economicità nell’efficienza a cui deve rispondere l’offerta dei servizi bancari”, p. 4 della “memoria”), nella seconda audizione ha dichiarato che le autorizzazioni della Regione siciliana ad aprire sportelli sono state ristrette e la Regione ha in pratica abolito il “veto” alla presenza in Sicilia di banche di interesse nazionale. Ciampi ha fornito i seguenti dati sulle ispezioni effettuate in banche operanti in Sicilia, Calabria e Campania nel biennio 1984-1985: 80 ispezioni (contro le 32 del 1982 e le 49 del 1983) rispetto alle 392 effettuate su tutto il territorio nazionale; pertanto l’incidenza è del 20% (“Giornale di Sicilia”, 19 dicembre 1985). Le relazioni di maggioranza e di minoranza della Commissione antimafia, presentate nel corso del 1985, dedicano qualche spazio al problema.

La relazione di maggioranza accenna alla “scarsa collaborazione” delle banche nelle indagini volte ad accertare la consistenza patrimoniale dei mafiosi, riporta un giudizio gravissimo sulla borsa italiana che sarebbe rimasta nelle condizioni di “mancata trasparenza” che hanno permesso le speculazioni di Calvi e Sindona (Commissione parlamentare, relazione maggioranza, Alinovi, 1985: 110), riconosce l’inutilità “al limite del ridicolo” delle norme repressive dell'”abusivismo bancario” (ibidem: 116), avverte la necessità del potenziamento delle strutture amministrative e di polizia valutaria e di nuovi accordi internazionali, in particolare con i “cosiddetti paradisi fiscali”, e della regolazione delle attività finanziarie e creditizie non disciplinate dalla legge: attività “parabancarie”, mercato dei titoli atipici, le società finanziarie e fiduciarie, e di una nuova legge sulle esattorie (ibidem: 107-123).

La relazione di minoranza, che fa perno sul concetto di “mafia finanziaria”, pone la necessità dell’eliminazione del segreto bancario, senza nascondersi le difficoltà che ciò comporta: “Le tendenze legislative attuali vanno in altra direzione: liberalizzare ancora di più la funzione delle banche e tale tendenza risponde ad esigenze profonde del capitale finanziario, che non può distinguere tra denaro e denaro, ma solo tra quantità di denaro” (Commissione parlamentare, relazione minoranza, Pollice, 1985: 39).

Prospettive

La lotta contro la “mafia finanziaria” comporta la necessità di una strategia complessa, che si sviluppi sul piano giudiziario, economico, sociale, politico, culturale e abbia come protagonisti grandi masse di persone e non singoli personaggi, o settori limitati, più o meno isolati. I fenomeni di criminalizzazione dell’economia e del potere si aggraveranno sempre di più, confermandosi come fenomeni tipici della società contemporanea, se non si saprà agire con decisione su alcuni aspetti essenziali. Tali aspetti, sul piano economico-finanziario, sono:

1) la funzione di servizio svolta dalle organizzazioni criminali, in particolare con il commercio di droga e di armi;

2) l’opacità del complesso finanziario-industriale che permette l’incontro tra i capitali, senza tener conto della loro natura e provenienza.

Ridurre ed eliminare in prospettiva l’accumulazione illegale del capitale è possibile solo stroncando la funzione di servizio delle organizzazioni criminali, con un’azione complessa che va dalla decriminalizzazione dei consumi di massa, per esempio quello della droga, alla loro riduzione con opportune politiche di educazione e ristrutturazione dei consumi, all’eliminazione di “bisogni”, come quello di armi, indotto dai processi di militarizzazione in atto, con coraggiose politiche di pace.

Sul piano propriamente finanziario qualsiasi provvedimento parziale e limitato, che non sia nell’ottica dell’eliminazione dell’opacità del sistema finanziario-industriale, è destinato al fallimento.

Note
1 La tesi dei crimine come “american way of life” e canale di mobilità sociale dei gruppi etnici marginali che cercano di imporre un loro ruolo nella società americana (prima gli irlandesi, poi gli ebrei, poi gli italiani) venne sviluppata da Daniel Bell in un articolo del 1953 (Bell, 1953, 131-154) ed è ripresa da Francis A. J. Ianni che individua nella popolazione nera e portoricana i soggetti emergenti della nuova criminalità organizzata (Ianni, 1974.). La mia ipotesi à che la criminalità muovendo dalle “periferie” geografiche e sociali è penetrata nei “centri” per cui, pur mantenendo alcuni caratteri di attività dei late comers, presenta connotazioni sempre più marcate di business internazionale, in cui sono coinvolti white collars e powers-criminals. Il percorso storico della mafia viene delineato come “passaggio dalla periferia al centro”, limitatamente al quadro italiano e ai rapporti tra mafia e potere politico, da Catanzaro, 1984. Sull’emergere della “grande criminalità” come problema mondiale: Arlacchi, 1985.
2 Un’informazione sommaria sulle organizzazioni criminali di vari Paesi può trovarsi in Buongiorno – Paladino, 1985. Si richiamano alcuni titoli sulle principali organizzazioni. Sulla mafia colombiana: J. Mannsfeld, 1982. Sulla mafia boliviana, particolarmente utile: LAB – Iepala, 1982. Sulle triadi cinesi e sul traffico di droga nel Sud-Est asiatico: McCoy, 1973; Bresler, 1981. Sulla yakusa giapponese: Schrader, 1975. Sul ruolo dei portoricani nella criminalità organizzata: Ianni, 1974. Sulla criminalità organizzata in Australia: Royal Commission, 1983. In quest’ultimo testo, un rapporto della Commissione parlamentare d’inchiesta australiana sul traffico di droga, viene dato ampio spazio all’uso, da parte dei criminali organizzati, delle banche e delle istituzioni finanziarie (202-327). Dagli anni ’30 agli anni ’80 un ruolo egemonico nel traffico internazionale di droga hanno avuto le organizzazioni corso-marsigliesi (Lamour – Lamberti, 1973). La criminalità organizzata negli ultimi decenni si è diffusa anche in Paesi che si ritenevano immuni, come i Paesi scandinavi (Block – Chambliss, 1981: 135-159).
3 Oltre ai testi richiamati nel corso dell’articolo (Comito, 1976; Dockès, 1977; Michalet, 1978) e nella nota 2, segnaliamo alcuni titoli. Sulla società contemporanea: Touraine, 1970; Bell, 1978. Sulla funzione della Stato: O’ Connor, 1977; Offe, 1977; Riccio – Caruso – Vaccaro, 1984. Sulla stratificazione sociale: Sylos Labini, 1986. Sui rapporti tra crimine e società: Pearce, 1976; Block – Chambliss, 1981; Grilli, 1985. Sui “poteri invisibili” e “criminali”: Bobbio, 1980; Curi, 1981; Rodotà, 1983; Roth – Ender, 1984. Sui processi di militarizzazione: Melman, 1972; Santino, 1983c, 1983d. Riassumo i termini essenziali di alcune questioni fondamentali. Il dibattito sulla “società post-industriale” ha avuto al centro due tesi, quella di Touraine e quella di Bell. Touraine definisce post-industriale una società in cui l’industria continua ad avere un ruolo centrale ma in cui la linea del conflitto si è spostata: “esso non verte più sulla distribuzione tra imprenditori e lavoratori del reddito prodotto dall’industria, ma piuttosto sull’orientamento e sulla formazione delle decisioni che attengono alla programmazione, non solo della produzione industriale, ma anche della scuola, dei trasporti, del mezzi di comunicazione, dell’amministrazione pubblica” (Gallino, 1983: 831). Per Bell la società post-industriale “ha raggiunto e superato il culmine dell’industrializzazione, iniziando un nuovo ciclo di sviluppo sociale che vede l’attività industriale, manifatturiera, relegata definitivamente in posizione periferica” (ibidem: 632). Il settore secondario viene scalzato da altri settori (terziario, quaternario, quinario) e il problema più importante diventa l’organizzazione della scienza e delle istituzioni di ricerca. Nel 1960 Bell, nel saggio The End of Ideology aveva analizzato il ruolo del “technical decision-making” nella società che vede l’ascesa del “capitalismo manageriale”, considerato come diametralmente opposto all’ideologia: “the one calculating and instrumental; the other emotional and expressive” (Bell, 1976: 34), e aveva affermato l’esaurimento delle “vecchie posizioni politiche”. Quanto su questa condanna a morte dell’ideologia pesassero le ipoteche ideologiche neocapitalistiche non si può approfondire in questa sede.
Sul versante marxista lo studio delle caratteristiche della “società tardo-capitalistica” ha prodotto significativi risultati soprattutto per quanto riguarda l’analisi della funzione dello Stato. O’ Connor ha parlato di “crisi fiscale” dello Stato contemporaneo. Lo Stato nella società capitalistica matura deve cercare di svolgere due funzioni fondamentali: accumulazione e legittimazione; cioè, deve mantenere e creare le condizioni in cui è possibile realizzare l’accumulazione del capitale, impegnandosi direttamente nel processo accumulativo, e insieme assicurare l’armonia sociale. La socializzazione della produzione, cioè dei costi del capitale costante e del capitale variabile, è necessaria per il capitale monopolistico, e poiché esso è essenzialmente irrazionale e produce disoccupazione e stagnazione economica, lo Stato deve altresì incrementare le spese sociali destinate a ridurre gli effetti di tali processi. Lo Stato ha socializzato sempre di più i costi del capitale ma i profitti continuano ad essere intascati dai privati. La socializzazione dei costi e l’appropriazione privata dei profitti crea la “crisi fiscale”, cioè il gap strutturale tra le spese dello Stato e le sue entrate. C’è una tendenza delle spese statali a crescere più rapidamente di quanto facciano i mezzi di finanziamento delle spese.
Al centro dell’analisi di Offe è la considerazione che nel capitalismo maturo, regolato statualmente, disuguaglianze sociali e privilegi politici non coincidono più con la classica distinzione marxista tra proprietari dei mezzi di produzione e possessori di forza-lavoro. “Le nuove forme di diseguaglianza sociale non possono più essere ricondotte direttamente ai rapporti di classe definiti sul piano economico ed essere spiegate come il riflesso di tali rapporti. Occorre invece scoprire, sul piano del sistema politico, quei meccanismi che, da un lato, sostituiscono il sistema “verticale” delle disuguaglianze delle posizioni di classe con un sistema “orizzontale” di disparità tra ambiti di vita e, dall’altro, conservano, a causa di rinunce dell’intervento pubblico, frammenti di disuguaglianza dovuta a ragioni direttamente economiche” (Offe, 1977: 53 s.). Per disparità fra gli “ambiti di vita” debbono intendersi le differenziazioni indotte o acuite dalla mediazione politica dello Stato che seleziona e premia i titolari di status e funzioni specialistici necessari alla logica del comando tardo-capitalistico. La regolazione statuale dello sviluppo capitalistico altera perciò la tradizionale struttura di classe facendo emergere, al posto della polarizzazione tra capitalisti e operai, settori intermedi, adibiti ai servizi, e accentuando i fenomeni di marginalizzazione sociale. In tal modo la conflittualità sociale nel tardo-capitalismo si sposta dalla sfera produttiva ai rapporti periferici: “il conflitto colpisce rapporti che non sono necessari al sistema produttivo (come il rapporto tra lavoro salariato e capitale) ma che sono necessari nel sistema produttivo complessivamente considerato” (ibidem: 9. Introduzione di D. Zolo).
Recentemente Sylos Labini ha pubblicato un saggio sulle classi sociali negli anni ’80 in cui sostiene che i dati statistici confermano le tendenze di lungo periodo già emerse nel passato e in particolare quelle relative all’incremento delle classi medie urbane (impiegati privati, impiegati pubblici, artigiani) e alla riduzione della classe operaia (salariati agricoli, operai dell’industria, commercio, trasporti, servizi, “contadini”), per cui “in un futuro non lontano la questione operaia probabilmente verrà superata con la tendenziale scomparsa degli operai” (Sylos Labini, 1986: 27). La Nuova Sinistra italiana considera l’estinzione del proletariato come una tesi ideologica tendente ad accreditare l’idea della fine del conflitto antagonistico di classe (Democrazia Proletaria, 1986: 10-16).
4 Gli studi sul capitale finanziario sono uno dei “luoghi classici” della letteratura marxista. Gli accenni contenuti nella opere storiche e teoriche di Marx (1965, 1968, 1973) sono stati sviluppati, secondo linee diverse e contrapposte, da Hilferding, 1972, e da Lenin, 1969. Per gli studi più recenti, si vedano: Sweeze, 1962; Pesenti, 1972.
5 Ci limitiamo in questa sede a segnalare: Grifone, 1971; Lippi, 1972; Vicarelli, 1979.
6 Sul ruolo della Deutsche Bank si veda “Der Spiegel” n. 7 del 1985. Sulla multinazionalizzazione dei Konzerne: Mettler, 1985a-b.
7 Si vedano: ONU, 1973; Hymer, 1974; Dunning, 1975; Palloix, 1975; Comito, 1976. Dal 1954 la rivista “Fortune” pubblica ogni anno un elenco delle più importanti imprese americane; il “Financial Time” con il suo Year Book costituisce una delle fonti principali di informazione. Utile per i dati sulle multinazionali e sugli investimenti all’estero di imprese americane è la pubblicazione mensile del Department of Commerce, “Survey of Current Business”.
8 Dopo i due programmi generali del 1961, che non trovarono applicazione, il Consiglio della Comunità Economica Europea ha emesso quattro direttive in materia creditizia. La prima (n. 73 del 28 giugno 1973) prevede la liberalizzazione dei servizi; la seconda (n. 780 dal 12 dicembre 1977), relativa al coordinamento delle disposizioni dei Paesi aderenti riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio; la terza (n. 349 del 13 giugno 1983) riguarda la vigilanza sugli enti creditizi e i conti consolidati; la quarta (del 13 giugno 1984), relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo (debbo queste informazioni a Sandra Virzì, socia del Centro siciliano di documentazione, che ringrazio). Sullo stato di attuazione delle direttive CEE: Mimola – Principe – Rispoli, 1983.
9 Sull’innovazione finanziaria: Silber, 1975.
10 Anche se con accenti diversi, su questo punto le relazioni di maggioranza e di minoranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona sono sostanzialmente d’accordo.
11 Nel 1973 si ebbe il fallimento dalla U.S. National Bank of San Diego, nel 1974 quelli della Franklin National Bank, della Herstatt e della Banca Privata Italiana. Si è considerata la crisi di quegli anni come un rivelatore della debolezza dei “consorzi bancari” derivante dalla loro “eccessiva dipendenza dal mercato interbancario” (Bisoni, 1984: 43). Le banche centrali sarebbero intervenute per disinnescare il “potenziale destabilizzante” della crisi di quegli anni (Onado, 1984: 5). Il che vuol dire che le speculazioni e le ruberie di finanzieri come Sindona sono stata pagate dalle pubbliche istituzioni, cioè dai cittadini.
12 Per i criteri di stima dell’economia criminale, all’interno dell’economia sommersa, si veda: Deaglio, 1985: 170-173.
13 Vedi la nota 61 a pag. 104 di questo volume. E inoltre: Lucca (1982); Manfellotto (1982). L’inchiesta giornalistica più ampia sulle banche siciliane e stata condotta da Fava-Gambino (1984).
14 Tra il 22 settembre 1971 e il 6 luglio 1978 sono stati sequestrati presso l’aeroporto Kennedy di New York kg 94,930 di eroina, proveniente da Palermo. Ciò lascia pensare che dovevano esserci in Sicilia laboratori di produzione dell’eroina dalla morfina base, ma solo nell’agosto del 1980 veniva scoperta, a pochi chilometri da Palermo, la prima raffineria, con una capacità produttiva di 50 kg a settimana. Nel corso del 1980 venivano scoperte altre due raffinerie, sempre nelle vicinanze di Palermo. Nel febbraio del 1982 veniva scoperta, in un quartiere di Palermo, una quarta raffineria. Anche queste raffinerie producevano 50 kg di eroina a settimana.
15 Dal 1978 al 1984 ci sono stati a Palermo e provincia 606 omicidi, escluse le “lupare bianche”. Gli anni che hanno fatto registrare un maggior numero di omicidi sono il 1981, con 98 omicidi, il 1982, con 150, il 1983, con 113. I dati sono ricavati da una ricerca in corso del Centro siciliano di documentazione e dell’Istituto di Statistica giudiziaria dell’Università di Palermo (ora in G.Chinnici – U.Santino, La violenza programmata, F.Angeli, Milano, 1989).
16 Le stime dalla DEA “Drug Enforcement Administration” nel 1980 indicavano che un terzo del totale dall’eroina commercializzata in quell’anno sarebbe passata per la Sicilia e calcolavano in 20.000 miliardi di lire il fatturato complessivo (Santino, 1982a: 40). Il valore di 25.000-30.000 miliardi di lire, derivanti dal solo traffico di eroina svolto dalle famiglie mafiose siciliane, è ipotizzato da Gambino (1983).
17 Si riporta la dichiarazione dell’ex Presidente della Regione siciliana Mario D’Acquisto dopo la prima audizione del Governatore dalla Banca d’Italia presso la Commissione antimafia: “L’autonomia siciliana va difesa. Eravamo in coda in quasi tutti i campi, occorreva riguadagnare terreno più rapidamente dagli altri, ecco i motivi di questo incremento di sportelli bancari… E comunque non è serio sostenere che la Regione o le banche siciliane alimentano la mafia: argomenti di questo genere non hanno diritto di cittadinanza in una discussione seria” (“I Siciliani”, aprile 1984: 32).
18 Gli accertamenti effettuati nel corso dell’inchiesta giudiziaria riguardano i seguenti istituti di credito: Sicilcassa (Palermo), Cassa rurale artigiana di Monreale (agenzie di Monreale e Palermo), Banca popolare di Carini, Banca del popolo di Cinisi, Banco di Sicilia (agenzia di Palermo e Riesi), Banca popolare siciliana (agenzia di Bagheria), Banca nazionale del lavoro (agenzia di Palermo), Banca del Sud (Bagheria), Banca popolare di Belmonte Mezzagno, Cassa rurale e artigiana di Altofonte. Sul territorio nazionale: Banco di Napoli, Banca nazionale dal lavoro, Banco di Roma, Cassa di risparmio di Calabria e Lucania, Banca popolare di Luino e Varese, Monte dei Paschi di Siena, Credito romagnolo (Falcone, 1981).
19 Alcune informazioni, credo abbastanza illuminanti, sulla vicenda che ha portato alla pubblicizzazione delle esattorie siciliane. Con un atto del 19 luglio 1982 la Satris (società del gruppo Salvo che aveva la gestione di alcune esattorie) comunicava alla Regione la sua intenzione di lasciare la gestione delle esattorie, denunciando perdite di gestione dell’ordine di otto miliardi l’anno, perdite che la Satris attribuiva alla riduzione dell’aggio e all’obbligo di gestire anche le esattorie passive. Con la legge regionale n. 123 dell’1 ottobre 1982, l’Assessore per il bilancio e le finanze viene autorizzato ad affidare in via provvisoria la gestione delle esattorie a delegati governativi, scelti tra gli istituti di credito, aventi natura pubblica ovvero a partecipazione interamente pubblica, che gestiscono esattorie in Sicilia. Viene scelta la Soged, costituita dal Banco di Sicilia e dalla Cassa di risparmio, con l’impegno della Regione di rimborsare, in caso di deficit di gestione, gli oneri per l’affitto di immobili e impianti. La Satris mette a disposizione i suoi, che vengono valutati da un collegio 45 miliardi, con un canone annuo per la Soged di quattro miliardi e mezzo più altri quattro miliardi per spese sostenute dalla Satris per conto della Soged (personale, pensioni etc.). In tal modo, la Satris che aveva l’obbligo di gestire le esattorie fino al 31 dicembre 1983 e che, con atto unilaterale, era venuta meno a tale obbligo, avrebbe percepito una somma cospicua dalla Regione a titolo di canone d’affitto dei locali e delle attrezzature e di rimborso spese. Con decreto del Presidente della Regione del 4 agosto 1982 viene disposta la revoca “per sopravvenuta inopportunità della prosecuzione del rapporto di concessione”. I giudici istruttori Falcone e Natoli, contrariamente a quanto pensa la Procura, che dispone l’archiviazione degli atti e la chiusura di un’inchiesta avviata su denunce anonime, ritengono che la Regione avrebbe dovuto pronunciare la decadenza della Satris per inadempienza e intascare la penale e il rimborso danni derivanti dalla risoluzione del contratto, e non già sborsare alla Satris altri miliardi, e incriminano il governo regionale per “interessi privati in atti d’ufficio”. Con un ordine del giorno, presentato dal PCI, e passato a sorpresa con 34 voti favorevoli (tra cui quelli dei “franchi tiratori”) e 33 contrari, il 2 2 dicembre del 1983 la Regione si impegna a pubblicizzare le esattorie entro la fine del 1984. La Legge n. 55 del 21 agosto 1984 dispone la pubblicizzazione, promuovendo la costituzione di una società per la gestione delle esattorie siciliane.
20 Significativo il documento, fornito dall’archivio di Michele Pantaleone e pubblicato da “I Siciliani” (1984, luglio-agosto: 26-31), con il verbale di un’assemblea della società “Sicilia Gestioni Esattorie Ricevitorie Imposte e Tesorerie”, svoltasi nell’aprile del 1962. Nell’assemblea si comunica che il consiglio di amministrazione ha autorizzato “la gestione discrezionale e senza obbligo di rendiconto” di fondi destinati a “contrastare l’iniziativa sindacale e politica tendente a creare in Sicilia un Ente regionale di riscossione delle imposte che eliminerebbe la funzione dell’esattore privato” e a promuovere un’azione “per ottenere la formazione della auspicata legge regionale di iniziativa governativa per la conferma degli esattori in carica per il prossimo decennio 1964-73”.
Una dimostrazione del potere degli esattori siciliani fu la bocciatura del disegno di legge presentato nel 1982 dal ministro delle Finanze Formica, che intendeva ridurre gli aggi riscossi in Sicilia: a votare contro furono parecchi “franchi tiratori” dell’area governativa.
21 Sulle attività dei Salvo: Corsentino, 1982; Gambino, 1984.
22 Il riferimento ai tre livelli parte da una classificazione dei giudici Falcone e Turone (1982: 43-45) relativa ai reati di mafia. Essi distinguevano: reati del primo livello, cioè le “attività criminose direttamente produttive di movimento di denaro, che vanno dalle attività illecite tradizionali (estorsioni, contrabbando di sigarette, sofisticazione di vino etc.) ai traffici di stupefacenti e di armi. Reati del secondo livello sarebbero quelli che si collegano alle lotte tra le cosche. Reati del terzo livello sono quelli che “mirano a salvaguardare il perpetuarsi del sistema mafioso”, come l’omicidio di un uomo politico o di un rappresentante delle istituzioni che viene considerato pericoloso per l’assetto del potere mafioso.
Per opera soprattutto della stampa, la distinzione in seguito è passata dai reati mafiosi all’organizzazione mafiosa, per cui abitualmente si distingue un primo livello, che sarebbe quello degli esecutori materiali del delitti; un secondo livello, rappresentato dai mandanti, dai vertici delle famiglie mafiose; un terzo livello, che sarebbe quello politico-finanziario, cioè sarebbe formato dalle menti strategiche della mafia. Se le distinzioni troppo rigide non rispondono alla realtà, nel senso che ci sono esecutori che sono capi, o mirano a diventarlo, come pure ci sono esecutori che sono soltanto “forza lavoro criminale”, c’e da dire che le polemiche sull’esistenza o meno di un “terzo livello” sono il frutto di due visioni diverse della mafia. Il “terzo livello” è propriamente il terreno del rapporto tra mafia e politica. Chi tende a negare che ci sia questo rapporto nega l’esistenza del “terzo livello” e sostiene che la mafia è tutta dentro se stessa, nelle sue organizzazioni criminose, e che non ci sono rapporti organici tra mafiosi e politici, ma semmai rapporti episodici tra qualche boss e qualche politico. Tale contrapposizione percorre anche i due documenti elaborati dai giudici di Palermo in preparazione del “maxiprocesso” che è iniziato nel febbraio 1986. I magistrati della Procura, che hanno prodotto la requisitoria, parlano di “contiguità” tra mafia e ambienti politici, anche se spesso cadono in contraddizione usando il concetto di “compenetrazione organica” e portando esempi concreti che si inscrivono nell’ambito di tale concetto (Procura di Palermo, 1985: 433-490). I magistrati dell’Ufficio Istruzione nella loro ordinanza scrivono che gli “omicidi politici sono il frutto di una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa Pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente “voltare pagina”” (Ufficio Istruzione di Palermo, 1985: 979).
In realtà i concetti di “contiguità” e di “compenetrazione organica” invece che essere considerati in contrapposizione possono essere usati entrambi per designare livelli diversi di articolazione del rapporto mafia-politica. L’area a più stretto contatto con le organizzazioni mafiose e i loro interessi può considerarsi compenetrata organicamente con essi. C’è poi un’area più vasta di contiguità, in cui il rapporto e costituito attraverso concatenazioni indirette e mediate. Questo vale anche per i rapporti con l’economia, in particolare con il mondo imprenditoriale e finanziario.
Resta il fatto che, a livello giudiziario, non si è riusciti ad andare più in là di Ciancimino e dei Salvo e che a livello culturale e politico un tentativo, come quello operato con il dossier su Salvo Lima (Santino, 1984), presentato a Roma e a Strasburgo da Democrazia Proletaria, è stato isolato: un’ulteriore prova, dopo l’astensione del PCI nel voto contro Andreotti per i suoi legami con Sindona, dei compromessi politici che impediscono lo sviluppo di una lotta coerente contro la mafia.
23 Sugli accertamenti patrimoniali in attuazione della Legge antimafia si veda: Cazzola – Lanza – Roccuzzo, 1985.

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