Il contributo della nonviolenza al superamento del sistema mafioso
Vincenzo Sanfilippo
Il contributo della nonviolenza al superamento del sistema mafioso
Sommario
1. Vertici di partenza
2. L’approccio nonviolento per la comprensione del fenomeno mafioso: alcuni temi-guida
3. Mafia e sistema sociale mafioso
4. Sistema mafioso e ruolo del ricercatore
5. Come può evolvere il nostro sistema sociale?
6. Orientamenti per la ricerca
7. Orientamenti per i percorsi di superamento: quale evoluzione nonviolenta?
8. Alcune proposte operative per la ripresa di un cammino
1. Vertici di partenza
Il tema che vorrei approfondire è un tema sul quale mi interrogo da diversi anni.
La nonviolenza è infatti l’ambito spirituale, ancor prima che culturale, al quale cerco di far riferimento.
Il mio personale percorso formativo mi ha infatti condotto al Movimento dell’Arca, movimento d’ispirazione gandhiana, fondato da Lanza del Vasto, al quale aderisco come Alleato(1).
E’ stato Lanza del Vasto e, con diversa sensibilità e retroterra culturale, Aldo Capitini ad introdurre in Europa il pensiero di Gandhi.
Ma il riferimento alla violenza mafiosa è in generale, per un siciliano che vuole rifarsi alla nonviolenza, un passaggio cruciale, una provocazione ineludibile.
Gli studi di sociologia e la professione di sociologo (che esercito oggi nell’ambito dei servizi di salute mentale) mi hanno poi condotto a riflettere sul nesso mafia e nonviolenza, facendo uso di concetti e teorie proprie di questa disciplina.
Oggi quindi vorrei mettere al vaglio dell’attenzione di chi si interroga su come uscire dal dominio della mafia, queste riflessioni, per verificarne l’utilità e per arricchirle con eventuali contributi.
Gli angoli di visuale dai quali cercherò di trattare il tema saranno quindi due:
da una parte l’adesione ad un insegnamento gandhiano (con tutti i limiti e le contraddizioni che si possono immaginare)
dall’altro l’uso di un linguaggio e di alcuni strumenti concettuali che originano dalle scienze umane.
Linguaggio e concetti risentiranno, al pari della riflessione sull’insegnamento nonviolento, di una certa approssimazione, poiché non sono un ricercatore accademico e la ricerca teorica comporta tempo e concentrazione che non sempre il lavoro istituzionale mi ha permesso di avere.
Alternerò questi due registri che spesso, forse non del tutto impropriamente, si fonderanno.
Dico questo semplicemente per rendere espliciti alcuni riferimenti che certamente “personalizzano” e quindi “relativizzano” il carattere delle riflessioni di questo contributo.
Voglio dire comunque che non ritengo esista un angolo visuale indispensabile o comunque più importante di altri, in quanto la nonviolenza è, a mio avviso, una forza che sfugge alle teorizzazioni, che si è manifestata e si manifesta nella storia, indipendentemente dai nostri sforzi di capirla e sistematizzarla in pensieri organici.
2. L’approccio nonviolento per la comprensione del fenomeno mafioso: alcuni temi-guida
Vorrei in primo luogo partire tentando di dare alcune definizioni sui termini principali del nostro tema. In primo luogo è importante che io definisca il termine “nonviolenza”.
Riflettendo su questo termine sono pervenuto a due definizioni.
Prima possibile definizione:
La nonviolenza è un modo di risolvere i conflitti, guidato da una fede in Dio e/o nell’uomo, attraverso il richiamo costante della coscienza propria e dell’avversario.
Seconda possibile definizione:
La nonviolenza è un percorso verso la Verità, che parte dal presupposto che gli uomini siano uniti da legami profondi, diversi dalle relazioni interpersonali e sociali che si danno in un dato momento storico, e che pertanto considera i conflitti come disarmonie transitorie che l’uomo ha il dovere etico di superare.
Non saprei optare e proporre una sola delle due definizioni, infatti sono convinto che la nonviolenza sia contemporaneamente ricerca della Verità e metodo di soluzione dei conflitti.
Per meglio capire ancora che cos’è la nonviolenza può essere utile cercare di individuare alcuni ambiti della nostra esperienza umana con i quali la nonviolenza può entrare in contatto.
Solitamente, infatti, quando si parla di nonviolenza, o quando i media ne parlano, si fa riferimento alle guerre, ai conflitti tra stati, alle azioni di resistenza ai regimi oppressivi, ai conflitti razziali, etnici, interreligiosi o intrareligiosi.
Ci si riferisce quindi quasi esclusivamente ad un ambito socio-politico (con riferimento ai problemi della difesa dello Stato) o religioso (2).
Esistono invece, a mio avviso, molte altre sfere dell’azione umana, individuale e collettiva, alle quali la nonviolenza può dare ispirazione o risposta.
Chi ha visto il film Gandhi di Attemborough ricorderà la scena in cui un giovane indù incontra il Mahatma durante uno dei suoi lunghi digiuni, mentre in India infuriava una delle più sanguinose guerre di religione.
Quel giovane confessa a Gandhi di aver ucciso un bambino musulmano spaccandogli la testa contro un muro; suo figlio era stato ucciso a sua volta più o meno allo stesso modo.
Il consiglio che Gandhi dà al giovane, ancora sconvolto dal suo gesto, per evitare l’inferno, è quello di adottare un orfano di famiglia musulmana, della stessa età dei bambino ucciso, raccomandandogli di educarlo alla sua religione di origine.
Penso che questa scena rappresenta bene una “faccia” fondamentale della nonviolenza che è quella etica.
E’ molto interessante come un film che presenta la figura di Gandhi e il suo contributo al percorso di liberazione dell’India dal giogo coloniale britannico contenga quella scena in cui appare un Gandhi “maestro”, un Gandhi che non rinuncia a dare un consiglio pratico ad un uomo profondamente turbato dalla violenza che lui stesso aveva compiuto…
Gandhi si è mosso quindi contemporaneamente da guida politica e da guida spirituale e morale. Questo aspetto è bene analizzato da G. Pontara nell’introduzione a Teoria e Pratica della Nonviolenza dello stesso Gandhi (un “classico” della letteratura nonviolenta). Gandhi – afferma Pontara – ha dimostrato che un etica, che noi occidentali riteniamo valida solamente nella regolazione dei rapporti interindividuali, può regolare anche i rapporti tra gruppi (3).
Accanto a questa “faccia” etica potremmo certamente individuare, una dimensione conoscitiva, scientifica della nonviolenza (4). Infatti, se è vero che la nonviolenza parte da alcuni assunti metafisici indimostrabili, è anche vero che Gandhi si è sforzato di studiare, con metodo direi “occidentale”, le conseguenze sociali che derivano da azioni ispirate alla nonviolenza. Lo stesso titolo originale di una delle sue principali opere “I miei esperimenti con la Verità” (infelicemente tradotto in Italiano dalla Newton Compton con “La mia vita per la libertà”) esprime lo sforzo che Gandhi operò nella direzione di una sorta di “sociologia nonviolenta”. Nella stessa direzione ha scritto Lanza del Vasto, analizzando le caratteristiche strutturali della società del secolo scorso (5).
Ma, proprio a partire da un testo di quest’autore, vorrei inoltrarmi ancora un po’ su questo terreno, avanzando un’ipotesi che certamente avrà bisogno di ulteriori approfondimenti: infatti, se la nonviolenza è in definitiva un atteggiamento esistenziale, se essa è, come affermava Capitini, “un modo di fare che deriva da un modo di essere” essa non potrà che dare forma agli stessi modi del conoscere, tanto che mi sembrerebbe corretto parlare di epistemologia o di sociologia nonviolente piuttosto che di epistemologia o sociologia della nonviolenza (6), non costituendo la nonviolenza un mero “fatto sociale” da comprendere, ma, appunto, una modalità di comprensione da cui deriva un azione per il cambiamento in vari contesti dell’attività umana.
…L’azione più efficace, la testimonianza più significativa a favore della nonviolenza e della verità, più che scendere in piazza, diffondere manifestini, parlare alle folle, andare di porta in porta, guidare marce e campagne, fare irruzione nelle fabbriche di armi, intraprendere digiuni pubblici, affrontare la polizia, subire le percosse e la prigione (tutte cose buone da fare quando è il momento, e che noi facciamo ben volentieri) è vivere […]
Dimostrare che una vita senza violenza e sopruso (sia la violenza nascosta che quella brutale, sia il sopruso legale e consentito che quello illegale), è possibile e, anzi, non è più difficile di una vita di guadagno, né meno piacevole di una vita di piacere, né meno naturale di una vita “ordinaria”.
Trovare in tutte le questioni che si presentano all’uomo d’oggi e di tutti i tempi, la risposta nonviolenta, di formularla chiaramente e sforzarsi di metterla in atto.
Esiste un’economia nonviolenta che non esiga alcuna pressione e non si presti ad alcun abuso?
Esiste un’educazione nonviolenta dei figli e un insegnamento della nonviolenza ai piccoli e ai grandi?
Un’autorità nonviolenta che non si basi sulla forza e non comporti alcun privilegio?
Una giustizia nonviolenta, una giustizia esente da punizioni esenti da violenza?
Un’agricoltura nonviolenta?
Una psichiatria nonviolenta?
Un regime alimentare nonviolento?
E anzitutto, ogni violenza – anche verbale, anche mentale, anche dissimulata e travestita – è eliminata dalla nostra vita religiosa? (7)
La nonviolenza tocca pertanto ambiti molto diversi dell’esperienza individuale e collettiva dell’uomo, da quello strettamente spirituale (le definizioni che abbiamo riportato possono essere a loro volta intese come metodi di ascesi (8)) a quello politico, da quello educativo a quello scientifico.
E’ difficile separare rigidamente questi ambiti tra loro per la natura stessa della nonviolenza che tende a riportare ad unità tutta l’esperienza umana. Da questo punto di vista penso che la nonviolenza non sia un “pensiero debole”; al contrario credo che essa, modulandosi nell’infinita varietà delle esperienze particolari, costituisca la strada maestra per l’evoluzione dell’intera comunità umana.
Prima di addentrarci nel cuore del tema che ci siamo proposti di approfondire, mi sembra importante richiamare l’attenzione su quegli elementi che caratterizzano la nonviolenza e che possono a mio parere costituire i temi-guida per tracciare un percorso di evoluzione del nostro specifico sistema sociale caratterizzato dalla presenza della mafia a vari livelli:
a. La visione gandhiana del mondo parte da una profonda fede nell’uomo e nelle relazioni tra gli uomini. Tali relazioni trascendono le stesse relazioni sociali. Ogni riflessione che voglia rifarsi alla nonviolenza – sia essa filosofica, sociologica o politica – non potrà prescindere da questo assunto (indimostrabile) dell’unità del genere umano.
b. Da questa visione dell’uomo deriva una particolare concezione del conflitto come opportunità di evoluzione. La gestione dei conflitti porta ad un rafforzamento e ad una maggiore consapevolezza dell’unità del genere umano. Per questa ragione, Gandhi affermava, che il conflitto è un dono.
c. La chiave della gestione nonviolenta dei conflitti è il richiamo alla coscienza (propria e dell’avversario): è quindi con un disciplinato lavoro su se stessi e sulle relazioni che è possibile lavorare per la riconciliazione e per l’unità.
d. In tale prospettiva va rilevata l’importanza e il valore della sofferenza e del dolore. Non nascondere la sofferenza derivante da un conflitto, prenderne consapevolezza e farne prendere ai propri avversari, diventano potenti strumenti di evoluzione personale e collettiva.
e. Riflettere e andare alla ricerca delle cause profonde dei conflitti è il secondo lavoro al quale ci conduce la nonviolenza. Ciò porta inevitabilmente alla scoperta della dimensione della co-responsabilità delle parti in conflitto: c’è sempre qualcosa nell’errore del mio avversario di cui io sono direttamente o indirettamente responsabile (9).
f. Nella nonviolenza, diversamente rispetto a tutta una tradizione di pensiero che può essere ricondotta emblematicamente a Machiavelli, etica individuale ed etica collettiva possano essere guidate dagli stessi principi. Anzi possiamo affermare che la nonviolenza manifesta la sua carica dirompente sull’intero sistema sociale a condizione che essa agisca nei conflitti microsociali e nella coscienza dei singoli.
g. Le obiezioni di coscienza individuali a una legge, a un comando ritenuto ingiusto, a un’abitudine sedimentata culturalmente, possono diventare, in questa prospettiva, un’occasione per far prendere consapevolezza di un problema non riconosciuto dall’intera comunità sociale.
h. Ugualmente pratiche sociali di tipo comunitario, dove possano convivere persone prima considerate nemiche, o comunque sperimentate come luoghi di ricerca di una volontà comune, rappresentano la realizzazione politica concreta su cui Gandhi, Capitini e Lanza del Vasto impegnarono buona parte delle loro esistenze.
i. La nonviolenza non è quindi solamente gestione e risoluzione dei conflitti ma costruzione di alternative possibili. Basti pensare al “programma costruttivo” a cui Gandhi ha dedicato buona parte della sua elaborazione e della sua esperienza.
Questi temi costituiranno lo sfondo entro cui svilupperò il mio approfondimento.
3. Mafia e “sistema sociale mafioso”
…Un’altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi. E perciò sono molto più familiari e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli attori come le vittime: così grandi edifici e torri, costruiti dagli uomini con le loro mani, s’innalzano sopra di noi, ci dominano, e possono crollarci addosso e seppellirci.
Etty Hillesum, Diario, 1941-1943
Ritornerò ancora sulla nonviolenza, ma penso sia giunto il momento di provare a dare una definizione dell’altro termine “forte” del nostro tema, ossia del termine “mafia”.
Per circoscrive concettualmente questo fenomeno sociale complesso, mi è sembrato utile partire dalla definizione data da U. Santino:
Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale (10).
Questa definizione del termine mafia, sulla quale torneremo tra breve, ci consente di proseguire nella nostra riflessione puntando l’attenzione su tre elementi peculiari dell’azione nonviolenta e della comprensione sociologica: la relazione di interdipendenza tra le parti, l’acquisizione e la gestione del potere, la formazione del consenso sociale.
Per procedere in questa parte della ricerca ci sono utili alcune ormai famose riflessioni elaborate da Giovanni Falcone nel libro-intervista, scritto con M. Padovani (11) un anno prima di essere ucciso.
La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione (12).
Alla luce di quanto sostenuto da Falcone, la definizione di Santino può costituire la base per ridefinire in termini più decisamente sistemici il fenomeno che stiamo affrontando.
Le finalità e le caratteristiche del sistema così configurato rimandano a funzioni proprie dello stato (uso della violenza, potere). D’altra parte pervasività del codice culturale (e la sua familiarità con la cultura meridionale) e la non ridotta dimensione del consenso sulla popolazione, fanno sì che le organizzazioni mafiose conformino l’intera società meridionale.
In termini di “teoria dei sistemi” (13), tale società può certamente essere rappresentata e studiata quale sistema sociale strutturato nei tre “classici” sottosistemi: socio-culturale, politico ed economico. Ma la presenza delle organizzazioni criminali mafiose e delle loro pretese di egemonia organizzativa, economica e culturale connotano in maniera singolare tale sistema sociale, al punto che esso può essere definito sistema sociale mafioso.
E’ a tale categoria sociologica che faremo riferimento nel prosieguo del nostro discorso.
Fuori dal lessico sociologico, si tratta in ogni caso di sostituire la rappresentazione della mafia come cancro in un corpo sano con quella della mafia come modello diffuso di relazioni tra le parti della società di cui facciamo parte.
L ‘adozione di un tale modello non significherà certo negare l’esistenza di potenzialità positive all’interno di questa società, ma semplicemente adottare un modello che meglio si addice alle dimensioni e alla complessità che il fenomeno mafioso ha assunto nel nostro contesto.
Anche la nonviolenza, d’altra parte, rifiuta, come abbiamo visto, di concepire la realtà come un insieme di parti separate, e, per quanto essa si riferisca, al conflitto, come ambito centrale delle sue riflessioni e delle sue azioni, fa dell’unità del genere umano l’assunto metafisico non accessibile a qualsivoglia falsificazione. Da qui la necessità, direi ontologica, di superare ogni negatività con un impegno consapevole di tutte le parti del sistema in cui il problema sorge, a partire, naturalmente, da quella che per prima percepisce il conflitto.
Avendo quindi come riferimento il “sistema sociale” e non la “mafia” o le “organizzazioni mafiose” sarà più facile adottare una ricerca e una prassi che superino l’approccio repressivo orientato alla soppressione, ma anche quello preventivo, orientato ad evitare che qualcosa avvenga, a favore di un nuovo modo di vedere e di agire che chiamerei trasformativi, orientato cioè a superare una condizione nella quale tutti siamo inseriti, impegnato a far evolvere un sistema del quale tutti facciamo parte.
Lo studio che più decisamente ha fatto ricorso al concetto di sistema nello studio della mafia è certamente quello di F. Armao (14). La mafia, secondo questo autore si accredita “come una delle forme della modernità”, e ciò “per la sua particolare capacità di conciliare (meglio di quanto non si stia rivelando in grado di fare il vecchio stato) tendenze apparentemente in contraddizione tra loro quali la riscoperta, da un lato, della territorialità, persino nelle sue forme estreme di rivalutazione dell’appartenenza etnica, e la rivendicazione enfatica dall’altro, dei vantaggi del processo (peraltro ritenuto inarrestabile) di globalizzazione dei mercati” (15).
In una prospettiva sistemica – e quindi deduttiva e non più induttiva, ma non per questo totalmente astratta: la realtà empirica rimane il contesto elettivo per la ricerca dei dati che confermano o smentiscano le ipotesi avanzate – le mafie certamente rispondono a un criterio di organizzazione gerarchica, che pure al tempo stesso, lascia loro ampi margini di adattabilità. Come in una sorte di rete neuronale, le connessioni tra i singoli individui possono produrre aggregazioni a diversi livelli e con gradi differenti di centralizzazione. Saranno le esigenze funzionali del sistema mafioso stesso, insieme agli input provenienti dall’ambiente circostante, a determinare la cristallizzazione di una certa struttura a un dato momento. […] Sostenere infatti che la mafia è un sistema vuol dire, in primo luogo, riconoscerne appunto la natura intrinsecamente complessa […] Significa rintracciare a fianco dei clan una vera e propria comunità mafiosa di sostegno. In quanto sistema, in secondo luogo la mafia interagirà con un ambiente che, procedendo da un centro immaginario di produzione di impulsi che si propagano a sfere sempre più esterne per ritornare poi alla fonte sotto forma di feedback, comprenderà il territorio di insediamento dell’organizzazione, più in là lo stato, infine persino il sistema internazionale, ciascuno con le proprie strutture concrete di gestione delle risorse politiche, economiche, sociali (16).
Condivido questa modalità di lettura del fenomeno mafioso, anche se esso necessita, a mio avviso, di un ulteriore avanzamento interpretativo nel rapporto tra “sistema mafia” e “sistema sociale”, quest’ultimo inteso quale modello di lettura delle società occidentali.
In termini di teoria dei sistemi ritengo vada esplicitata la scelta tra:
– una rappresentazione in cui la mafia è il sistema centrale e il sistema sociale, nelle sua tipica strutturazione in tre sottosistemi (culturale, politico ed economico), rappresenta l’ ambiente o una parte dell’ambiente;
– una rappresentazione di un particolare sistema sociale.
Come ho argomentato precedentemente ritengo maggiormente esplicativo il secondo tipo di rappresentazione (17).
Al centro del modello si trova l’organizzazione Cosa Nostra (18), attorno alla quale si trovano quattro aree di contiguità, tre delle quali sono veri e propri sotto-sistemi sociali e una quarta (quella della contiguità affettiva) fa da tramite e dà forza alle relazioni di interscambio tra organizzazione mafiosa e sottosistema culturale. Essa veicola il consenso più forte a Cosa Nostra. L’ambiente diffuso con il quale interagisce tale sistema ha due sistemi più definiti e sui quali il sistema mafioso ha elaborato delle specificità funzionali di interscambio (operando quella che in teoria dei sistemi viene definita “riduzione di complessità): il territorio e l’economia globalizzata. Tali relazioni non avvengono in maniera diretta ma sempre per il tramite totale o parziale dei sottosistemi societari. Così il dominio del territorio fa riferimento alla sua suddivisione amministrativa, ai suoi luoghi di decisione politica ecc. I rapporti con il mondo dell’economia transita attraverso i luoghi “legali” dei mercati e della finanza.
Il modello rappresentato rende a mio avviso maggiormente comprensibile l’ipotesi concettuale, avanzata peraltro dallo stesso Armao, di mafia come “fenomeno non residuale”.
Il successo della mafia non nasce da una evoluzione tutta interna alla storia delle organizzazioni mafiose (dove a mio avviso la concezione del mondo resta culturalmente arcaica), ma sfruttando la differenziazione sistemica collaudata dal sistema stato-mondo che a sua volta deve fronteggiare varie tendenze di crisi (19).
Il “sistema sociale mafioso” è quindi, in qualche misura, il prodotto di una fusione tra due sistemi in crisi di sopravvivenza; fusione non indolore e ancora non definitivamente compiuta.
Penso che tutti noi abbiamo piena consapevolezza del fatto che Cosa Nostra abbia in alcune fasi della nostra storia recente occupato il “centro” del sistema sociale.
Il deficit rappresentativo non è quindi questa volta da ricercare nella pretesa centralità dell’organizzazione mafiosa quanto nella gerarchia funzionale attribuita ai sottosistemi sociali.
Non esiste infatti un “centro assoluto” del sistema sociale.
La centralità va determinata in relazione alla rilevanza attribuita dal ricercatore alla funzione assolta da ciascuna parte del sistema.
Nella nostra prospettiva dobbiamo definire la centralità in base alle sue potenzialità trasformative.
A mio avviso, generalmente, si dà troppo per scontato che il sottosistema che ha il “timone” del cambiamento sociale sia il sottosistema politico-amministrativo (20).
Ciò può portare a trascurare il fatto che il luogo principe della “riproduzione sociale” è il sotto-sistema culturale.
Un autore che ha sempre interpretato la mafia come una forma particolare della modernizzazione della nostra società é P. Fantozzi. Egli, che tra l’altro ha fatto parte del gruppo di studio che ha approfondito i possibili rapporti tra nonviolenza e lotta alla mafia (21), sostiene che nella società meridionale il problema della legittimazione entra paradossalmente in rapporto con le forme di illegalità a causa della diffusione di una determinata relazione sociale che è la clientela. Clientela e pratiche formalmente universalistiche di welfare hanno in comune la manipolazione del principio di legalità. Il perseguimento di un proprio interesse particolare attraverso la concessione di “favori” viene esercitato con il ricorso a pratiche formalmente legali. Il non rispetto del “merito” delle leggi, quand’anche esso sia sempre di tipo universalistico (ma questo è un problema abbastanza recente che complica ulteriormente il nostro quadro di riferimento), non genera la consapevolezza di essere attori di un’azione illegale.
Secondo quest’autore questa forma di illegalità o legalità manipolata è diventata cultura, cioè fondamento della legittimazione interna. E l’ agire mafioso, che pure si differenzia dal rapporto clientelare per un più esplicito distanziamento dalla legalità, ha una serie di elementi in comune con il rapporto clientelare: il senso soggettivo che motiva i due tipi di azione ha lo stesso fondamento: privilegi o speranze di privilegi. C’è quindi una continuità e una “familiarità” tra agire clientelare e agire mafioso.
L’agire mafioso caratterizzato dall ‘uso della violenza è l’unica strada che sembra essere stata lasciata alle fasce più marginali, che plagiate sui temi individualistici del consumismo e del potere, non sono riuscite a sperimentare altre modalità di presenza ed autoaffermazione sociale, se non quelle delle attività criminali proposte dalle organizzazioni mafiose.
Ecco perché non deve sfuggire l’importanza della dimensione culturale del problema mafia ed il rischio dell’inefficacia di una delega allo Stato:
Nella difesa dei territori nelle zone di marginalità abbiamo assistito sicuramente a un peggioramento. E più deleghiamo tutto allo Stato o a denunce generiche a livello della globalizzazione economica, più ci allontaniamo dalla radice del fenomeno e ci riduciamo le possibilità di azione. E’ quello che fanno anche le grandi organizzazioni internazionali: studi documentatissimi, che ci dicono tutto su produzione e commercio di droga, ma che lasciano impotenti perché privi di efficacia reale. Così si fa una guerra di denuncia che va bene a tutti, tanto non tocca nessuno: una guerra di opinione, ma non riconquistiamo il territorio. E invece noi possiamo andare alla radice, lottare nel punto nevralgico che è quello del radicamento territoriale, dove tutto diventa anche più violento. L’esercizio della violenza, sistematico, organizzato avviene nei territori locali, concreti, quotidiani. Questo vorrà pur dire qualcosa, no? […] Si tratta di costruire opportunità di riconquista del territorio, di offrire opportunità diverse di vita alla gente. Anche recuperando le persone. Nel lavoro che facciamo da anni con le famiglie e i ragazzi del centro storico di Cosenza ho notato a un cero punto che molti minori venivano arrestati per avere commesso rapine a volto scoperto. E mi domandavo perché i capi li mandassero in questo modo, senza protezione Poi ho capito che è una modalità di acquisizione di nuove forze criminali: costringere i ragazzi a fare reati, farli arrestare e far sì che quel marchio iniziale sia l’avvio di un cammino in cui restano incastrati nella scelta delinquenziale. …(22)
Assumendo quindi la centralità del sistema di socializzazione, potremmo forse scegliere un terzo modello, in cui il punto cruciale per il mantenimento dell’egemonia mafiosa non è tanto il sottosistema politico (spesso molto ben disposto alla collusione e alla contiguità) quanto il sottosistema socio-culturale deputato alla funzione di socializzazione.
Su questo terreno Cosa Nostra è stata sfidata poche volte e non ha esitato, percependo ovviamente la posta in gioco, a manifestare la sua determinazione assassina: ne sono esempio gli omicidi di Peppino Impastato e di Don Pino Puglisi.
E’ quindi solo a partire da un modello generale di lettura della società che possiamo utilmente riflettere sull’insieme della fenomenologia mafiosa ivi compresa la possibile evoluzione della sua parte organizzata.
Recentemente lo stato di salute di Cosa Nostra e delle sue conseguenti capacità pervasive nel sistema sociale sono state oggetto di un dibattito tra alcuni ricercatori (23). In estrema sintesi, le tesi sostenute con varie argomentazioni e dati di ricerca, possono forse essere sintetizzate in tre grandi aree:
l’attuale fase di “insabbiamento” di Cosa Nostra non corrisponde ad un suo indebolimento ma ad una nuova strategia (in questo caso, mantenendo il nostro schema ciò potrebbe significare che la mafia continui ad occupare ancora una collocazione centrale nel sistema sociale).
“Cosa Nostra” è in una reale fase di difficoltà, che può preludere ad un suo esaurimento, in quanto essa non ha strumenti e know-how sufficienti per competere nel nuovo contesto dell’economia globale;
esiste oggi una sorta di sdoppiamento tra una mafia “vecchia” e una mafia “nuova” con cultura, influenze, mercati e padrini politici differenziati.
Tenendo conto delle riflessioni sviluppate all’inizio di questo capitolo dobbiamo rilevare un limite nell’impostazione stessa di questo dibattito. Infatti non è detto che l’evoluzione delle organizzazioni mafiose in quanto organizzazioni criminali, che ha certamente una forte rilevanza sul piano investigativo-giudiziario, rivesta la stessa centralità sul piano della conoscenza finalizzata al cambiamento del nostro particolare sistema sociale.
Cosa Nostra, d’altra parte pur essendo una realtà sociale certamente esistente, è sempre stata difficilmente configurabile dal punto di vista scientifico. Si tratta infatti di una organizzazione segreta, non osservabile direttamente. Posto che essa, come tutti i fenomeni sociali ha una sua evoluzione, la sua definizione scientifica, sarà sempre storicamente ritardata rispetto al dato contemporaneo. Viceversa studiare e intervenire oltre che su Cosa Nostra anche sulle aree di contiguità che, come sottosistemi sociali interagiscono e in certa misura generano e sostengono le altre parti del sistema generale (ivi comprese quelle che governano il sistema stesso), oltre a poterci consegnare elementi utili alla definizione del fenomeno organizzativo in senso stretto, ci consentono di individuare le “postazioni” per intraprendere delle prassi trasformative.
Paradossalmente, inseguire (ribadiamo, dal punto di vista scientifico e sociale non certo da quello giudiziario!) l’evoluzione interna di Cosa Nostra e delle altre organizzazioni criminali mafiose fino alla loro eventuale dissoluzione (cosa che per alcuni aspetti culturali interni, peraltro, è già avvenuta) potrebbe non preludere alla fine del sistema sociale mafioso.
Cito ancora G. Falcone:
“E’ necessario distruggere il mito della presunta nuova mafia, o meglio, dobbiamo convincerci che c’è sempre una nuova mafia pronta a soppiantare quella vecchia.” (24)
Tutto ciò deve incoraggiarci ad adottare costantemente quest’ottica di sistema.
Cosa Nostra e le altre organizzazioni mafiose sono infatti soltanto la parte storicamente organizzata di un sistema che inevitabilmente ci ha compreso e ci comprende. Tale sistema sociale, analizzato da altri angoli visuali (es. gli imprenditori taglieggiati, le bande giovanili di un quartiere urbano a rischio, i processi di socializzazione primaria, le culture familiari, il progressivo spostamento dell’influenza mafiosa nell’economia legale ecc.) non sembra avere mutato alcune sue caratteristiche essenziali.
Certo, l’adozione del concetto di sistema sociale con al centro l’organizzazione “Cosa Nostra” induce una critica ricorrente che si può sintetizzare in frasi del tipo Non è vero! La Sicilia (o il Meridione) non è solo mafia!
La risposta che vorrei dare a questa obiezione, che può peraltro essere condivisa, è che essere parte di un sistema – che sempre resta una semplificazione per la comprensione della realtà – non comporta necessariamente un’adesione manifesta e totalmente consapevole ad esso.
Da un punto vista morale, d’altra parte, non è l’appartenenza ad un sistema e alle sue regole diffuse che connota i suoi attori. Lo è semmai il ruolo che essi svolgono consapevolmente per la sua evoluzione o per la sua conservazione.
4. Sistema mafioso e ruolo del ricercatore
Da donna, seppur contraddittoriamente, credo ancora nell’utopia. L’attenzione, potrei dire la speranza, si è spostata dalla società, dal collettivo, all’individuo, alla singola donna, al singolo uomo. Cerco di pormi l’inquietante domanda: che cosa accade “dentro” i soggetti? Qual è il rapporto con la vita e con la morte e con l’evento di dare la morte a un’altra persona. E ancora, che cosa pensano, che cosa sentono quotidianamente, in tutto ciò che fanno, individui che sono abituati a uccidere per denaro, con freddezza, come se si trattasse di un lavoro qualsiasi ?
Renate Siebert, 1994
La riflessione che abbiamo fin qui condotto apre un’altra questione, ancora di ordine epistemologico che è quella del rapporto tra chi conosce e chi è conosciuto, tra soggetto e oggetto della conoscenza alla quale vorrei accennare brevemente.
Della mafia infatti abbiamo tante volte studiato, letto, conversato tra amici. Tutti noi abbiamo in varie forme cercato di combatterla. Spesso ci siamo appassionati intellettualmente ad ipotizzare cause storiche, a disegnare tipologie psicologiche della comunicazione e del comportamento mafioso, a studiare il sottosviluppo economico, il traffico illegale di droga, il nesso mafia-politica…
Lo abbiamo sempre fatto – e questo ci è apparso naturale, oltre che legittimo e doveroso – schierandoci da una parte: dal punto di vista cioè di coloro che si interrogano su come contrastare e sconfiggere un male, una organizzazione criminale che uccide, smercia droga, si fa strada con violenze e crudeltà inaudite.
Quasi tutte le analisi fin qui svolte e i modelli che da esse se ne possono dedurre non sfuggono quindi ad uno schema conoscitivo in cui osservatore e fenomeno osservato sono posti su piani nettamente separati: noi (cittadini impegnati, studiosi, intellettuali, politici, preti, insegnanti) e loro (“cosa nostra”, la “cultura mafiosa”, le “donne della mafia”, i mafiosi…).
Ma è proprio la scelta di campo nonviolenta che abbiamo fatto all’inizio del nostro discorso che ci porta a ricercare un metodo scientifico che preveda che il soggetto che conosce faccia parte di un sistema che comprende l’oggetto-soggetto da conoscere.
Come ricercatori dovremo quindi cercare di collocarci in una postazione interna cercando di specificare le azioni individuali e collettive che possono contribuire all’evoluzione del sistema stesso.
Va qui ricordata un’altra felice intuizione di Falcone:
Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. Non ucciderebbero padre e madre per qualche grammo di eroina. Sono uomini come noi. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dal nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia (25).
Adottato un approccio sistemico è infatti importante osservare e tenere ben presente i modelli che gli altri soggetti che noi includiamo nel sistema così costruito, adottano (consapevolmente, ma più spesso inconsapevolmente).
In questo caso forse sarà più corretto parlare di “rappresentazioni sociali” o di weltanschauung (immagini del mondo). Sarà interessante verificare quanto il modello adottato dal ricercatore differisca da quello adottato per esempio (implicitamente) dagli abitanti di un paese o di un quartiere metropolitano o dal familiare di una vittima di mafia.
Infine si dovrà verificare se il modello è ritenuto (dal ricercatore e dagli altri soggetti del sistema) oltre che utile a rappresentare la realtà esistente, anche desiderabile, giusto; se quindi lo si adotta come un modello statico (in quanto è statica la realtà) o un modello dinamico, dal momento che la realtà si va modificando nel tempo (e anche in conseguenza delle nostre azioni).
Si può infatti non essere appartenenti a Cosa Nostra e tuttavia svolgere, ruoli insostituibili per la sopravvivenza del sistema mafioso. Si può credere inoltre, in buona fede, di essere su posizioni contrarie alla mafia, e sostenerla con comportamenti apparentemente estranei ad essa. Ed infine, tragicamente, si può ritenere che il sistema mafioso sia l’unica e immutabile realtà in cui si gioca la nostra esistenza. E quando ci riferiamo a questa rappresentazione non dobbiamo pensare soltanto a persone culturalmente deprivate, ma a quanti più o meno ingenuamente pensano che “con la mafia bisogna convivere”.
5. Come può evolvere il nostro sistema sociale?
Il mondo sociale è oggettivo perché si presenta all’uomo come qualcosa di esterno a lui. La questione decisiva è se egli conservi o no la consapevolezza del fatto che, per quanto oggettivato, il mondo è opera sua e può quindi essere modificato da lui.
Berger e Luckmann, 1967
Il sistema sociale mafioso non è la realtà. Esso tuttavia può diventare la nostra realtà, nella misura in cui la maggior parte delle sue componenti lo adotta come lettura del mondo.
Ecco perché il consenso è, assieme al governo del sistema, una dimensione centrale del nostro quadro teorico di riferimento.
Il consenso sociale a un sistema, infatti, è anche che l’indicatore concreto dell’adesione più o meno consapevole a una lettura del mondo.
Ma, sotto un altro angolo visuale, ciò che rende dinamico un sistema, ciò che realmente ne può minare le fondamenta è la coscienza che i suoi componenti hanno delle potenzialità di cambiamento, del fatto che un altro sistema può esistere.
Questo è un punto cruciale per tutta la nostra riflessione. Lo è anche per il fatto che ci troviamo in una zona di confine tra sfere diverse del sapere e dell’esistenza: sociologia, psicologia, scienze dell’educazione, etica, spiritualità. Ma per andare avanti, per evolvere e non pensare pensieri già pensati… dobbiamo attraversare, sconfinare… ripromettendoci di rintracciare successivamente qualche sentiero più familiare.
Semplificando al massimo una questione di grandissimo spessore, penso che la domanda che tutti dobbiamo porci onestamente, anche da un punto di vista scientifico è la seguente: può una cultura (o una sottocultura) trasmettersi fino al punto da plagiare gli individui, fino al punto da renderli incapaci di pensare che la cultura stessa possa essere modificata?
Una risposta affermativa a questa domanda è gravida di importantissime conseguenze sia sul piano scientifico che sul piano della prassi per le azioni tendenti a superare il sistema mafioso.
Provo ad elencarne qualcuna:
1. Essere incapaci di pensare una realtà (per noi già esistente o desiderabile) significa essere incapaci di porre in essere comportamenti conseguenti.
2. Ma essere incapaci di pensare una realtà non significa tuttavia che non si possa passare da uno stato di incapacità ad uno di capacità.
3. Le scienze umane in genere ci hanno abituato a leggere i comportamenti e la storia dell’uomo insieme come condizionati e condizionanti; sia il mondo interno che il mondo esterno all’individuo influenzano il suo comportamento; studiare quindi il comportamento umano con metodo scientifico significa riconoscerne, almeno in parte il carattere condizionato
4. Ma svelare la natura di questi vari condizionamenti, comprenderne almeno in parte il funzionamento, può favorire processi di liberazione, capaci cioè di fare acquisire nuove capacità di pensiero (o capacità di nuovi pensieri) uscendo da quella visione statica e gattopardesca della realtà nella quale ci siamo sentiti tante volte ingabbiati.
5. In questa prospettiva le scienze umane potrebbero accompagnare l’evoluzione dell’uomo, come singolo e come società, in un processo a spirale infinito dove l’acquisizione di consapevolezza di una schiavitù ci porta ad avere elementi per scoprirne di nuove, in un cammino verso quella “realtà liberata” di cui parlava A. Capitini.
6. Dal punto di vista nonviolento, per il quale, come abbiamo visto, è fondamentale indirizzarsi alla coscienza del singolo, è d’altra parte fondamentale lavorare per ridurre tutti i possibili fattori che assopiscono questo potenziale umano. Ogni scienza che si propone questo fine può dirsi nonviolenta.
7. Possiamo quindi pensare ad una pedagogia nonviolenta. Il che è quasi una tautologia, dal momento che Gandhi affermava che la nonviolenza è educazione. Una pedagogia nonviolenta deve pertanto interrogarsi su come toccare la coscienza del nostro prossimo. Ci accorgeremo presto che il problema è comunicare, far sì che il messaggio di chi percepisce un limite raggiunga l’altro, in qualche misura lo arricchisca (tocchi tutto il suo essere) consentendogli, a sua volta, di comunicare qualcosa in grado di arricchire l’umanità. Ma è solo a partire dalla intelligibilità dei contenuti – che inevitabilmente si richiamano ad una visione del mondo che li rende plausibili – che si può avere vera comunicazione e non mera trasmissione di messaggi, come ci ha insegnato Danilo Dolci. Detto in altri termini, non è assolutamente scontato che una proposta diventi intelligibile a misura della chiarezza della sua formulazione logica.
8. Ora, nel nostro caso particolare, se l’altro appartiene ad una organizzazione mafiosa o ne assume la struttura di pensiero, di fatto adotta come codice generale di plausibilità un immagine del mondo, che come abbiamo visto non concepisce un sistema sociale diverso dal sistema sociale mafioso.
Per affrontare questo problema, un gruppo di psicologi , da alcuni anni ha individuato, come particolare oggetto di studio, le modalità di pensiero nei contesti di mafia.
I. Fiore (27) ha sistematizzato in un testo organico queste riflessioni. Egli parte da una particolare definizione della fenomenologia mafiosa da lui definita come “la manifestazione di processi mentali i quali si rendono visibili sotto forma di comportamenti che hanno conseguenze sociali, politiche, economiche, ecc. ” (28)
La scuola gruppo-analitica ha rielaborato il concetto di cultura in quello di “transpersonale”; questo concetto comprende i dati culturali della famiglia, dell’etnia, della specie umana nella sua interezza.
Esso è però, in termini teorico-clinici, una “forza intenzionante”, ossia l’origine che motiva e dà forza al comportamento umano.
Non bisogna tuttavia pensare, affermano questi psicologi, che il “dato” transpersonale non sia modificabile: normalmente esso è continuamente sottoposto ad interpretazione e re-interpretazione da parte dell’individuo, della famiglia e dei gruppi sociali più allargati.
Questa azione di re-interpretazione e arricchimento del dato transpersonale è definita “simbolo-poietica” e può essere limitata o inibita dalla qualità del pensiero familiare.
La famiglia riveste in questa scuola di pensiero un ruolo centrale in quanto è il luogo dove di norma avviene il passaggio delle informazioni dall’esterno sovraindividuale all’interno individuale.
Secondo la ricerca di Fiore la famiglia mafiosa si fa trasmettitore di un particolare modo di pensare, che viene definito “pensare mafioso”, derivante con tutta probabilità da alcuni “dati” della cultura siciliana, in particolare dal sentimento dell’attesa ” e dalla “insicurezza” che hanno pesato e pesano nella storia della Sicilia.
Il “pensare mafioso” origina quindi dal tema dell’insicurezza. Questo dato viene trasmesso in modo così pervasivo da generare nell’individuo un inconscio bisogno di rassicurazione, rassicurazione che viene ricercata nella famiglia e in quelle organizzazioni che inconsciamente sono create o ricondotte a svolgere la funzione di appagamento di questo bisogno. Il pensare mafioso attribuisce quindi all’istituzione familiare il significato di solo “noi” possibile e pertanto, per evitare il disagio di relazionarsi con un noi sconosciuto che non ha lo stesso significato rassicurante del “noi” familiare si è portati a cercare o creare strutture organizzative che assomigliano a quella familiare.
E la cultura organizzativa di “Cosa Nostra” risponde (o può rispondere anche) a un bisogno di questo tipo.
Fin qui in sintesi un approccio psicologico al tema della mafia.
Il tema della famiglia come elemento della cultura meridionale che svolge un ruolo protettivo, ma nello stesso tempo frenante lo sviluppo di società non è un tema nuovo nelle scienze sociali, basti pensare al cosiddetto “familismo amorale” di Banfield (29).
Gli psicologi gruppoanalisti hanno il merito di aver tentano una lettura dei processi mentali correlati a fenomeni già studiati con concetti e categorie di tipo socio-antropologico.
Le loro riflessioni evidenziano efficacemente la complessità del fenomeno e mettono in luce le difficoltà legate alla comunicazione interna al sistema sociale mafioso. Tutto ciò può aiutare a capire se e come è possibile rintracciare, in questa situazione l’uomo e la sua coscienza.
6. Orientamenti per la ricerca
Come penso sia a questo punto abbastanza chiaro, personalmente non credo all’ approccio “culturalista”, più di quanto non creda a quello “economicista” o a quello “criminologico”, nella misura in cui essi si propongono in maniera univoca e reciprocamente escludente.
Da tale rischio, peraltro non sono immuni né l’approccio psicologico, né, paradossalmente, l’approccio sociologico-sistemico.
Lo spazio che ho dedicato al contributo di queste scienze non deve tuttavia far pensare ad una presunta “affinità elettiva” tra psicologia e nonviolenza. Esso deriva da due ordini di considerazioni:
In primo luogo c’è da dire che, se riteniamo che l’attività pensante possa essere oggetto di studio scientifico (e io penso che lo possa essere, almeno in certa misura) e che, nell’ambito delle scienze umane e dell’ attuale loro organizzazione, il “pensiero” e la sua strutturazione, sono studiati dalle discipline psicologiche, dobbiamo non solo accogliere con pari dignità, ma suggerire e stimolare le varie scuole di questa disciplina allo studio della fenomenologia mafiosa (30).
La seconda motivazione risiede nel fatto di aver riscontrato un ritardo e una emarginazione di questo approccio rispetto agli altri storicamente più accreditati nello studio della mafia. Fino a qualche anno questo ritardo era in parte giustificato dalla difficoltà di accesso al vissuto degli appartenenti alle organizzazioni mafiose. Viceversa oggi abbiamo una grossa opportunità, dal momento che questo muro è stato abbattuto con il fenomeno del pentitismo. Vero è che nell’universo di questo fenomeno forte si presenta il rischio della manipolazione, ma non deve assolutamente sfuggire la grande occasione che si è aperta alla ricerca e un po’ a tutti noi (non solo ai ricercatori o ai magistrati dal momento che i pentiti e le loro famiglie sono centinaia e vivono un po’ in tutt’Italia).
Ed è proprio a partire dall’impostazione nonviolenta che abbiamo cercato di approfondire all’inizio che è importante dar voce a tutte le metodologie che sfidano la separatezza del mondo criminale dal nostro mondo, che si pongono nella sfera dell’intendere e dell’intendersi, della comprensione oltre che della spiegazione: non è un caso il fatto che alcuni magistrati abbiano iniziato a collaborare con alcuni psicologi (31) e che un sociologo, con la collaborazione di alcuni magistrati, abbia potuto raccogliere, tramite interviste svoltesi nell’arco di due anni, la storia di vita di Antonio Saia, personaggio di spicco del “clan dei Catanesi”, attualmente detenuto (32).
Ho parlato, sopra, di come troppo rapidamente si siano delegate al sistema politico-amministrativo funzioni di cambiamento/riproduzione sociale che debordano il suo ruolo che attiene più specificamente al governo e al controllo. Oggi tuttavia molti apparati istituzionali vengono sempre più sollecitati per l’assunzione di funzioni non tradizionalmente loro assegnate. Basti pensare al ruolo della magistratura, che in una sorta di deleghe a imbuto resta il soggetto istituzionale più investito di responsabilità e non solo per quanto riguarda la questione mafia. Ma sotto questo aspetto particolare, in relazione alla cosiddetta “legislazione premiale, “il lavoro giudiziario, già difficile nel campo del sistema penale, si complica sempre di più perché impegna a riscontri delicati di prove materiali, ma obbliga nello stesso tempo quasi inconsapevolmente a giudizi che investono non le azioni, ma la personalità e l’identità del reo” (33).
Anche queste sono zone di confine.
Azione istituzionale, conoscenza, etica, prassi per il cambiamento sociale sono ambiti che in questo momento non possono ignorarsi a vicenda.
In ambito scientifico bisognerà prima o poi convincersi che gli steccati disciplinari, sono steccati transitori e lo sono tanto più per le discipline a cui è richiesto un ruolo attivo nella gestione dei problemi sociali.
Da U. Santino raccolgo quindi l’invito alla adozione di un paradigma della complessità (34), che per la verità io derivo – nell’ambito della mia tradizione disciplinare – dal sociologo francese E. Morin (35). A tale autore si deve un contributo epistemologico molto ambizioso, molto più che un “approccio interdisciplinare”. Ciò che lo caratterizza è l’intento di concepire tutti gli “oggetti” anche quelli del mondo fisico nella loro relazione con un soggetto conoscente, a sua volta radicato in una cultura, una società una storia. Tale approccio è a mio avviso una vera e propria rivoluzione scientifica nel campo delle scienze sociali, in quanto segna un decisivo distacco dal paradigma della casualità lineare e della differenziazione soggetto-oggetto, proprio degli schemi della scienza classica.
Un impianto di questo tipo dovrebbe condurre non tanto nella ricerca di uno schema onnicomprensivo, ma all’adozione contemporanea di più paradigmi che ci faranno avvicinare alla realtà come a un prisma a più facce, che necessita di più angoli visuali di comprensione.
E’ vero che, per molto tempo, del fenomeno mafioso si è parlato a ruota libera, senza esplicitare preventivamente il tipo di “occhiali” usati per osservarlo.
Ciò ha portato da una parte ad un’insofferenza degli specialisti per gli approcci generici. Tale atteggiamento diventa a sua volta più intollerabile della genericità e del pressappochismo stessi, come se per parlare o scrivere di mafia fosse necessario un patentino di scientificità (che non si capisce poi chi dovrebbe rilasciare). Chi adotta un metro “scientifico” ha un senso di superiorità nei confronti del “senso comune”, come se esso stesso un senso che porta a conoscenza e non avesse una sua propria dignità.
Dall’altra si assiste ad invasioni indebite su terreni che, sol perché, diversi dal proprio, sono ritenuti “astratti” o privi di riferimenti ai dati empirici.
Personalmente ritengo che non esiste conoscenza che possa fare a meno di astrazione; la conoscenza scientifica non può fare a meno di collocarsi alternativamente ora su un contesto di convalida, ora su un contesto di scoperta. Collocarsi perennemente sul primo dei due piani non ci farà avanzare di un millimetro sul già dato e già pensato.
Quello che mi sembra comunque necessario per avanzare nel confronto interdisciplinare è esplicitare i propri riferimenti teorici di partenza. Se ci si muove in ambiti “non scientifici”o se tali ambiti costituiscono un riferimento contemporaneo a quello scientifico si espliciteranno anche valori, prospettive politiche, religiose, o altro.
Tutti i contributi hanno la loro dignità, in quanto relativi a tradizioni diverse dove esistono usi particolari di concetti e lessici specifici anche all’interno dello stesso “con-dominio”. A nessuno è fatto divieto di utilizzarli in modo totale o parziale, “importandoli” nell’ambito del proprio ambito di riferimento, ma per fare ciò si dovrà tenere nel debito conto il contesto in cui essi sono nati.
La conoscenza avanza per connessioni tra idee pensate da soggetti diversi che non ne possono determinare il percorso di sviluppo oltre la loro mente.
7. Orientamenti per i percorsi di superamento: quale evoluzione nonviolenta?
Si è detto (36) che la mafia interroga la nonviolenza in quanto essa configura un conflitto sociale in cui si ha di fronte un avversario che spara e che pertanto, su tale terreno si potrebbero sviluppare forme di “difesa popolare nonviolenta” (DPN) delineandosi, nelle società meridionali una “occupazione violenta di un territorio” che,secondo Ebert, è caratterizzata dal controllo fisico e delle strutture sociali (37).
Ma anche al di là della violenza fisica esercitata (a cui da un po’ di anni si ricorre meno) c’è certamente nel meridione un alto di livello di violenza latente che si manifesta sotto forma di minaccia e c’è certamente, come abbiamo avuto modo di analizzare, un alto livello di violenza strutturale. A differenza delle situazioni di conflitto a cui fa riferimento Ebert e buona parte della letteratura sulla DPN, dobbiamo a mio avviso ancora costruire un modello di intervento sociale complessivo nel meridione.
Ricerca della dimensione conflittuale dei problemi e costruzione di una alternativa praticabile in piccola scala (vedi il gandhiano “programma costruttivo”) sono due capisaldi del metodo nonviolento.
Per quanto riguarda il primo punto, dopo avere assunto, come lettura dell’esistente, il modello di sistema sociale mafioso, il primo passo da compiere è quindi quello di ricercare i conflitti latenti e manifesti dentro questo sistema, in quanto il conflitto, in un ottica nonviolenta, è il luogo principe in cui si matura, si evolve, si manifesta la natura positiva dell’uomo e della fondamentale unità del genere umano.
Per comprendere questa unitarietà e continuità, dice bene Galtung (38), dobbiamo cambiare lo schema mentale secondo il quale parliamo di “parti in conflitto” e che ci fa credere che esistano due parti quando in realtà ce n’è una sola. Dobbiamo pensare al conflitto come al disturbo di una relazione di un unico organismo.
La nostra ricerca deve ora consistere nell’ individuazione di sotto-campi su cui è pensabile impostare delle azioni nonviolente di risoluzione.
A tal fine ho individuato alcune situazioni conflittuali, che, al momento, sono da considerare una esemplificazione più che una ricerca analitica dei possibili campi di intervento:
L’estorsione (estorti/estorsori – tentativi di costruzione di nuova imprenditoria/dissuasioni da parte del raket e della burocrazia locale).
– I pentiti (pentiti/familiari – mafiosi pentiti/mafiosi non pentiti.
– La dissociazione di aree di “contiguità affettiva” (familiari di mafiosi / mafiosi/orga nizzazione mafiosa).
– Parenti di vittime di mafia / mafiosi /forze dello stato (39).
– Funzionari dello Stato (Funzionari onesti/funzionari collusi/politici mafiosi).
Le situazioni individuate, che ripeto, non sono certamente esaustive, non costituiscono, a prima vista, ambiti su cui fondare interventi sociali di vasto raggio, che abbiamo immediate conseguenze sul piano strutturale. Ciò può certamente derivare da un obiettivo limite di analisi e di prospettiva, così come dalla specificità dell’approccio nonviolento che ho fin qui cercato di delineare. Esso come ho fin qui sottolineato è un approccio che può dare un contributo notevole alla prassi di superamento del sistema mafioso, ma deve certamente intersecarsi con altri approcci e altre culture.
L’individuazione di ambiti conflittuali che coinvolgono la soggettività degli attori coinvolti riflette, d’altra parte un mio personale convincimento sulla forza dirompente che i processi di reale riconciliazione e di “conversione” possono assumere, anche sul piano sociale.
Lavorare su questi piani prepara inoltre il terreno per quella stagione storica, da tutti auspicata, in cui le organizzazioni mafiose non esisteranno più, o comunque non ci domineranno più come in questo momento. Bisogna pensare che in quel momento le persone che a vari livelli avevano condiviso i codici culturali mafiosi continueranno a far parte della nostra comunità sociale e il loro coinvolgimento attivo nella fase di ricostruzione sarà prezioso per un avanzamento reale senza rischi di involuzioni.
Volgendomi alla conclusione di questo saggio, vorrei dire che esso è in realtà un invito a riprendere un percorso di approfondimento, di studio, di sperimentazione sociale. C’è da dire che tale percorso aveva preso inizio alcuni anni fa: personalmente l’ho visto nascere prendendo parte a due convegni organizzati da Pax Christi, Edizioni La Meridiana e Osservatorio Meridionale (Mafia e nonviolenza – Castellammare di Stabia, 1992 e Non più complici, Molfetta, 1994) (40).
Ho visto progressivamente scemare l’attenzione su questa ricerca. Da allora, che a me risulti, nessuno ha più tentato di accostare la nonviolenza alle problematiche mafiose, almeno dal punto di vista teorico. Sul piano dell’impegno civile, alcuni dei soggetti che allora avevano iniziato tale riflessione si sono ben presto indirizzati verso l’approccio della “educazione alla legalità”, approccio che ritengo meno fecondo per alcuni limiti di fondo che accenno schematicamente, ripromettendomi di ritornare in futuro sull’argomento.
Nell’ottica della nonviolenza: l’educazione al rispetto delle leggi giuste e allo Stato va di pari passo con l’educazione alla obiezione agli Stati e alle leggi ritenute in coscienza ingiusti.
– Dal punto di vista antropologico e psicologico: il registro dell’educazione alla legalità appare inadeguato a raggiungere pedagogicamente i soggetti inseriti (con vari livelli di consenso) nel sistema mafioso.
Queste riflessioni suggeriscono allora alcune piste che andrebbero approfondite e sperimentate.
Mi chiedo:
– Nella pedagogia di superamento della cultura mafiosa è opportuno riferirsi alla legalità (che richiama alle leggi) o a valori come la giustizia, la solidarietà, l’onore, il dono, la stessa famiglia? Alcuni di questi valori sono propri della cultura meridionale e per troppo tempo sono stati considerati, con scarsi fondamenti scientifici, come determinanti della cultura mafiosa. Questi stessi valori potrebbero invece essere fondanti di una cultura alternativa? (41)
– E’ possibile pensare e sperimentare luoghi collettivi collocati tra la famiglia e lo Stato, per ricostruire delle identità individuali e di gruppo evitando quel salto forse troppo lungo tra il noi-famiglia e il noi-stato?
– E’ possibile pensare percorsi di fuoriuscita dalla cultura mafiosa che possano essere compresi e sperimentati dai soggetti coinvolti, percorsi che assumano senso nelle esperienze individuali, che tengano conto dei legami affettivi e relazionali intrinseci alla cultura acquisita nel processo di socializzazione? Percorsi che possano diventare esemplari anche per chi è ancora in posizione di adesione o di contiguità alla mafia? Che possano far toccare con mano la possibilità di una fuoriuscita che non sia una casa blindata, il cambio di nome, l’inserimento in un contesto totalmente diverso da quello di provenienza? Mi chiedo infine a tal proposito: se Rita Atria, oltre che Paolo Borsellino, avesse potuto contare sul sostegno, anche a distanza, di gruppo o di una comunità (qualcosa che più completamente potesse “somigliare” ad una famiglia) avrebbe deciso ugualmente di uccidersi?
Per ultimo, voglio solo enunciare tre grossi temi che meriterebbero ciascuno un approfondimento specifico:
– il ruolo dello Stato e soprattutto di chi lo rappresenta in vari ruoli (forze dell’ordine, magistratura, insegnanti, operatori penitenziari) Sono ruoli che possono essere agiti in uno spirito nonviolento?
– Il ruolo delle Chiese cristiane e delle comunità religiose in genere. Comunità, “luogo della festa e del perdono” come dice Jean Vanier, cioè luogo in cui si perdona e si fa festa per ogni conversione.
– Il ruolo della Società Civile. La società civile ha giocato e gioca un ruolo importantissimo, ma grandi anche qui sono i rischi di omologazione e di perdita di ruolo critico. La possibilità che esse giochino il ruolo di “terza parte” interloquendo con aree di contiguità oltre che con lo Stato. In questo senso andrebbe anche affrontato il tema dei beni confiscati e del loro affidamento ad enti di volontariato e di società civile: non c’è il rischio che in tali pratiche questi soggetti si confondano con gli organi istituzionali o siano visti come soggetti che alla fine godano di privilegi particolari?
8. Alcune proposte operative per la ripresa di un cammino
Voglio completare questo studio con alcune proposte che mi sento di lanciare ad una serie di “amici della nonviolenza”, nell’intento di dare forza alla riflessione teorica alle prassi nonviolente di contrasto allo sviluppo mafioso.
8.1 Creare luoghi/comunità di ricostruzione e sostegno alle esperienze personali di fuoriuscita.
Ma come ha fatto a perdonare, di fronte a un dolore così grande?!” Lo chiedo a una giovane vedova il cui marito è stato ucciso in uno scontro tra bande rivali. Alla domanda, il volto della donna si fa pensoso per il ricordo ancora bruciante. Ma poi si apre al sorriso: “Attraverso tanta preghiera e il sostegno di un gruppo ecclesiale
Testimonianza di Mons. Giancarlo Brigantini, Vescovo di Locri (42)
Per l’importanza che ho fin qui attribuito alle componenti affettive e relazionali nei processi di fuoriuscita dalla cultura mafiosa, penso che un primo filone d’impegno debba vederci coinvolti nella creazione di spazi comunitari che possano aiutare i percorsi di ricostruzione personale dell’identità di persone (ex mafiosi o loro familiari, vittime dell’estorsione, vittime della violenza e loro familiari) che hanno scelto la via della dissociazione dalla cultura mafiosa o che possano sceglierla in un futuro prossimo. Penso che bisognerà studiare delle forme di sostegno indipendentemente dalla scelta che i soggetti fanno rispetto alla collaborazione con la magistratura, evitando certamente complicità, ma nello stesso tempo concedendo i giusti tempi di maturazione personale. In ogni caso pensando a un “prima”, ma soprattutto a un “dopo” la scelta della collaborazione con gli organi giudiziari. E’ opportuno individuare al più presto delle forme attraverso le quali sia possibile ricostruire e valorizzare il senso che le scelte assumono nella storia dei singoli e delle comunità di provenienza, cercando quindi delle alternative alla vita blindata e segregata a cui sono stati finora sottoposti i collaboratori e le loro famiglie. Laddove non sia possibile evitare l’allontanamento fisico delle persone penso ad una sorta di “adozione” da parte di gruppi/comunità della regione di provenienza e di quella che accoglie in cui tutta l’esperienza possa essere innanzi tutto ascoltata, anche nelle parti apparentemente contraddittorie, e non giudicata.
Certamente in alcuni casi potranno essere utili competenze specialistiche (psicologiche), ma penso che ciò non debba avvenire di norma (43).
In un progetto a medio termine queste esperienze, in qualche modo strutturate anche se con metodologie diverse, dovrebbero poter diventare il più possibile visibili proprio per rendere esplicita a chi è ancora “dentro” la reale possibilità di fuoriuscita dalla cultura mafiosa.
Sono consapevole della estrema delicatezza di tale progetto, per questo ritengo che a queste esperienze non deve chiedersi di diventare visibili, se non dopo che le persone coinvolte lo desiderino (cosa che può avvenire anche dopo molto tempo). Nel caso in cui ciò dovesse avvenire bisognerà studiare in che modo ciò può trasformarsi in comunicazione efficace, che può aiutare il propagarsi di una cultura di fuoriuscita.
Soggetti coinvolgibili: Persone che hanno già deciso di uscire, esperti e persone che possono fare da tramite: magistrati, avvocati, sacerdoti, psicologi, conduttori di gruppi.
8.2 Continuare l’elaborazione teorica interdisciplinare su mafia e nonviolenza.
Riguardo a questo punto mi sembra importante intraprendere studi che adottino una metodologia di “ricerca-azione” e che abbiano come obiettivo quello di migliorare l’efficacia della comunicazione in contesti a c.d. “alta densità mafiosa”, facendo al contempo una ricerca su esperienze trascorse o in corso di attuazione che hanno adottato metodi nonviolenti in tali contesti. L’obiettivo operativo per questa seconda ricerca potrebbe essere la pubblicazione di una sorta di “Manuale per l’azione nonviolenta in contesti di mafia”
Soggetti coinvolgibili: Università, Centri sociali di quartiere, Riviste (Mosaico di Pace, Sathiagraha, Narcomafie, Animazione Sociale, ecc.)
8.3 Sostenere e creare punti di riferimento per le esperienze di “resistenza /obiezione di coscienza” dentro la pubblica amministrazione, la scuola, la sanità le carceri.
E’ un campo, riconosco, molto ampio e sul quale ci sarebbe molto da riflettere. Io penso tuttavia che molte persone che lavorano dentro queste istituzioni, hanno idee e a volte anche molto coraggio, ma non riescono a trasformarli in azione per mancanza di collegamenti e di sostegno.
Soggetti coinvolgibili: Insegnanti, educatori, impiegati della pubblica amministrazione, sindacalisti, associazioni antimafia.
8.4 Continuare la sensibilizzazione dei giovani sul tema mafia e nonviolenza attraverso campi e progetti di servizio civile.
Soggetti coinvolgibili: Associazioni educative (AGESCI, Caritas, MIR, Pax Christi, Libera, Amici di Paolo, ecc.). Centri Sociali di quartiere, Parrocchie.
8.5 Approfondire il nesso mafia-legalità-politica-nonviolenza.
Come ho espresso in varie parti dell’articolo, ritengo che la riflessione su questi quattro ambiti vada riaperta, sia dal punto di vista teorico che da quello di una strategia politica generale che può guidare un’azione nonviolenta organizzata complessivamente o per progetti collegati. L’idea potrebbe essere un seminario di studio e/o una raccolta di contributi tipo dossier in una rivista dell’area nonviolenta.
Soggetti coinvolgibili: Gli stessi del punto 2.
Note
1 Nel Movimento dell’Arca, ogni anno, ci si impegna a: “sperimentare la nonviolenza nelle nostre discussioni con il prossimo, nei conflitti in cui siamo coinvolti; a rinunciare alle rivincite; a domandare piuttosto che comandare, a riconciliare quelli che si odiano, piuttosto che schierarsi con qualcuno; ad eludere le discussioni; ad evitare i processi; a preferire la gioia dell’intesa alla soddisfazione del trionfo; a non affliggere nessun essere umano e, se possibile nessun essere vivente, per il piacere il profitto o il comodo; a non fare ingiuria a nessuna classe o nazione o confessione o razza; a non fare o dire mai nulla che inciti alla rivolta o alla guerra o alla repressione o alla persecuzione; a difendere la giustizia con le armi della giustizia. ” (Cfr. Lanza del Vasto, L’Arche avait pour voilure une vigne, Editions Denoël, Paris, trad. it. L’arca aveva una vigna per vela, seconda edizione, Jaca Book, Milano, 1995, pp. 200-201) Ce n’è, mi pare, abbastanza per occuparsi di mafia.
2 Già nel 1992 G. Minervini, in un inserto della rivista “Rocca”, dedicato alla mafia, si domandava come mai la riflessione e la pratica della nonviolenza fossero state rivolte in Italia unicamente al superamento del militarismo e non fosse presente un supporto nonviolento all’elaborazione e alla pratica della lotta alla mafia (Cfr. Minervini, Mafia le radici, la struttura, le connivenze, il modello di sviluppo, le possibili risposte, in “Rocca”, n. 6, 15 marzo 1992).
3 Cfr. G. Pontara, Introduzione a M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non violenza, Einaudi, Torino,1973
4 Per quanto riguarda la ricerca dei rapporti tra i fondamenti della conoscenza e la nonviolenza vanno ricordati i percorsi intrapresi da A. Drago nel campo delle storia della scienza, di A. L’Abate nel campo della sociologia,, di P. Rigliano e O. Siciliani nel campo della psicologia sistemica. Cfr. A. Drago, Le due opzioni. Una storia popolare della scienza, La Meridiana, Molfetta, 1991; A. L’Abate, Consenso, conflitto, mutamento sociale, Angeli, Milano, 1990; P. Rigliano O. Siciliani, Famiglia, Schizofrenia, Violenza, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1988.
5 Cfr. Lanza del Vasto, I quattro flagelli, SEI, Torino, 1996.
6 E’ questa l’accezione data da A. L’Abate che mi sentirei di modificare alla luce della riflessioni fin qui svolte Cfr. A. L’Abate, Consenso, conflitto, mutamento sociale, cit.
7 Lanza del Vasto, I quattro flagelli, cit., p. 57.
8 Esiste un filone di “spiritualità nonviolenta”: Lanza del Vasto, Pyronnet, Legland, Tonino Bello, David Maria Turoldo…
9 Su questo tema rimando ad un mio prededente articolo: Cfr. V. Sanfilippo, Il pentimento nel pensiero nonviolento, in “Segno”, XIX, n. 145-146, 1993, pp. 21-34.
10 L’ipotesi definitoria, formulata all’interno del progetto “Mafia e Società”, è tratta da U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubettino, Soveria Mannelli, 1995, p. 129.
11 G. Falcone e M. Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano, 1991.
12 Ibid, p. 93.
13 Il riferimento alla “teoria dei sistemi” ha diverse ascendenze teoriche asseconda dell’ambito disciplinare a cui si fa riferimento. F. Armao, il cui contributo sarà analizzato avanti, si riferisce, ad esempio, al modello di D. Easton in scienza politica. In sociologia il maggiore esponente dell’approccio sistemico è Luhmann, che ha fondato una vera e propria teoria sociologica e dell’evoluzione sociale. Il riferimento all’approccio sistemico è qui limitato all’uso di alcuni strumenti operativo-concettuali (sistema, ambiente, funzione, riduzione di complessità) atti a circoscrivere e rappresentare il fenomeno sociale che stiamo studiando e non presuppone un adesione al complesso impianto teorico-epistemologico del sociologo tedesco. (Cfr. Luhmann, Soziale Systeme, Grunbri einer allgemeinem Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Maim; tr. It. Sistemi sociali, Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1990).
14 F. Armao, Il sistema mafia. Dall’economia-modo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2? conomia-modo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
15 Ibid, p. 23.
16 Ibid, p. 17.
17 Ciò non significa che considerare il sistema sociale ambiente del sistema mafioso (che nella teoria dei sistemi equivale a rappresentare al contempo il modello opposto in cui il sistema mafia è ambiente del sistema sociale) non abbia indubbie suggestioni. I sistemi infatti si strutturano al loro interno in ragione della complessità dell’ambiente, creando complessità per riduzione di complessità. Lascio aperta tale questione a ulteriori contributi.
18 Per “Cosa Nostra” intendiamo idealtipicamente l’organizzazione criminale formalmente strutturata e dominante in un dato contesto sociale. E’ possibile quindi adattare questi modelli alle altre organizzazioni mafiose (‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, ecc.).
19 Un’analisi di tali tendenze esula dal presente lavoro, anche se andrebbe condotta in parallelo con l’analisi del fenomeno mafioso. Oltre al “classico” J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1976. Dal punto delle scienze giuridiche, il nuovo assetto dei poteri ultrastatali e dei rapporti tra stato, società ed economia è stato recentemente studiato da Sabino Cassese (cfr. S. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari, 2002).
20 Così ad esempio, una prima riflessione di P. Fantozzi (cfr. P. Fantozzi, La nonviolenza marginale in AA. VV. Un nome che cambia. La nonviolenza nella società civile, La Meridiana, Molfetta, 1989, pp. 21-31) che a mio avviso è stata superata da successivi interventi dello stesso autore, analizzati appresso.
21 Cfr. G. Minervini, P. Cipriani, P,Fantozzi, Per una strategia di lotta alla criminalità mafiosa, in Osservatorio Meridionale (a cura di) Mafie e noviolenza. Materiali di lavoro, La Meridiana, Molfetta, 1993, pp. 9-27. e P. Fantozzi, Apparteneza clientelare e appartenenza mafiosa. Le categorie delle scienze sociali e la logica della moderinità meridioanale, in “Meridiana”, n. 7-8, 1990.
22 P. Fantozzi, Dietro quei legami occulti, (intervista a cura di P. Cipriani) in “Mosaico di Pace”, XIII, n. 7, 2002, p. 19.
23 Tale dibattito recentemente ha avuto eco nelle pagine palermitane del quotidiano “la Repubblica”, a seguito di un lungo articolo del Prof. G. Fiandaca. Cfr. G. Fiandaca, Cosa nostra sulla via del declino? in: “la Re-pubblica/Palermo”, martedì 23 luglio 2002; U. Santino, Cosa Nostra nessun atto di fede in: “la Repubblica/Palermo” venerdì 6 luglio 2002; M. Centorrino, L’economia di Cosa Nostra in: “la Repubblica/Palermo”, domenica 28 luglio 2002; A. Dino, Cosa Nostra le radici di un sistema in: “la Repubblica/Palermo”, mercoledì 31 luglio 2002; G. Ferro, Cosa Nostra e la svolta finanziaria, in: “la Repubblica/Palermo”, giovedì 1 agosto 2002; S. Lupo, La mafia ama la modernità, in: “la Repubblica/Palermo”domenica 4 agosto 2002; L. Tescaroli, Dubitare di Cosa Nostra è rischioso, in: “la Repubblica/Palermo” martedì 6 agosto 2002; G. Lumia, Cosa Nostra nel territorio globale, “la Repubblica/Palermo”, mercoledì 7 agosto 2002; G. Fiandaca, Un punto di vista laico per battere la mafia, in: “la Repubblica/Palermo”, domenica 11 agosto 2002.
24 G. Falcone e M. Padovani, Cose di cosa nostra, cit., p. 104.
25 Ibid., p. 82.
26 Si tratta di un gruppo di psicologi afferenti al “Laboratorio di gruppoanalisi” di Palermo. Cfr.: F. Di Maria (a cura di) Il segreto e il dogma. Percorsi per capire la comunità mafiosa, Angeli, Milano, 1948; G. Lo Verso, La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Angeli, Milano, 1998; G. Lo Verso, G. Lo Coco, S. Mistretta, G. Zizzo, Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambia, Franco Angeli, Milano, 1999.
27 I. Fiore, Le Radici inconsce dello psichismo mafioso, Angeli, Milano,1997.
28 Ibid., p. 77: Ecco un’altra definizione di mafia che possiamo, adottando il paradigma della complessità, assumere contemporaneamente a quella di Santino senza che questa scardini il nostro impianto di ricerca.
29 Banfield E. C., The moral Basis of a Backwors Society, The Free Press, Glencoe, Illinois, 1958 [tr. it. Una comunità del mezzogiorno, Il Mulino, Bologna, 1976.
30 Sotto questo aspetto non condivido nè la perplessità né i rischi di intralcio investigativo paventati da G. Fiandaca, nell’utilizzo di tali discipline (Cfr. G. Fiandaca, È plausibile una teoria generale delle mafie?, in “Nuove effemeridi”, XIII, n. 50, 2000/II, pp. 13-30 e G. Fiandaca, Cosa nostra sulla via del declino?, cit.).
31 Cfr. G. Lo Verso, G. Lo Coco, S. Mistretta, G. Zizzo, Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambia, cit.
32 Cfr. A. Cottino, Vita da clan. Un collaboratore di giustizia si racconta, EGA, Torino, 1998.
33 Cfr. E. Resta, Prefazione a A. Cottino, Vita da clan. Un collaboratore di giustizia si racconta, cit.
34 Cfr. U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, cit.
35 E. Morin, Science avec coscience, Fayard, Paris, 1982 trd. it. Scienza con coscienza, Angeli, Milano, 1982.
36 Cfr. G. Minervini, P. Cipriani, P,Fantozzi, Per una strategia di lotta alla criminalità mafiosa, cit.
37 Cfr. Ebert, La difesa popolare nonviolenta, EGA, Torino, 1984.
38 J. Galtung, Gandhi oggi, EGA, Torino,1987.
39 Sul terzo e quarto punto ho cercato in passato di analizzare alcune situazioni concrete: cfr. V. Sanfilippo, Il pentimento nel pensiero nonviolento, cit.
40 Con un certo rammarico ho letto l’inserto a dieci anni di attività anti-mafia nel n. 7/2002 della rivista “Mosaico di Pace”: ebbene la parola nonviolenza, nonostante l’attenzione di quegli anni non vi compare nemmeno una volta!
41 Cfr. ad esempio, M. Alcaro, Sull’identità meridionale, Bollati Boringhieri, Torino,1999.
42 Cfr. G. Bregantini, Storie di mafia e di perdono, in “Messaggero di Sant’Antonio”, n. 4, 2000, p. 51
43 Per chi ha un retroterra culturale di tipo religioso o comunque una sensibilità spirituale, un’esperienza che ho in mente e che potrebbe proporsi, laddove ve siano le condizioni, è quella che va sotto il nome di “guarigione interiore”. Tale metodologia elaborata e praticata nel Movimento dell’Arca è stata messa a punto da Joe Pironnet ed è proposta in Italia da Giampiero e Patrizia Zendali. In tale esperienza le ferite, anche le più profonde della vita personale di ciascun partecipante al gruppo, sono rilette alla luce dei testi biblici, riscoprendo così un senso e una prospettiva alla dimensione della sofferenza personale. In tali gruppi i conduttori tengono conto di alcuni elementi psicologici, ma non si pongono mai come terapeuti, quanto piuttosto come accompagnatori spirituali; il patto esplicito di discrezionalità che viene richiesto ai partecipanti a questi gruppi fa sì che il gruppo stesso, che non dibatte, ma ascolta, può diventare il veicolo per una presa di consapevolezza personale e collettiva. Per una trattazione dei fondamenti e del metodo della “guarigione interiore”, cfr. i seguenti articoli di J. Pyronnet tradotti sul bollettino italiano del Movimento dell’Arca: L’eucaristia atto nonviolento fondamentale, in “Arca Notizie” n. 1, 1995; Le violenze interiori i miei conflitti senza soluzione come gestirli?, in “Arca Notizie” n. 2, 1995; La rosa e il letame, in “Arca Notizie” n. 3, 1995; Convertire e non reprimere il mio desiderio, in “Arca Notizie” n. 4, 1995; Di fronte alle mie violenze, in “Arca Notizie” n. 2, 1996; Una rilettura della Bibbia ispirata da Gandhi in “Arca Notizie” n. 1, 1999.
Pubblicato su “Quaderni di Satyagraha”, n. 3, giugno 2003, pp. 195-215.