Azione repressiva e azione rigenerativa
Giovanni Abbagnato
Azione repressiva e azione rigenerativa
Cari amici,
provo a condividere con voi il compitino al quale Enzo ci aveva invitato nel corso dell’ultimo incontro del Gruppo di lavoro al Centro Impastato – detto per inciso, di rara concretezza ed operatività – per provare ad arricchire la riflessione collettiva attorno al piccolo saggio di sintesi dell’elaborazione fin qui raggiunta sul tema del possibile contributo della nonviolenza al superamento del sistema mafioso che il nostro infaticabile coordinatore sul campo, credo, darà alle stampe prossimamente.
Penso che anche in questa occasione bisogna affermate il valore e le potenzialità del cosiddetto banale,ossia di tutto quello che appare scontato e risaputo, ma che, l’esperienza insegna, è “cosa buona e giusta” ripetere sempre con chiarezza per confermare periodicamente i termini e le responsabilità derivanti dalla nostra adesione ad un progetto, nonché il valore aggiunto dato al gruppo dalle diverse sensibilità e provenienze.
Quindi, un gruppo che parte dalla consapevolezza della natura sistemica del fenomeno mafioso e della necessità di un approccio integrato al contrasto che tenga conto della corresponsabilità di tutti gli appartenenti ad una comunità rispetto alla crescita e alla diffusione di fenomeni di dominio violento e disgregante come quello mafioso.
Un gruppo che ha un bagaglio culturale eterogeneo e che assume il metodo della reciproca “contaminazione” per provare a raggiungere una sintesi condivisa dalla quale derivare, se non un preciso modello d’intervento, almeno delle linee guida da verificare, non solo sul piano esclusivamente culturale, ma anche in riferimento alla loro applicabilità su casi concreti.
Credo che questa premessa, assai semplificata, posso rappresentare il quadro di riferimento nel quale collocare le nostre osservazioni al lavoro riassuntivo di Enzo.
Per esempio, a proposito di sintesi mi pare che non siamo riusciti ancora ad armonizzare il rapporto costruttivo e integrato che deve esserci tra l’azione repressiva e quella preventiva, in senso socio-culturale, e rigenerativa.
Affiora qua e la un impostazione troppo rigidamente “ideologica” e di tipo contrapposto tra presunti fautori della prevalenza di un approccio militargiudiziario al fenomeno e assertori di tesi che tendono verso una maggiore qualificazione di metodi alternativi legati alla scoperta delle ragioni più profonde di tutti gli attori del conflitto.
Il buon Enzo che, per fortuna di noi più tradizionalisti, sta chiaramente e intelligentemente da una parte del ragionamento, a mio modesto avviso indugia troppo sulle ragioni che lo convincono rimarcando, involontariamente, un confine che, forse, più che abbattuto va spianato con una sorta di esorcizzazione dei pregiudizi che, probabilmente, stanno da una parte e l’altra del confine stesso.
Sul fatto che il metodo repressivo è assolutamente insufficiente ad affrontare il fenomeno nel suo complesso non credo ci siano dubbi in alcuno di noi, ma francamente mi sembra riduttivo teorizzare questa acclarata insufficienza con la categoria dell’incapacità di durata di un sistema repressivo, quand’anche razionale e illuminato.
La durata dei modelli di contrasto repressivo e la determinazione degli apparati dello Stato ad essi preposti non attengono alla validità concorrente dello strumento, ma bensì alle carenze organizzative delle Amministrazioni e, soprattutto, al disinteresse dei responsabili politici ed amministrativi dei Servizi sul territorio a mantenere alto il livello d’impegno reale, di norma in concomitanza con una robusta ripresa relazionale tra “pezzi dello Stato”, a diverso titolo interessati, e gruppi affaristico – mafiosi .
Ogni qualvolta l’offensiva “diplomatica”del sistema mafioso prende corpo si sviluppa, regolarmente, la vocazione eversiva di parte significativa delle nostre Istituzioni che, attraverso un sistema di cointeressenze e di efficiente controllo politico-clientelare del territorio, sono in grado di veicolare messaggi e iniziative tendenti a ristabilire lo status quo.
Quanto alla cosiddetta società civile che dovrebbe vigilare sull’azione dello Stato, per quanto riguarda i ceti più abbienti esiste un livello di borghesia mafiosa, secondo un paradigma a noi ben noto, e un livello di borghesia impegnata incapace di sufficiente determinazione e spesso più impegnata a difendere forme di status, in diverse forme ostentate, piuttosto che a impegnarsi, con continuità, su azioni concrete che mettano in discussione comodità e rendite di posizione.
Per quanto riguarda le classi meno abbienti, spesso in condizioni di grave disagio sociale e sicuramente decisive per un deciso salto di qualità nella lotta alla mafia, si registra l’abbandono più assoluto, da parte di coloro che si dicono sensibili al problema della giustizia sociale, e, dall’altra parte, lo sfruttamento sistematico da parte di manutengoli, spesso ben inseriti negli organigrammi del potere reale sul territorio.
Per questo complesso di ragioni gli interventi repressivi risultano spesso inadeguati, come quelli di altra natura e ingenerano nella società un senso diffuso d’impotenza e una reputazione di intoccabilità dei veri padroni dei luoghi della nostra vita.
In questo senso, la creazione, auspicata da Enzo, di spazi di sospensione nella dinamica azione – reazione tra mafia e organi repressivi risulta abbastanza ambigua, ovviamente al di là delle intenzioni dell’autore, perché, piuttosto che invitare a rendere più complesso il rapporto tra società e Istituzioni, lo semplifica con una demarcazione netta che vede da una parte le azioni di repressione e nell’altra quelle della società civile, in quella condizione di estraneità che consente a tante associazioni che “fanno del bene” nei quartieri di crearsi una giustificazione “ideologica” al disinteressarsi della reale gestione dei poteri concreti sul territorio.
Questo, ovviamente, non significa confondere i piani d’intervento ma, anzi, vuol dire accentuare la dialettica con le Istituzioni, anche quelle repressive, da controllare e chiamare alle proprie responsabilità ogni qualvolta adempiono ai loro doveri più in una dimensione formale che non sostanziale.
Per quello che può servire, ma ancor di più per rendere evidente il ragionamento, nella piccola esperienza palermitana della lotta per la casa si è più volte arrivati anche allo scontro duro con i vari livelli istituzionali – in sede politica, amministrativa ma anche nelle piazze – svolgendo con la gente il ruolo di soggetti organizzati che chiedono diritti a precise controparti istituzionali, ma nello stesso tempo si è preteso l’intervento d’autorità sulle amministrazioni inadempienti, anche quando queste erano le Forze dell’Ordine, troppo spesso capaci di essere deboli con i forti e forti con i deboli.
E’ stata la gente che una volta presa coscienza del proprio diritto negato e della possibilità che venisse riconosciuto superando il condizionamento del boss del quartiere, ha denunciato le Autorità che, a diverso titolo e con diverse responsabilità, avevano consentito con il loro atteggiamento omissivo la negazione del diritto ad opera del prepotente, fino a quel momento considerato intoccabile dal quartiere e, temo, non solo dal quartiere.
La società civile per stare dalla parte che gli compete non ha bisogno di manifestare estraneità e disinteresse per gli altri tipi d’intervento perché troppo spesso questo ha rappresentato alibi per presidi territoriali con grandi potenzialità d’intervento, ma spesso ridotti a meri dispensatori di servizi protetti da una neutralità di comodo.
Certamente si deve qualificare l’azione sociale attraverso la conoscenza e la messa in rete delle esperienze ma, soprattutto, si deve svolgere il proprio ruolo con competenza, autonomia, ma anche con chiarezza di collocazione.
La società civile deve scrivere ogni giorno un nuovo concetto di legalità che tenga conto dell’evoluzione delle forme concrete della violenza, della prevaricazione e dell’ingiustizia sociale e, in questo può concorrere con l’azione pubblica, ma sempre in un atteggiamento di controllo democratico capace di evidenziare chi sta dalla parte della vera legalità , qualunque sia il posto che occupa nella società.
Affermata questa chiarezza di posizionamento, possiamo discutere su tutto, dagli strumenti legislativi, alle strategie d’intervento sociale e, perfino, ad una finalizzazione più efficace dell’azione repressiva, possibile anche in senso sociale.
Possiamo prendere in esame, come faremo nel nostro prossimo seminario affidato alle cure di Umberto, le diverse letture del fenomeno mafioso e, ovviamente in quella sede ci sarà spazio per una sintesi tra le diverse posizioni che, naturalmente, non sarà mera sommatoria ma, si spera, elaborazione più avanzata e più aderente possibile alla realtà.
E’ curioso, e interessante al tempo stesso, il continuo ricorso nella nostra riflessione alle parole di Giovanni Falcone che per rendere evidente il suo riconoscimento dell’umanità e della dignità del suo “nemico”, anche quando ridotto in catene, non aveva bisogno di edulcorare il proprio ruolo e la propria determinazione a svolgerlo con il massimo rigore possibile, anzi tendeva ad affermare con nettezza il suo ruolo (a Buscetta: io per lei sono il Giudice Falcone…; al Giornalista: tutto questo lo faccio solo per spirito di servizio) e il suo stare dalla parte del giusto, nonostante tutte le contraddizioni che, probabilmente, pochi come lui conoscevano.
Il Professore Drago avrà le sue buone ragioni per lanciare le sue invettive contro Libera ed altre associazioni che, a chi non conosce i suoi percorsi sono sembrati, francamente, esagerate e al di fuori di un reale confronto sul metodo e la filosofia dell’intervento sociale, ma a me continua a sembrare molto importante la capacità che ha avuto la società civile di collegarsi, in un certo momento storico, con una parte delle Istituzioni, compresa la Magistratura che intanto aveva aperto al suo interno una contraddizione, riguardante alcuni segmenti significativi che avevano messo in discussione la tradizionale appartenenza funzionale alle classi dominanti per una giustizia non uguale per tutti.
Sul fronte più prossimo all’intervento, è evidente il valore della relazione tra vittime e rei, laddove si creassero le condizioni, com’è altrettanto importante essere in grado di offrire una valida forma di accompagnamento a chi ha maturato una qualche forma di ripensamento del suo progetto di vita, fino ad un certo momento caratterizzato dalla violenza e dalla volontà di sopraffazione.
Però, per favore, evitiamo di mettere in relazione o, addirittura, in alternativa un percorso che ha una forte componente di interiorità con una forma di contratto tra lo Stato e rei confessi che, riconoscendo formalmente la supremazia dello Stato e la sconfitta del loro campo, decidono di collaborare per contribuire a smantellare la loro ex organizzazione.
Purtroppo, in questo campo non si può fare riferimento a categorie astratte, ma bisogna immaginare, in assenza di collaborazioni, ai sensi della normativa vigente, a che punto sarebbe la conoscenza del fenomeno mafioso, giudiziariamente accertata, e quali sarebbero stati i risultati dell’offensiva repressiva, quand’anche condotta con convinzione, anche in termini di riduzione della capacità operativa delle cosche.
Questo non significa negare i guasti e le contraddizioni emersi all’ombra di questo sistema di collaborazioni perché non sono, comunque, giustificabili una serie di gravi degenerazioni, dal deficit di controllo su alcuni collaboratori, alla mancanza di trasparenza sugli aspetti finanziari, al ricorso troppo frequente ai tentativi di collaborazioni a scapito d’indagini di tipo tradizionale sempre più confinate nel campo, pur importante, del semplice riscontro.
Ma sembra correrne di strada da qui a perseguire, realisticamente, lo smantellamento di uno strumento assai complesso e di difficile gestione, ma che fu voluto e utilizzato in modo efficacissimo da Magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ed altri che, pur dimostrando una tensione ideale e una deontologia professionale al di sopra di ogni sospetto, non mancarono mai di attendere a quel sano realismo che non può non considerare chi intende fare sul serio la lotta alla mafia.
La gestione del cosiddetto pentitismo va, intanto, inquadrata all’interno dei grandi numeri della sua applicazione evitando lo scandalismo peloso di chi confonde il quadro complessivo con soli pochi casi di particolare clamore e poi va considerata come uno strumento delicato al quale dedicare particolari risorse, soprattutto sul piano investigativo e giudiziario.
In ogni caso, deve fare riflettere il fatto che un evidente nuovo corso dell’azione di contrasto dello Stato nei confronti della mafia, insieme ad alcune misure di protezione interna messe in atto dalle cosche, ha determinato il sostanziale azzeramento delle istanze di collaborazione e con esso la blindatura di tutti i mandamenti mafiosi.
Pensare che forme di dissociazione sul piano etico e culturale possano determinarsi solo con il superamento dell’attuale normativa sulle collaborazioni a me sembra come negare la possibilità di stimolare e cogliere percorsi originali di abbandono disinteressato delle organizzazioni criminali da supportare con apposite reti di solidarietà.
Mi rendo conto che i punti toccati sono delicatissimi, ma da parte mia non credo ci sia una difesa acritica di acquisizioni fatte in questi anni d’impegno sociale rispetto ai quali ho, inevitabilmente, elaborato più dubbi che certezze.
D’altra parte la partecipazione convinta a questo gruppo di lavoro, nella consapevolezza della necessità di cercare nuove strade, è un fatto che probabilmente ci rende già sufficientemente coesi.
Forse, dobbiamo fare uno sforzo più nel riconsiderare alcune contrapposizioni non certo infondate, ma che, probabilmente, non hanno tenuto in debito conto, nel tempo, le ragioni di una battaglia che deve avere una lunga prospettiva, ma che non può non vivere anche l’urgenza del presente.
Fraterni saluti,
Giovanni Abbagnato.