Pedagogia nera e educazione mafiosa
Adriana Saieva
Pedagogia nera e educazione mafiosa
Bambini ascoltati nei loro bisogni, accompagnati nella comprensione di ciò che accade, nella costruzione delle regole, nella lettura del mondo che si muove attorno. Bambini che vanno a scuola e sono accolti senza pregiudizi, non vengono mortificati nei loro sentimenti, ma ascoltati e aiutati a crescere scoprendo le proprie potenzialità. Bambini aiutati a decodificare gli episodi spiacevoli della vita e a vivere senza sensi di colpa le gioie. A casa, a scuola, all’oratorio, in palestra: in ogni luogo di crescita bambini che incontrano adulti in grado di dare fiducia, di alimentare l’autostima, di dare sicurezza e trasmettere il senso di giustizia attraverso concreti esempi di vita; adulti che sanno dare spiegazioni su ciò che accade e buone ragioni per le loro scelte educative.
Adesso fermiamoci un attimo e proviamo a pensare quanto ci riconosciamo in questa descrizione, quanto ci è familiare nella memoria dei bambini che siamo stati e degli educatori che siamo adesso. E’ questa la società che accoglie i bambini? Sono queste le famiglie che allevano i futuri genitori? E’ questa la scuola che prepara i futuri cittadini? E, soprattutto, quanto ci si interroga sull’importanza dei sistemi educativi praticati in ogni ambiente di vita?
Queste domande suscitano altri interrogativi: c’è un collegamento tra un’educazione basata su princìpi positivi e la formazione di uomini e cittadini in grado di difendere la giustizia e respingere i soprusi? L’educazione familiare e scolastica ha una responsabilità nella formazione di uomini e cittadini privi di senso critico, conformati alle scelte che vanno per la maggiore, incapaci di prendere una posizione contro le ingiustizie e addirittura di riconoscere un’ingiustizia in quanto tale? E ancora viene da chiedersi: è lecito porsi queste domande? Come genitori e come insegnanti ci si deve interrogare sulla responsabilità che grava sulle nostre scelte educative? E ancora: c’è un livello sociale che può esimersi dal porsi queste domande? Ovvero: un alto grado di istruzione, un ottimo lavoro, un sereno ambiente di vita, fanno di una persona un genitore – o in genere un educatore – incapace di usare a fini educativi la violenza fisica o morale?
La riflessione di Alice Miller
Nel suo Il risveglio di Eva (Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 80 – 81) Alice Miller, psicoanalista zurighese, che da anni studia le conseguenze di un’educazione violenta, anaffettiva o repressiva, ci offre diversi spunti di riflessione su questi interrogativi: “Chi da bambino ha sempre dovuto ‘obbedire al volere e agli ordini degli adulti’, porta ormai iscritti ‘nella propria carne’ questi princìpi e ancora oggi si adegua senza remore alle più astruse ideologie di certe sette religiose, di associazioni neonaziste o di comunità fondamentaliste, distruggendo – per ordine superiore, come sempre – la vita e la dignità di altri esseri umani senza mai porsi alcun interrogativo. Né sono consapevoli di imitare la distruzione che altri hanno fatto della loro dignità. Non lo sono perché non hanno potuto vivere consapevolmente la propria umiliazione precoce; erano addestrati soltanto ad obbedire. Chi è sopravvissuto all’infanzia e all’adolescenza con i pugni in tasca, non appena gli è consentito usa quasi automaticamente quegli stessi pugni”.
In Sicilia possiamo aggiungere, all’elenco delle organizzazioni ideologicamente criminali, la mafia che si nutre ed estende il suo dominio proprio grazie all’uso della violenza, esercitata sistematicamente con arroganza.
Allora ci si può chiedere: com’è possibile esercitare questo potere e non provocare ondate di ribellione e di indignazione? Perché molti si percepiscono impotenti di fronte a questa forza? Perché si rimane indifferenti e in qualche modo si giustifica un regime di sopraffazione e lo si vive come male inevitabile verso cui nulla si può fare? Un’organizzazione così spietata e cinica – che deve il suo perdurare nel tempo al consenso sociale – può ottenere tale consenso solo se chi lo dà non è più in grado di indignarsi, di scandalizzarsi e di ribellarsi. E le domande, leggendo poi della stessa autrice La persecuzione del bambino. Le radici della violenza (Bollati Boringhieri, Torino 2000), si affastellano nella mente e ci si chiede ancora: chi aderisce all’organizzazione criminale mafiosa, i giovani e giovanissimi che si lasciano reclutare accettando di intimidire, minacciare, spaventare, umiliare e persino uccidere persone sconosciute solo perché un capo lo ha ordinato, dove hanno seppellito la loro coscienza, il loro senso critico, la loro umanità? Sono forse nati figli di un dio malefico o semplicemente hanno imparato sulla loro pelle – e alla fine giustificato – le intimidazioni, le minacce, lo spavento, le umiliazioni?
La prima critica a questa possibile spiegazione nasce dal fatto che non tutti quelli che hanno subìto violenze, umiliazioni e persecuzioni psicologiche, da adulti diventano carnefici o aggregati a una qualsiasi organizzazione criminale. A questa critica la Miller risponde efficacemente introducendo l’ipotesi del “Testimone soccorrevole” (Il risveglio di Eva, cit., p. 58), una figura che, contemporaneamente a chi abbia esercitato la sua forza perversa, sia riuscita a dare esempi di speranza e di amore: “Dopo aver percorso innumerevoli storie di vita, ho scoperto che in tutti i casi in cui la vittima non si è trasformata essa stessa in carnefice, vi è stata una persona che ha nutrito affetto per quel bambino, consentendogli di percepire l’ingiustizia subìta per ciò che effettivamente era. Ho chiamato tale persona Testimone soccorrevole e, ogni qual volta questa figura è stata presente, il bambino ha avuto la possibilità di fare paragoni, di accorgersi che gli veniva fatto del male e di identificarsi con quella persona gentile”.
Se restringiamo gli interrogativi al campo scolastico, ci si accorge di quanto siano date per scontate molte cose e di quanto viene affidato al ‘fiuto’, al ‘buon senso’ e all’esperienza di chi è chiamato a svolgere il compito di educatore, senza chiedersi se fiuto, buon senso ed esperienza non siano per caso inficiati da modelli educativi ormai interiorizzati e che un tempo hanno contrassegnato l’infanzia di chi li ripropone.
Da insegnanti e educatori, e più in generale da adulti che si relazionano con bambini, si può rimanere indifferenti alle riflessioni che la Miller ci propone?