Il modello clientelare
Amelia Crisantino
Il modello clientelare
Le considerazioni che il procuratore aggiunto Alfredo Morvillo ha esternato nell’audizione davanti alla Commissione Antimafia sono molto amare, tanto più che provengono da un uomo toccato in prima persona dalla violenza mafiosa. È triste che proprio il fratello di Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone e morta con lui nell’attentato di Capaci, debba arrivare alla conclusione che per i siciliani “la mafiosità non è un discrimine sociale”. Cioè che i siciliani non sono né pro né contro la mafia, finendo così per affondare in un’ignavia che fatalmente si risolve in passiva adesione. Vorremmo tanto sostenere che si sbaglia, che dall’indomani delle stragi ad oggi non è cambiata e non si è affievolita la tensione che sembrò scuotere il popolo siciliano. Che quell’impegno gridato nelle piazze ha messo radici e già porta frutti. Che una volta raggiunta la consapevolezza rimane, non la si dimentica così in fretta. Ma da allora, lo sappiamo, nel giro di qualche anno allo sdegno e alla ribellione ha fatto seguito un riflusso troppo rassegnato. I vecchi modelli di comportamento sono stati riproposti, e oggi vengono indossati con disinvoltura. Purtroppo, le considerazioni di Morvillo rischiano di essere diventate troppo vere per poterle confutare.
Quindi, i siciliani hanno dimenticato le stragi e sono pressoché indifferenti a quella mafia che li condanna alla marginalità economica e civile, che soffoca le prospettive di sviluppo?
L’aspirazione a vivere protetti da un sistema di regole è comune a tutte le latitudini, così com’è diffusa la prepotenza. Si tratta di caratteri in cui la Sicilia registrerà percentuali simili al resto del mondo, a meno di non voler sostenere una caratterizzazione del siciliano in senso razzista. Quello che da sempre ha fatto la differenza fra le comuni forme di delinquenza e la mafia è l’intreccio col potere, per cui molto diverso risulta l’impatto sui comuni cittadini. Se è facile e diffusa la reazione di difesa del corpo sociale verso le forme di delinquenza, le cose diventano molto meno facili quando di mezzo c’è la mafia. Perché troppe volte nella storia in Sicilia abbiamo avuto un potere politico che, in un mutuo scambio di favori col mafioso, presenta al cittadino un volto al contempo istituzionale e criminale. È la nostra storia. Così come fanno parte della nostra storia le sconfitte di quei movimenti, a cominciare dai Fasci siciliani, che hanno sognato e progettato una Sicilia senza mafia.
In un simile andazzo di cose le responsabilità di una certa politica sono enormi. Diciamo pure che alcuni comportamenti vengono quasi imposti. Senza andare a tempi lontani, dove si resta sorpresi nel ritrovare meccanismi simili a quelli attuali, con l’isola in balia dei grandi elettori che producono consenso in cambio del via libera per i loro affari, riflettiamo su circostanze che tutti conosciamo.
Negli ultimi anni s’è spesso parlato di clientelismo, ma solo per diminuirne la carica deleteria nei confronti della società, quasi fosse un vezzo innocuo di politici vanitosi. Addirittura, ma non è il solo, il governatore Cuffaro è arrivato a vantarsi del rapporto clientelare instaurato cogli elettori. Il suo è stato definito un clientelismo benevolo, anche se i risultati ottenuti con la gestione clientelare delle risorse pubbliche sono sotto i nostri occhi. Tutto un gioco a diminuire responsabilità e gravità dei comportamenti, come se il rapporto clientelare non fosse servito alla mafia per raccogliere appoggi e approvazione attorno alle cosche.
La particolarità negativa della gestione clientelare del potere è che l’illegalità avviene a partire dall’alto e si propaga nella collettività, diventando un modello. Agli occhi della gente chi ottiene ricchezze attraverso rapporti privilegiati è in una particolare posizione, che garantisce il rispetto e inibisce le critiche: ha dimostrato di essere un furbo, è stato premiato. È bastato l’appoggio di un politico amico. Questa è la dinamica di tanti affari siciliani: quelli che scoppiano e diventano scandali conosciuti da tutti e quelli che restano nell’ombra, tranne che per i risultati.
Quando è un partito di massa a controllare il rapporto clientelare, è avvenuto in Sicilia con la vecchia Dc e avviene anche adesso e persino con più protervia di prima, il comune cittadino si ritrova davanti ad una scelta obbligata. Lui vorrebbe un servizio, un lavoro, una licenza. Il politico gli offre di entrare in una catena clientelare. Le risorse da distribuire non sono infinite, ma ben presto il cittadino imparerà che la politica ha il monopolio di tutte le risorse. Quindi anche della speranza.
Il sistema delle clientele produce disgregazione sociale, scoraggiamento, disinteresse, degrado, ostilità verso le istituzioni. Ma tutto questo va bene, perché si esalta il ruolo del politico e del partito come unico canale per accedere alle risorse.
In Sicilia, mafia e reti clientelari hanno avuto gli stessi interessi: entrambe si sono rafforzate nella sfiducia verso lo Stato, mentre le risorse pubbliche sono state utilizzate per accrescere dipendenza e degrado. Del resto basta leggere le cronache dell’ultimo grosso scandalo siciliano, quello sulle fortune dell’imprenditore Aiello che vede coinvolto anche Cuffaro, per comprendere quanto, al di là dell’aspetto penale, una certa politica sia responsabile del degrado morale e materiale in cui si trova la nostra regione.
Pubblicato su “la Repubblica Palermo”, 1 aprile 2004.