Documenti e scritti vari – Il Dio dei mafiosi
Augusto Cavadi
Il Dio dei mafiosi
Esiste una teologia mafiosa?
A prima vista, sembrerebbe impossibile. Se “possiamo dire con tutta tranquillità teologica che la mafia è qualcosa di radicalmente anti-Dio” perché in essa “la pretesa del potere dell’uomo sull’uomo è esplicita”(1); se “la mafia produce una cultura, di fatto atea, che è antitetica con il Vangelo perché mette un uomo o una organizzazione al posto di Dio”(2), sembrerebbe inconcepibile rintracciare qualcosa come una teologia mafiosa.
Tuttavia è stato possibile, anche sulla base dell’esperienza personale di alcuni magistrati inquirenti, raccogliere una sequenza impressionante di testimonianze di mafiosi che, più o meno esplicitamente, si rifanno ad una loro fede e ad una loro concezione della religione: testimonianze che, insieme, permetterebbero di individuare una ‘teologia’ di Cosa Nostra(3).
Come ci avvertono gli studiosi più attendibili, la mafia è un fenomeno complesso: un insieme di associazioni criminali che mira ad accumulare capitali e acquisire potere mediante l’uso sistematico della violenza, ma anche mediante un codice culturale che gli procura consenso sociale(4). In questo codice culturale rientrano modelli di vita, linguaggi, norme etiche(5), criteri educativi(6): è strano che vi rientri anche una determinata teologia?
Se cerchiamo una teologia consapevole e meditata, organicamente articolata, difficilmente la troveremo: l’intelligenza mafiosa è un’intelligenza strumentale e strategica che non indulge alla focalizzazione dei princìpi teoretici e dei fini ultimi. Se, al contrario, cerchiamo una teologia irriflessa e approssimativa, anche se interiorizzata e praticata, non dobbiamo faticare eccessivamente. E ciò per almeno due ordini di considerazioni. Innanzitutto, ad un livello più epidermico, va notato che “per un fenomeno come la mafia, privo di giustificazione intellettuale, la religione può essere considerata”, se non proprio “l’unico apparato ideologico cui fare riferimento”(7), almeno uno dei più accessibili. Ad un secondo, più approfondito livello, poi, alcuni antropologi hanno segnalato – in linea generale – il nesso inquietante fra ‘sacro’ e ‘violenza’: lungi dall’escludersi reciprocamente, la ‘violenza’ è l’anima profonda del ‘sacro’ che – incessantemente – il ‘religioso’ si sforza di gestire canalizzandola verso oggetti esterni alla comunità(8). Niente di strano, dunque, se dovessimo scoprire in funzione meccanismi ‘religiosi’ di controllo della violenza là dove altri apparati (come il sistema giudiziario statuale) stentano ad essere riconosciuti ed accettati(9).
Tratti essenziali del Dio dei mafiosi
Il pluralismo culturale segna progressivamente la società mafiosa come la società civile, di cui condivide le trasformazioni(10): tematizzare univocamente un’idea di Dio comune a tutti gli “uomini d’onore” sarebbe dunque, dal punto di vista scientifico, inattendibile quanto tematizzare univocamente un’idea di Dio comune a tutti i “siciliani” o a tutti i “meridionali”.
Ciò premesso, tuttavia, non è intellettualmente infondato il tentativo di disegnare alcuni tratti ricorrenti (anche se non presenti universalmente) della concezione di Dio – e, più in generale, della religione – dei mafiosi.
E’ facilmente intuibile come questa concezione teologica non si sia creata dal nulla ma abbia attinto, abbondantemente, al patrimonio simbolico e concettuale delle grandi religioni monoteistiche diffuse – in misura diversa – nel Mediterraneo.
a) Un Dio spietatamente onnipotente
A questo proposito Roberto Scarpinato, andando oltre la fenomenologia delle dichiarazioni dei mafiosi da lui raccolte, avanza delle tesi molto suggestive ma, a mio avviso, poco convincenti: “Il capomafia costruisce Dio a partire dal suo punto di vista, dalla sua visione complessiva della vita, in un complesso gioco di proiezioni. Il suo Dio non è quello del Vangelo, incarnato in un Gesù debole e crocifisso che porge l’altra guancia, ma il Dio biblico del Vecchio Testamento rivisitato alla luce della cultura mafiosa e proiezione della sua (del mafioso) volontà di potenza. Un Dio padre severo e implacabile con chi osa trasgredire alle sue leggi: il Dio dell’occhio per occhio dente per dente, il Dio del diluvio universale; il distruttore di Sodoma e Gomorra; il Dio che pretende da Abramo obbedienza assoluta, e, al tempo stesso, un Dio che sa essere indulgente e magnanimo con coloro che obbediscono. Un Dio, per dirla con i mafiosi, ‘masculiddu’ (maschio)”(11).
Che si tratti di un’interpretazione suggestiva non v’è dubbio. Già nel 1996 don Nino Fasullo aveva scritto che “nell’immaginario di Cosa Nostra Dio è un mafioso di gran lunga più potente di ogni altro, che aspetta il suo momento per punire chiunque non si pieghi alla sua legge”(12). Ancor prima, nel 1992, don Cosimo Scordato si era chiesto se “una certa immagine di Dio, caratterizzata da certi tratti di onnipotenza e non dal profilo della sofferenza del Cristo crocifisso, potente solo del suo amore e della sua dedizione, possa fare da equivoco supporto a un certo immaginario dell’uomo mafioso, all’ideale del padrino, per intenderci, come colui che vuole tutto, subito, da chiunque, a spese di tutti e con potere assoluto”. E prevenendo una probabile obiezione, aveva aggiunto in nota che “per quanto in Sicilia ci sia una grande devozione al Crocifisso e all’Addolorata, soprattutto nel triduo pasquale, non si è evidenziata abbastanza la carità dirompente del dolore di Dio e di Maria sul piano di un diverso modello di vita, segnato da dedizione e oblatività”(13). Tuttavia si tratta di uno spunto comparativo che può restare solo a livello di suggestione. Qualora lo si irrigidisse in una contrapposizione fra il Dio del Vecchio e il Dio del Nuovo Testamento, provocherebbe non poche riserve: sia perché il Dio del Vecchio Testamento (dunque di una variegata biblioteca religiosa scritta nell’arco di secoli) è anche un Dio materno e comprensivo(14) sia perché il Dio del Nuovo Testamento è anche un Dio “severo e implacabile con chi osa trasgredire le sue leggi”(15).
b) Un Dio garante delle gerarchie sociali
Per queste ragioni lo stesso Scarpinato mi pare più convincente quando – invece di scomodare un Primo Testamento troppo remoto nel tempo – preferisce circoscrivere l’attenzione sul cattolicesimo borghese dell’ultimo secolo e mezzo: “Il Dio dei capimafia è dunque il Dio del ‘palazzo’, dello status quo, del ‘quieta non movere et mota quietare’, dei potenti di ogni tempo. Lo stesso Dio di quella borghesia politico-mafiosa che ha utilizzato la violenza e l’omicidio come strumento occulto di governo e di risoluzione dei conflitti sociali”(16).
Se la direzione è più conducente, mi pare che Scarpinato si limiti a percorrerne solo i primi passi. Con toni trancianti, egli afferma, infatti, l’equazione fra il Dio dei mafiosi e il Dio dei borghesi: ma che significa – in concreto – ciò? Se non si chiarisce, si rischia di affermare troppo o troppo poco.
Una prima ipotesi interpretativa, infatti, potrebbe riallacciarci alla critica ateistica feurbachiana-marxista: Dio è sempre una costruzione ideologica utile alle classi dominanti per perpetuare il potere, sì che il sistema mafioso non può farne a meno come non ne ha potuto fare a meno il sistema borghese. Ma questa interpretazione va scartata per almeno due motivi. Il primo è interno alla logica del contributo di Scarpinato: se egli fosse convinto del ruolo necessariamente ideologico della fede in Dio, non avrebbe auspicato – soprattutto nella parte conclusiva del saggio – il prevalere nella chiesa cattolica della “minoranza pionieristica”(17) intenta a “rompere la separatezza delle istituzioni ecclesiastiche per un verso promuovendo il dialogo interno, e , per l’altro, aprendo le parrocchie alla realtà sociale”(18).
Il secondo motivo che indurrebbe a scartare l’ipotesi interpretativa ateistica è suggerito dalla storia: solo chiudendo gli occhi su centinaia di movimenti, in epoche e luoghi differenti, si potrebbe sostenere che il cristianesimo sia stato sempre strumento ideologico di dominio e non anche, in altrettanti casi, riserva critica di contestazione dei poteri costituiti(19). La stessa storia della mafia e dell’antimafia registra, accanto all’equivoca pietas del “papa” Michele Greco e di Pietro Aglieri, la fermezza religiosamente motivata del giudice Paolo Borsellino e di don Pino Puglisi.
Una seconda ipotesi interpretativa sembrerebbe presupporre la distinzione fra il Dio dei poveri (annunciato da Gesù e dalla prima comunità cristiana) e il Dio dei potenti (versione caricaturale e strumentale del primo, elaborata dai gruppi dominanti – ultimamente dalla borghesia e dalla mafia – per disinnescare la forza esplosiva del vangelo originario). Credo che con questa seconda chiave ermeneutica ci avviciniamo al cuore della questione: c’è stata e c’è un’utilizzazione ideologica dell’immaginario simbolico cristiano. Questo è il fatto. Ma attraverso quali percorsi si è consumata questa operazione ideologica? Sarebbe comodo poterci accontentare della spiegazione moderatamente acuta che lo attribuisce alla “volontà di potenza” di alcuni (dei feudatari medievali, dei principi tedeschi protestanti, della borghesia moderna, dei dittatori nazionalisti, dei boss mafiosi…) e della servile disponibilità di altri (vescovi, teologi, predicatori domenicali…). Purtroppo per noi, è necessario un discorso più ampio, più impegnativo ma – credo – anche più convincente.
Se vogliamo intravedere qualcosa della metamorfosi subita (talora persino nella perfetta ‘buona fede’ dei protagonisti) dal messaggio evangelico sino a quella versione cattolico-latina che i mafiosi hanno recepito e strumentalizzato negli ultimi due secoli(20), ritengo che si debba indagare sul processo di “inculturazione” che la Bibbia ha subìto quando – emigrando dall’originario contesto semitico – è stata ‘tradotta’ nella categorie greche e romane. Dal “gioco – linguaggio” della preghiera celebrativa si è slittato, inavvertitamente (senza avvertirne, perché senza averne avvertenza), al “gioco – linguaggio” della speculazione ontologica (tipica della mentalità ellenica) e della costruzione giuridica (tipica della mentalità latina). Questa ‘traduzione’ ha avuto delle conseguenze incalcolabili, in positivo e in negativo: ha trasformato un messaggio religioso di origine provinciale (una delle tante sette eretiche scaturite dalla tradizione ebraica) in sistema culturale organico (con una sua filosofia, una sua etica, un suo codice giuridico…) affascinante, ma al prezzo di rendere quasi irriconoscibile proprio quel messaggio religioso originale(21). Questa ‘traduzione’ è il capolavoro del cattolicesimo romano(22): ed è questa la versione del cristianesimo che i mafiosi hanno conosciuto da vicino – restandone condizionati sin dalla formazione giovanile – e che, da parte loro, hanno ‘riletto’, riadattatandola ed applicandola.
Vedremo, nel prosieguo di queste pagine, alcune conseguenze di questa metamorfosi della teologia cristiana sulla teologia mafiosa.
Innanzitutto possiamo constatare che, in questa visione del mondo ‘cattolica’, Dio è essenzialmente il garante dell’ordine cosmico e dell’ordine sociale. Riprendendo alcune asserzioni che si trovano nel corpus delle lettere attribuite a Paolo, la teologia ufficiale cattolica ha insegnato che al comune fedele spetta obbedire alle autorità civili e religiose: queste – e queste soltanto – risponderanno a Dio, eventualmente, di aver male interpretato la Sua volontà e di aver impartito ordini sbagliati(23). In questa prospettiva de – responsabilizzante non è strano che molti mafiosi confessino di aver obbedito a quella che ritenevano la legittima autorità del loro gruppo senza travagli di coscienza e di aver pregato, anche al ritorno da imprese omicide, come ogni sera prima di addormentarsi(24). Come conciliare fede cristiana e prassi omicida? Come spiega un collaboratore di giustizia, il problema per il mafioso si pone esattamente come per un soldato italiano in guerra contro la Germania o la Jugoslavia(25): “Il Signore sa che il delitto, se eventualmente ingiusto perché non conforme ai principi di Cosa Nostra (o perché in prosieguo di tempo si dovesse appurare che la vittima era innocente), va eventualmente caricato sulla coscienza dei capi e che non sporca l’anima dell’esecutore il quale, se pure non condivide l’ordine, non può fare a meno di eseguirlo; in primo luogo per adempiere al proprio dovere e poi per non essere ucciso a sua volta per aver trasgredito all’ordine impartitogli”(26).
c) Un Dio accessibile solo attraverso i mediatori
Il Dio cosmico-ontico della tradizione cattolica, proprio in quanto vertice di una piramide, non è direttamente raggiungibile. Chi lo vuole raggiungere deve passare per i mediatori celesti (i santi) e terreni (i preti): perché stupirsi che anche in campo socio-politico si debba passare per la mediazione degli ‘amici degli amici’? “Qualche studioso ha messo in relazione il rapporto patrono-cliente (il clientelismo non coincide con la mafia ma costituisce il contesto favorevole alla sua nascita e al suo sviluppo, essendo fondata su una concezione personalistica dei rapporti sociali) con il patronaggio religioso che si configura attraverso la mediazione dei santi tra i fedeli e Dio, particolarmente avvertita nel cattolicesimo mediterraneo. Per esempio, scrive il sociologo Boissevain: “…è evidente che il patronaggio religioso e quello politico si rafforzano reciprocamente. Uno serve da modello all’altro (…). Questa analogia mi è stata suggerita dall’arciprete di Leone (il nome fittizio di un paese siciliano) quando tentò di spiegarmi il ruolo spirituale dei santi. Egli osservò che a nessuno verrebbe in mente di avvicinare personalmente un ministro, ma cercherebbe di arrivare a lui tramite un amico influente che possa presentarlo al deputato locale, il quale poi potrà esporre il caso al ministro. Allo stesso modo, non bisogna rivolgersi direttamente a Dio; è meglio giungere a lui attraverso l’intercessione del santo patrono, che, essendo più di noi vicino a Dio, è in una posizione più efficace per persuaderlo ad ascoltare le nostre preghiere”. Ad essere chiamato in causa è il cattolicesimo meridionale. Annota l’antropologo Anton Blok: “Boissevain sottolinea la minore rilevanza del culto dei santi nei paesi cattolici dell’Europa del Nord, dove anche i legami clientelari sono più rarefatti. Possiamo spingerci un passo più in là: queste interrelazioni non possono essere pienamente comprese se non si considerano le diverse fasi di formazione dello Stato nella società dell’Europa cattolica meridionale e settentrionale. Vale a dire che, dove le persone hanno raggiunto o stanno per raggiungere un accesso più diretto allo Stato e possono efficacemente identificarsi con l’idea di una nazione, tendono a ridimensionare il culto dei santi e a spostare l’accento sui fondamenti della comunità cristiana e sulle specifiche virtù cristiane che alimentano i valori civici. D’altro canto, dove lo Stato non ha assunto la fisionomia di uno Stato nazione, o si trova nella fase iniziale di questo processo – è il caso del Meridione – gli individui saranno più sensibili agli elementi del potere personale che si manifestano tanto nel settore religioso quanto in quello secolare” (in A. BLOK, La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960, Einaudi, Torino 1986, pp. 208 s.). Si potrebbe dire che nell’Europa mediterranea sia persistita una concezione tolemaica dell’universo materiale e di quello celeste. L’organizzazione mafiosa, con le sue gerarchie e la rigida divisione dei ruoli, è perfettamente inserita in questo universo”(27).
d) Un Dio che esige sangue riparatore
La religione cattolica conosce mille mediatori, ma Cristo resta il Mediatore per eccellenza. Come, in concreto, si è realizzata la sua opera salvifica? La risposta del Nuovo Testamento non è univoca, ogni autore ‘canonico’ esprime una sua lettura; ma, dall’XI secolo sin quasi ai nostri giorni, grazie ad Anselmo d’Aosta, quella pluralità di prospettive si è cristallizzata nella teoria della “soddisfazione vicaria”. L’uomo, da Adamo in poi, ha offeso con il peccato la maestà divina; poiché la gravità dell’offesa è proporzionale alle dimensioni dell’offeso più che dell’offensore, il peccato dell’uomo è di una gravità infinita; solo un Dio, dunque, poteva offrire la satisfactio (soddisfazione) necessaria. Da qui la necessità che il Figlio stesso di Dio si incarnasse, soffrisse, morisse fra atroci tormenti sulla croce: al posto dell’uomo peccatore. Sino a pochi decenni fa, questa teoria anselmiana – vero capolavoro sintetico dell’incontro fra mentalità ontologizzante e mentalità giuridicistica – veniva ritenuta, dai credenti come dai non – credenti, l’unica ‘ortodossa’. Oggi il dibattito è aperto. Siamo proprio sicuri che questa teoria non presupponga un Dio prigioniero degli schemi legalistici? Non sono in essa scomparsi i temi prettamente neotestamentari (“la grazia, la misericordia, l’amore”) a favore di “una giustizia di stampo spiccatamente umano (iustitia commutativa)” tutta interna alla “logica” del “diritto romano”(28)? Ma c’è di più, e di peggio, almeno per l’ottica da cui ci stiamo interrogando sulla possibile influenza che una certa idea ‘cattolica’ di Dio abbia potuto esercitare nell’immaginario mafioso. La dottrina della “soddisfazione vicaria” legittima, a partire da Cristo stesso, la morte come “sacrificio espiatorio”(29). E “come negare che spesso proprio il concetto di sacrificio espiatorio fece insorgere, almeno nell’immaginazione popolare, incresciosi equivoci paganeggianti: quasi Dio fosse così crudele, così sadico nella sua collera, da poter essere placato solo col sangue del proprio figlio; quasi un innocente dovesse fungere da capro espiatorio per i veri peccatori?”(30). Ci si è chiesto come boss sanguinari abbiano potuto, per decenni di latitanza, conciliare la loro fede personale con una pratica omicida metodica e spietata. Se cerchiamo di entrare nelle loro menti e di navigare con le loro categorie culturali, ciò che a prima vista può sembrare inconcepibile acquista una sua tragica intelligibilità. Se Dio stesso, che è Dio, esige il sangue del figlio innocente per riparare le offese alla sua propria dignità, perché mai un uomo d’onore non dovrebbe esigere – allo stesso fine – il sangue dei parenti innocenti dei suoi nemici (e, a maggior ragione, il sangue dei nemici stessi)? Leoluca Bagarella (corresponsabile persino della esecuzione di un bambino reo soltanto di essere figlio di un ‘pentito’), secondo la testimonianza di un suo ex – collaboratore, più di una volta ebbe modo di compendiare questa convinzione con una impressionante consapevolezza teologica: “Devono capire tutti che io sono come Dio: do la vita e la riprendo a mio piacimento”.
e) Un Dio “tribale”
Il passaggio dal Dio di Gesù Cristo al Dio del cattolicesimo è anche un passaggio (o meglio: un ritorno indietro) dal Padre universale al Nume tutelare di una determinata comunità religiosa. Qualcuno ha provato a indagare a livelli radicali questa metamorfosi, aprendo delle prospettive vertiginose sulla storia della stessa cristologia: che sarebbe partita da Gesù annunziatore del Regno di Dio e, passando per l’affermazione secondo cui Gesù è Dio (=anche in Gesù è presente Dio, il Verbo di Dio), sarebbe pervenuta alla convinzione che Dio è Gesù (=solo in Gesù è presente Dio, il Verbo di Dio)(31). Senza addentrarci in queste problematiche, non possiamo non notare che una teologia “tribale” tende ad essere esclusiva rispetto agli ‘stranieri’: il Dio che protegge i ‘nostri’ è un Dio avverso – o, nel migliore dei casi, indifferente – agli ‘altri’.
In questa logica, ci si dovrebbe aspettare che il rapporto personale col Trascendente sia meno importante dell’appartenenza ad una tradizione religiosa locale così come l’impegno di solidarietà in senso etico-politico sia meno importante del ritualismo liturgico e del devozionismo privato. Ed è precisamente quanto osservano, di fatto, gli storici della cultura religiosa in Sicilia: “Tra le tante cause della mafia – scrive uno dei più attenti fra loro – c’è certamente da annoverare una cultura della solidarietà limitata alla famiglia, al clan, al campanile, molto diffusa in Sicilia, che, distorta dei suoi valori originari di umanizzazione dei rapporti, è stato possibile utilizzare per solidarietà antisociali. Chiamando in causa la cultura, facciamo riferimento al ruolo della Chiesa come matrice di mentalità collettive, e non solo della Chiesa. Ci chiediamo infatti: perché, nonostante una predicazione cristiana costante (…) si è rimasti imprigionati da un intreccio di solidarietà limitata, che nel passaggio alla modernità hanno costituito il terreno proprio in cui sono prosperati clientelismo e mafia?”(32). Dopo aver sottolineato la difficoltà della risposta, lo storico della chiesa propone, come ipotesi di lavoro, due “caratteristiche (…) significative della tradizione del cattolicesimo siciliano, annotandone solo i rischi della degenerazione: il modello devoto e la religione municipale. Una proposta di vita cristiana prevalentemente ascetica ed eremitica si prolunga quasi fino al novecento e sottolinea, nel modello devoto di santa Rosalia eremita, nobile e taumaturga, la fuga dalla città, luogo di crisi e la salvezza della città come dono che viene dall’alto, più ancora che come impegno dell’uomo insieme agli altri uomini nel cammino verso Dio. Prevale l’invocazione e l’attesa del miracolo come dono risolutore da parte del santo protettore. A questa proposta di vita cristiana faceva riscontro una religione municipale che nelle istituzioni religiose, municipali, nei santi patroni e nelle cerimonialità collettive fondava l’identità religiosa e civile della comunità locale. Non c’era quindi la distinzione tra appartenenza a una comunità civile distinta da quella religiosa. Da ciò una commistione tra civile e religioso che era di interessi non solo religiosi, ma anche economici, familiari, amministrativi, politici, e un clero che rimaneva sempre nel proprio paese d’origine, in seno alla propria famiglia, non estraneo alla sua ascesa sociale o ai suoi interessi e alleanze”(33).
f) La teologia cattolica è mafiogena?
La nostra indagine sui tratti di una possibile teologia ‘mafiosa’ ci ha condotti a rintracciare delle inquietanti compatibilità fra certi temi della teologia cattolica (tradizionale) con la mentalità di molti mafiosi (non pochi dei quali si rifanno esplicitamente a quella teologia appresa in parrocchia o in seminario). Non sempre, quando mi è capitato di esternare a voce(34) o per iscritto(35) questi dati di fatto, ho raccolto delle reazioni ‘scientifiche’: l’assenso, e più spesso il dissenso, si sono basati più su presupposti ideologici che su contestazioni oggettive. Poiché non sono mosso da intenti né apologetici né polemici, posso solo contribuire alla serenità dell’indagine chiarendo alcuni possibili fraintendimenti.
Uno dei più eclatanti consisterebbe nel ritenere che, a mio avviso, sia individuabile un rapporto di causalità fra la teologia cattolica e il fenomeno mafia. Sarebbe un’opinione quasi del tutto ingiustificata. Come ho precisato sin dalle prime righe di questo articolo, la mafia è un fenomeno complesso di cui la dimensione culturale è solo una accanto alle – e inseparabilmente dalle – altre (organizzativa, economica, politica): e di questa dimensione culturale quella teologica costituisce soltanto un segmento. La teologia cattolica non produce la mafia: asserirlo significherebbe esagerare indebitamente il ruolo dei fattori culturali nella formazione dei fenomeni storico-sociali (ed esagerare, all’interno della cultura mafiosa, l’incidenza degli aspetti teologici). Associazioni criminali di carattere mafioso sarebbero potute sorgere (e di fatto sono sorte in Giappone, in Russia, in Albania…) anche in Paesi diversi da quelli mediterranei (Italia, Francia) e latino-americani (Colombia) di tradizione cattolica; viceversa, Paesi di tradizione cattolica (Spagna, Austria) non hanno conosciuto fenomeni tipicamente mafiosi. La teologia cattolica contribuisce, però, alla concreta configurazione di questa mafia, nel senso che contribuisce alla strutturazione del concreto contesto culturale nel quale la mafia si è, di fatto, costituita e dal quale mutua parassitariamente (ora recependoli passivamente, ora rielaborandoli strumentalmente) simboli, credenze e pratiche: negarlo equivarrebbe a misconoscere indebitamente il ruolo dei fattori culturali nella formazione dei fenomeni storico-sociali(36).
Forse possiamo essere un po’ più articolati. Dire che la teologia cattolica ha influenzato solo parzialmente e solo indirettamente la formazione del codice culturale mafioso significa mettere in evidenza la funzione di mediazione svolta, di fatto, dalla cultura meridionale(37). Un percorso ipotizzabile storicamente, certamente tortuoso e complesso, potrebbe essere così sommariamente schematizzato: con la diffusione del cristianesimo fuori dai confini della Palestina, l’annunzio del vangelo originario si ‘incultura’ in tutta l’area mediterranea, attingendo ma anche inducendo idee e schemi di comportamento, in uno scambio biunivoco del quale non è facile stabilire benefattore e beneficiario. Il risultato che ne consegue è comunque osservabile da due punti di vista: dal punto di vista dell’annunzio evangelico che si trasforma in cattolicesimo romano-mediterraneo e dal punto di vista della cultura meridionale che (già impregnata di credenze, simboli e norme di origine greca e romana) si impregna ulteriormente di credenze, simboli e norme di origine cristiana. Alla fine, insomma, il vangelo risulta ‘tradotto’ e ‘interpretato’ in una cultura – quella meridionale – che, a sua volta, è stata ‘tradotta’ e ‘interpretata’ dal sistema di potere mafioso(38). Ecco perché non si può sostenere la mafiogenità della teologia cattolica come se essa fosse la fonte unica e determinante della mentalità mafiosa; ed ecco perché – di contro – non si può neppure sostenere la totale estraneità del cristianesimo storicamente incarnato (leggi: cattolicesimo romano-mediterraneo) rispetto al fenomeno mafioso. A meno che non si volesse sostenere – contro ogni evidenza storica e antropologica – che la cultura meridionale sia perfettamente esente da influssi cristiano-cattolici.
Più delicato, e più dettagliato, è poi l’indagine sul come storicamente si è attuato questo condizionamento culturale dell’organizzazione mafiosa e dei singoli mafiosi. Può darsi che in alcuni casi gli elementi cattolici presenti nella cultura meridionale abbiano suggerito esplicitamente alcune idee-guida ed alcuni modelli di comportamento(39); può darsi che, in altri casi, lo abbiano fatto obliquamente (per imitazione analogica o per deformazione caricaturale)(40); può darsi, ancora, che in molti altri casi abbiano contribuito alla formazione di una determinata mentalità non positivamente, ma negativamente (nel senso che hanno svalutato alcuni aspetti etici ed hanno costituito uno sfondo neutro, una sorta di terreno amorfo privo della capacità di opporsi ai germi della cultura mafiosa)(41).
g) E’ possibile una teologia antimafiosa?
Se la teologia cattolica è – attraverso l’intreccio con i codici culturali mediterranei – una condizione di possibilità dell’ideologia mafiosa (per lo meno, degli aspetti teologici della dimensione culturale della mafia), si pongono delle questioni impegnative: una società progressivamente secolarizzata, libera dall’influsso teologico cattolico, sarebbe una società meno favorevole alla riproduzione del sistema mafioso?
Per abbozzare una risposta è importante, prima di tutto, leggere ciò che è già avvenuto. L’esperienza storica ci fa registrare – almeno a mio parere – un ridimensionamento della fondazione culturale sacrale della mafia(42) conseguente al fenomeno sociologico più generale della ‘secolarizzazione’ della società occidentale(43); ma questo ridimensionamento non ha contribuito a rendere la mafia meno perniciosa. La mafia ‘secolarizzata’ è, forse, meno legittimata dal punto di vista del consenso sociale ma, certo, non meno spietata metodologicamente. Lo stereotipo di una mafia ‘antica’, sostanzialmente ‘buona’, cui sarebbe succeduta una mafia ‘nuova’, sostanzialmente ‘feroce’ è inaccettabile: ma nessuno potrebbe rovesciarlo sostenendo una umanizzazione progressiva delle modalità di dominio e di lotta del sistema mafioso. Se ciò è inoppugnabile sul piano della rilevazione storico-sociologica, non credo si possano auspicare, sic et simpliciter, ulteriori tappe del processo di secolarizzazione in funzione del ridimensionamento del fenomeno mafioso: le matrici che si vanno sostituendo a quelle cattoliche nella cultura mediterranea (pensiamo soprattutto al codice culturale borghese – capitalistico) non risultano più promettenti dal punto di vista di una possibile rivolta popolare contro il sistema di potere mafioso. Come ho potuto argomentare meno succintamente in altre occasioni(44), l’individualismo liberale con la sua costellazione di ‘valori’ (il successo economico, la popolarità ad ogni costo, l’accentuazione della sfera privatistica rispetto all’impegno politico, il consumismo, l’atteggiamento predatorio nei confronti dell’ambiente naturale…) costituisce un orizzonte culturale troppo omologo rispetto alla cultura mafiosa ‘secolarizzata’ per poterne rappresentare un antidoto ed un’efficace alternativa.
La lunga e accidentata strada verso la liberazione dalle mafie difficilmente, dunque, passerà per una cultura ‘individualistica’ e ‘post-moderna’ che irrida ogni affermazione teologica ed etica. Più efficace sarebbe una ri-conversione degli spezzoni teologici della cultura meridionale alla luce delle fonti evangeliche e delle acquisizioni del pensiero contemporaneo sì da trasformarli in fattori di liberazione etico-sociale(45). Proprio i tratti salienti del Dio dei mafiosi potrebbero suggerire, per contrasto, i tratti qualificanti di un Dio insequestrabile dall’ideologia mafiosa. Si tratterebbe di ripensare l’onnipotenza di Dio, spogliandola di ogni carattere antropomorfico e recuperandone l’estrema discrezione nei confronti dell’arbitrio umano; di ripensare la trascendenza di Dio, liberandola da ogni responsabilità rispetto alla gerarchizzazione dei rapporti umani; di ripensare la gratuità di Dio emancipandola da qualsiasi logica contrattualistica e clientelare; di ripensare la tenerezza di Dio evidenziandone l’irriducibile estraneità ai meccanismi sacrali della vendetta su un ‘capro espiatorio’; di ripensare l’unicità di Dio quale criterio di giudizio ultimo su ogni tentativo umano di costringerlo entro recinti concettuali e istituzionali localistici. In una parola, si tratterebbe di ripensare la teologia cristiana così come, concretamente, si è andata strutturando nel contesto culturale mediterraneo(46). Non pochi teologi e filosofi d’ispirazione cristiana si dedicano a questo immane compito, talora ostacolati da quel magistero ufficiale che dovrebbe – per ufficio – incoraggiarli e sostenerli: in queste pagine non possiamo non sottolineare come a tali prospettive sconfinate si arriva anche partendo da problematiche circoscritte e limitate come la domanda sul Dio dei mafiosi.
Note
(1) E. CHIAVACCI, La mafia alla luce della parola di Dio, in A. CAVADI (a cura di), Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia, Dehoniane, Bologna 1994, vol. I, p. 149.
(2) F. M. STABILE, Uno storico della Chiesa, in A.CAVADI (a cura di), Il vangelo, cit., vol. II, p. 100.
(3) R. SCARPINATO, Il Dio dei mafiosi, “Micromega”, 1998, 1, pp. 45-68. Nonostante il titolo, il saggio si sofferma più sull’etica mafiosa che sulla teologia. Sulla concezione di Dio in senso proprio non è stato scritto ancora nessun contributo organico.
(4) Cfr. il “paradigma della complessità” in U. SANTINO, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1995, pp. 129 e ss. Più che di ‘cultura’ mafiosa, o peggio ancora di ‘subcultura’, l’autore preferisce parlare di ‘transcultura’, intesa come “percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui possono convivere ed alimentarsi funzionalmente aspetti arcaici come la signoria territoriale e aspetti modernissimi come le attività finanziarie, aspetti subculturali derivanti da codici associazionistici ed altri aspetti ‘postindustriali’. Un concetto dinamico, aperto a nuovi ‘valori’, contraddittorio eppure con una sua capacità di equilibrio, complesso per quanto riguarda la collocazione della mafia nel contesto, comprendendo un ampio ventaglio di possibilità che vanno dalla compenetrazione alla complicità, dalla concorrenza al conflitto” (in G. CHINNICI – U. SANTINO, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni ’60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1989, p. 378). Esplicitando questo suggerimento, mi è capitato di distinguere il caso delle comuni associazioni a delinquere da quello della mafia: “un’associazione a delinquere, di solito, non ha un’identità culturale specifica: ogni membro parla la lingua degli strati sociali da cui proviene e solo alcune esperienze biografiche comuni (ad esempio lunghe detenzioni in galera) riescono a produrre – non sempre con successo – delle omologazioni di vedute e di sensibilità fra gli adepti. La mafia, invece, tende ad avere una sua filosofia della vita, un suo linguaggio, un suo mondo simbolico: il suo codice culturale non si lascia ridurre interamente a quello di uno strato sociale determinato (aristocrazia; alta, media o piccola borghesia; proletariato; sottoproletariato), ma viene interiorizzato e condiviso un po’ da tutti gli adepti” (La cattiva novella. La tavola dei ‘valori’ mafiosi, “Horeb”, 1994, 7, p. 7).
(5) E’ stata evidenziato il fatto che sia necessario “to re-evaluate the symbolic and moral dimension of mafia relations, a dimension which had practically been expunged from the analyses of the mafia phenomenon carried out in the last fifteen years largely owing to the fact that these studies were set in opposition to the view that presented mafia merely as a cultural attitude” (L. PAOLI, The pledge to secrecy. Culture, Structure and Action of Mafia Associations, Tesi di dottorato presso l’Università europea, Firenze 1997, p. 15).
(6) Ho cercato di sviluppare questi temi nella voce “Pedagogia” del cd-rom La mafia. 150 anni di storia e storie (realizzato da Cliomedia Officina di Torino e distribuito da “Repubblica”).
(7) N. FASULLO, Una religione mafiosa, “Synaxis”, 1996, 1, p. 85. Non mi pare difficile dimostrare, infatti, che la mafia abbia saputo, sia pur un po’ rozzamente, utilizzare altri “apparati ideologici” oltre che quello teologico: pensiamo all’uso di proverbi, massime, favole; a certa letteratura popolare; a certa storiografia meridionalistica…
(8) Mi riferisco, evidentemente, agli studi decisivi e illuminanti di René Girard. Quello che lui dice a proposito dei riti sacrificali, si potrebbe adattare a molte norme e pratiche del mondo mafioso che – apparentemente – non hanno nulla di ‘religioso’: “Invece di negare la teologia in blocco e in modo astratto, il che equivale all’accettarla docilmente, occorre criticarla” (La violenza e il sacro, Adelphi, 1986, ed. or. 1972, p. 21). Ma per alcune avvertenze critiche sull’impianto complessivo vedi V. PONTELLO, Violenza e sacrificio: altre note su René Girard, “Religioni e società”, 1992, 13, pp. 139-142.
(9) Partendo dalla premessa che “nel sistema penale non vi è alcun principio di giustizia che differisca realmente dal principio di vendetta” perché in entrambi i casi agisce il medesimo principio – “quello della reciprocità violenta, della retribuzione” (La violenza, cit., p. 31) – Girard conclude che “è nelle società sprovviste di sistema giudiziario e minacciate di conseguenza dalla vendetta che il sacrificio e il rito in generale devono avere un ruolo essenziale” (p. 34). Nel caso del sistema mafioso, comunque, bisogna essere più precisi. Se il sistema mafioso fosse del tutto anomico e in balìa del capriccio individuale, dovremmo aspettarci in esso un “ruolo essenziale” della ritualità come unico apparato di conservazione sociale; se, al contrario, fosse dotato di un ordinamento giudiziario autonomo e parallelo all’ordinamento statuale, dovremmo aspettarci quel superamento pressoché totale della ritualità che osserviamo nelle società secolarizzate contemporanee. Siccome, in realtà, a mio avviso, nel sistema mafioso esiste un certo ordinamento giudiziario (con i suoi codici non scritti, con le sue procedure, con i suoi giudici, con le sue sentenze…), ma senza le caratteristiche di oggettività, imparzialità ed insindacabilità del corrispondente ordinamento statale (i ‘pentiti’ denunziano una grave arbitrarietà nell’esercizio della ‘giustizia’ da parte dei boss mafiosi), non tutta la violenza viene imbrigliata e gestita ‘giuridicamente’ e molto resta da affidare al ruolo del ‘religioso’. Non è d’altronde una situazione analoga alle società attuali – coeve rispetto al sottosistema mafioso – in cui il potenziale di violenza collettivo ha ancora bisogno di “riti” e “sacrifici” ben al di là delle ‘liturgie’ giudiziarie?
(10) Il rischio di leggere la teologia mafiosa a partire dalla “cultura premoderna del familismo sociale” (R. SCARPINATO, Il Dio dei mafiosi, cit., p. 50) è duplice: si potrebbero trascurare, infatti, i legami della cultura mafiosa con la cultura occidentale (con cui interagisce) e, conseguentemente, le continue modificazioni cui sono entrambe sottoposte lungo lo sviluppo della storia. Mi pare importante, al contrario, chiedersi se il processo di secolarizzazione che ha investito il mondo occidentale – soprattutto negli ultimi cento anni – non abbia inciso a suo modo nella visione-del-mondo dei mafiosi e nella loro concezione religiosa in particolare, rendendo la loro organizzazione più ‘laica’ (con tutte le implicanze, positive e negative, dell’orizzonte secolarizzato, sulle quali torneremo alla fine del presente contributo).
(11) R. SCARPINATO, Il Dio dei mafiosi, cit., pp. 59-60.
(12) La citazione è nello stesso saggio di Scarpinato, a p. 60.
(13) L’articolo, originariamente pubblicato col titolo Chiesa e mafia ne “Il Regno-attualità” (1992,12, pp. 347-349), è stato ripubblicato col nuovo titolo Abbozzo di una riflessione teologica ‘cattolica‘ in A. CAVADI (a cura di), Il vangelo e la lupara, vol. I, cit., pp. 157-162.
(14) Cfr., ad es., Amos 11, 1-4: “Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me…Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”; Isaia, 49,15: “Si dimentica forse una donna del suo bimbo lattante, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Se anche quella lo dimenticasse, io invece non lo dimenticherò!”; Isaia 66, 13: “Come una madre consola suo figlio, così io vi consolerò”. A questi brani si riferì Giovanni Paolo I nel breve discorso per l’Angelus del 3 settembre 1978 quando, a proposito di Dio, esclamò: “E’ papà; più ancora, è madre”.
(15) “Resta vero che tanto nella storia dell’antico Israele quanto in quella di Gesù e della prima chiesa l’immagine divina percepita e vissuta presenta un Dio bifronte, un duplicato del Giano della mitologia romana, il quale dà la vita e la morte, premia e castiga, grazia e condanna. Al di là delle evidenti differenze infatti la bibbia giudaica e quella cristiana si accordano circa lo ‘zoccolo duro’ del problema teologico della violenza, testimoniando parimenti la credenza in Dio giudice, che alla fine discriminerà buoni e cattivi donando agli uni la vita eterna e infliggendo agli altri la condanna eterna. Vi è in questo l’estrema concessione che il pensiero biblico ha fatto al potere della violenza come mezzo di salvezza e di giustizia: un ultimo e definitivo potente gesto divino di violenza che vale l’instaurazione di una pace universale, perfetta e indefettibile. D’altra parte non si può non rilevare nella bibbia giudaica e in quella cristiana la testimonianza altrettanto chiara, anche se minoritaria, di un Dio che non reagisce ‘mimeticamente’, direbbe R. Girard, all’azione umana, accogliendo quelli che lo accolgono e rifiutando quanti lo rifiutano. Voglio dire che non poche volte egli è rappresentato come colui che non ripaga il male con il male, al contrario dona la vita parimenti al buono e al malvagio, senza discriminazione alcuna” (G. BARBAGLIO, Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane, Cittadella, Assisi 1991, p. 21). Dopo aver richiamato alcuni passaggi del Primo ” (Ezechiele 20, 9.14.15.17.27) e del Secondo Testamento (Matteo 5, 45) a suffragio della sua “ipotesi di lavoro”, l’apprezzato biblista conclude: “In realtà bibbia giudaica e bibbia cristiana presentano ugualmente, anche se con diverse sottolineature, un Dio bifronte e, nello stesso tempo, un Dio di pura grazia. Detto altrimenti, offrono un’immagine divina reattiva all’agire umano, per cui al rifiuto umano corrisponde il rifiuto divino e all’accettazione umana l’accettazione divina, e anche un’altra immagine di Dio indiscriminatamente impegnato nella salvezza di tutti, imparzialmente fonte di vita per gli uomini. Dunque, rispetto al problema teologico della violenza, considero bibbia ebraica e bibbia cristiana fondamentalmente sullo stesso piano, anche se riconosco che ha avuto luogo un certo sviluppo positivo nel senso della non- violenza. Infatti ambedue presentano la suddetta schizofrenia: una sola faccia di Dio costruttiva e vivificatrice e due facce divine, l’una costruttiva e l’altra distruttiva. Il tentativo di soluzione dovrà partire da questa onesta constatazione, che evita di contrapporre bibbia ebraica e bibbia cristiana e, nello stesso tempo, non si rifugia nella fallace concezione di una bibbia cristiana priva di violenza divina e punto di arrivo di un processo evolutivo dagli inizi tenebrosi capace di riscattare la precedente storia fallimentare” (pp. 21-22).
(16) R. SCARPINATO, Il Dio dei mafiosi, cit., p. 60. Subito dopo l’autore suggerisce un parallelismo: “Lo stesso Dio di tanti dittatori di fede cattolica spirati nel loro letto convinti di avere bene operato e con tanto di benedizione”.
(17) Ivi, p. 67.
(18) Ivi, p. 66.
(19) Il cristianesimo ha prodotto le conversioni forzate dei Sassoni ad opera di Carlo Magno, ma anche l’equiparazione di schiavi e liberi all’interno della stessa comunità monastica ad opera di Benedetto da Norcia; lo strapotere dei vescovi-conti ma anche le istanze dei movimenti pauperistici (patari, valdesi, gioachimiti…); il delirio teocratico di Innocenzo III, ma anche la profezia incancellabile di Francesco d’Assisi; il trionfalismo arrogante di Bonifacio VIII ma anche la difesa intransigente della communitas politica da parte di Marsilio da Padova; il tetro controriformismo di Filippo II di Spagna ma anche la sincera difesa degli Indios da parte di Bartolomeo de Las Casas; l’alleanza di Lutero con i principi tedeschi, ma anche la lotta di Thomas Muentzer a fianco dei contadini anabattisti; le bombe sul Viet-Nam del presidente Lindon Johnson, ma anche il movimento anti-segregazionista del reverendo Martin Luther King; i documenti dei cappellani militari toscani, ma anche le lettere di don Milani a favore dell’obiezione di coscienza; Mons. Marcinkus e gli oscuri enigmi delle banche vaticane, ma anche i vescovi ed i teologi della liberazione sudamericana…
(20) Se non si può mantenere lo stereotipo superficiale dell’assoluta irriducibilità della visione del mondo cattolica rispetto alla visione del mondo mafiosa, sarebbe altrettanto superficiale l’identificazione fra le due. Come mi è capitato di affermare a proposito di alcuni aspetti etici (l’intangibilità dell’onore femminile, la fedeltà alla memoria dei padri, il ricorso ai ‘santi protettori’ …), “si tratta di elementi presenti nella cultura religiosa tradizionale che, di per sé, non sono necessariamente ‘mafiosi’ ma che, di fatto, sono stati assunti e metabolizzati dalla visione del mondo mafiosa. Per esprimere questa ‘traduzione’ si potrebbe forse dire che si tratta di valori analogamente mafiosi, nel senso che – restando essenzialmente quelli che sono – si prestano ad un’attuazione in parte simile e in parte dissimile rispetto a quella originaria” (A. CAVADI, Per una pedagogia antimafia, in ID. (curatore), A scuola di antimafia, Csd “G. Impastato”, Palermo 1994, pp. 105-106). Ma su questo tornerò nelle pagine seguenti.
(21) Proviamo a dirlo sinteticamente – e, dunque, un po’ approssimativamente. I greci avevano, da Socrate e Platone in poi almeno, maturato l’esigenza di capire “che cos’è” la giustizia, “che cos’è” la bellezza, “che cos’è” l’uomo, “che cos’è” Dio… Quando incontrano il messaggio biblico, alcuni lo respingono come teoreticamente irrilevante(è il partito, destinato alla sconfitta almeno nel medio periodo, dei ‘pagani’); altri lo accolgono ma in quanto suppongono che esso offra delle risposte adeguate alle loro esigenze intellettuali (è il partito, destinato al successo almeno nel medio periodo, dei ‘cattolici’). Se avesse vinto la reazione pagana, oggi non avremmo memoria del cristianesimo; poiché ha vinto l’innovazione cattolica, oggi rischiamo di avere un’immagine irreversibilmente ‘falsata’ del cristianesimo. Esso, infatti, nella proposta e nel progetto di Cristo non si collocava sullo stesso piano dei tentativi ‘filosofici’ di decifrare l’enigma dell’essere: le questioni ontologiche erano estranee – per metodo – alle prospettive profetiche. Il vangelo non era più di una filosofia né meno: era altro. Era l’annunzio dell’avvicinarsi del “regno di Dio”: l’annunzio di una liberazione dalle sofferenze che sfiguravano il volto dell’uomo – soprattutto degli ultimi – compromettendo la volontà originaria di Dio. Forse si potrebbe dire che Gesù testimonia una nuova ‘prassi’, ma a patto di non intendere il termine in senso riduttivo. Se ‘prassi’ è un modo di essere e di rapportarsi al mondo delle cose e degli uomini, prima e più che un semplice ‘agire’ o addirittura un più modesto ‘fare’, Gesù incarna una ‘nuova’ prassi: propone che i rapporti umani si rimodellino sulla prassi di Dio. Il pensiero religioso più maturo del Nuovo Testamento – che la tradizione attribuisce all’apostolo Giovanni – sintetizza questa ‘novità’ abissale con una definizione che è la negazione di ogni definizione ontico-giuridica: “Dio è amore” (I Gv., 1). Interrogare la Bibbia è come parlare della vita con un vecchio contadino: sarebbe segno di falsa superiorità misconoscerne la saggezza esistenziale e non lasciarsi contagiare dalla tensione etica con cui ha esperito e vissuto il rapporto con la terra, con gli uccelli, con gli amici, con la compagna fedele; ma sarebbe segno di imperdonabile ingenuità recepire acriticamente, come insegnamenti altrettanto preziosi, le argomentazioni logiche e le giustificazioni culturali con cui dovesse, accidentalmente, veicolare la sua testimonianza. Come ebbe una volta ad esprimersi Galileo Galilei, la Scrittura non ci dice come è fatto il cielo (è il compito della ragione), ma come si va al cielo.
Quasi con le stesse parole si potrebbe rileggere l’equivoco giuridicista. I romani, quando si sono incontrati col cristianesimo primitivo, avevano già elaborato delle raffinate categorie giuridiche: da una parte le hanno applicate al movimento religioso emergente, dall’altro hanno cercato in esso più autorevoli criteri per distinguere il ‘giusto’ dall”ingiusto’. Contro tutte le sue intenzioni, dunque, Gesù si è trovato ad essere storicamente interpretato come legislatore e moralista: si è scandagliato ogni minima piega del suo comportamento e del suo insegnamento per soddisfare legittime (ma intempestive) curiosità sulle norme, individuali e collettive, da adottare.
(22) L’umanesimo, la Riforma protestante, il ‘modernismo’ cattolico costituirono (dal XVI al XX secolo) alcuni dei più vigorosi tentativi di restituire la proposta cristiana alla forma originaria, liberandola dalle sovrastrutture e dalle superfetazioni moltiplicatesi attraverso i secoli: dopo il Concilio Vaticano II (1965) l’intera chiesa cattolica presenta un ventaglio molto ampio che va dai nostalgici restauratori di una tradizione tutto sommato recente e i fautori di un ritorno alle fonti che, nonostante l’intento, vengono comunemente etichettati come ‘progressisti’.
(23) Anche senza scomodare la biblioteca religiosa di ambiente monacale e clericale, possono bastare testimonianze ancora recenti come quella di don Milani e di padre J. Comblin. Il primo, scrivendo ai cappellani militari, chiede: “Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione di ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine di un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?”(L. MILANI, L’obbedienza non è più una virtù e gli altri scritti pubblici, Stampa Alternativa, Roma 1998, ed. or. 1965, p. 27). Il secondo, rispondendo alle domande dell’intervistatore, afferma: “Praticamente per cinque secoli, la Chiesa ha predicato l’obbedienza come sintesi di tutte le virtù cristiane. ‘Chi obbedisce, non sbaglia mai’, dicevano ai miei tempi in seminario. Il risultato fu che la paura si sparse nel mondo religioso e nelle relazioni sociali, smorzando qualsiasi tipo di discussione sugli abusi dell’autorità. Questo in un certo modo persiste nella Chiesa e nella società” (P. LIMA, Chi ha paura della libertà? Intervista al teologo Joseph Comblin, “Jesus”, XX (1998), 12, p. 16).
(24) R. SCARPINATO, Il Dio dei mafiosi, cit., pp. 46-47.
(25) Ivi., pp. 48-50.
(26) Ivi, pp. 55-56. Subito dopo l’autore commenta: “Esiste a questo riguardo una straordinaria analogia con l’atteggiamento degli ufficiali nazisti che, nel processo di Norimberga, si giustificarono assumendo che il dovere di un soldato è quello di eseguire gli ordini”.
(27) U. SANTINO, Appunti su Chiesa e mafia, in AA. VV., La Chiesa si lascia pro-vocare. Credenti e laici discutono i problemi più gravi del nostro tempo, Centro “Paolo Borsellino”, Palermo 1995, pp. 45-46. Osservazioni simili in L. SCIASCIA, La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Mondadori, Milano 1979, p. 129: “Prendiamo ad esempio il culto di Santa Rosalia a Palermo: esso ha avuto origine con la peste che devastava la capitale siciliana quando questa si trovava sotto la protezione di Santa Cristina. Nonostante le offerte e i doni a questa santa, l’epidemia non scompariva e decimava la popolazione. Allora i palermitani, che sono realisti, decisero di cambiare santa patrona e di rivolgersi per aiuto a Santa Rosalia. La peste si attenuò, poi scomparve. E’ chiaro che i palermitani hanno trattato santa Cristina come un vecchio capomafia che avesse perduto il suo potere e che doveva essere fatalmente sostituito da un capomafia più giovane e dinamico. Vede, nell’animo del siciliano le faccende celesti si svolgono come quelle terrene: anche lassù ci sono capomafia, ‘padrini’, ‘confidenti’ e mafiosi”.
(28) H. KUENG, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1979, p. 478 (ma vedi per intero le pp. 473-493).
(29) Se vogliamo usare la griglia di lettura proposta da Girard, potremo dire che il meccanismo del ‘capro espiatorio’ è tipico di tutte le religioni (dunque di tutte le culture); che la bibbia (ebraica e soprattutto cristiana, almeno nella corrente ‘profetica’ ed ‘evangelica’) ha smascherato questo meccanismo violento, ma che la teologia successiva al Nuovo Testamento non ha retto l’altezza raggiunta ed è ricaduta nella logica anteriore: “i teologi (…) ri-sacralizzano la violenza desacralizzata dal testo evangelico” (R. GIRARD, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987, ed. or. 1982, pp. 201-202). La religione che ri-sacralizza la violenza è la religione ‘borghese’? Sì, anche, ma – si può constatarlo facilmente – non solo: qui sono in questione categorie ben più impegnative di quelle socio- economiche.
(30) H. KUENG, Essere cristiani, cit., p. 479.
(31) Cfr., ad esempio, le riflessioni di Raimundo Panikkar sulla necessità di superare la cristologia in senso convenzionale con una nuova cristofania: “La maggior parte degli studiosi oggi concorda che, con ogni probabilità, per duemila anni il JHWH degli ebrei fosse un Dio tribale, uno fra molti altri, spesso più potente, anche se non più crudele. C’è voluta una lunga e dolorosa evoluzione, ed è stata soprattutto l’opera dei grandi profeti d’Israele, per convertire il Dio tribale degli ebrei nel Dio più universale del giudaismo delle epoche più tarde, un Dio per tutti e di tutti”. Ma con il cristianesimo, ritorna la tentazione di identificare – senza residui – il Verbo di Dio con l’uomo Gesù, restringendo l’infinito in un punto particolare della storia: da qui il compito dei cristiani del nostro tempo di “convertire – sì, convertire – la cristologia tribale in una cristofania meno settaria” (R. PANIKKAR, Cristofania. Nove tesi, Dehoniane, Bologna 1994, pp. 31-32).
(32) F. M. STABILE, Coscienza ecclesiale e fenomeno mafioso in A. CAVADI (a cura di), Il vangelo e la lupara, cit., vol. I, p. 13.
(33) Ivi, pp. 13-14.
(34) Vedi dispense dattiloscritte distribuite ai partecipanti al seminario su “Chiese e mafia” svoltosi presso la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo il 24. 2. 1994.
(35)Vedi Il Signore non sia con loro, “A sinistra”, 1993,5, pp. 24-31 (il contributo è mio ma, per un curioso errore tipografico, risulta di Angelo Avadi).
(36) La discussione sulla mafia, anche in questo caso, impone aperture d’orizzonti insospettabili sulle grandi questioni teoretiche. Proviamo a circoscriverne almeno una. Riguarda la filosofia della storia: in che misura la ‘cultura’ di una società (credenze, pregiudizi, saperi, abitudini, istituzioni, norme…) incide sul comportamento effettivo degli esseri umani – e dunque sulla costituzione di fenomeni sociali come la mafia? In qualche caso mi sono ritrovato inserito fra gli esponenti dell’ “approccio ‘culturalista’ ” secondo cui la mafia andrebbe “considerata primariamente come ‘cultura’, cioè come un fenomeno che ha attinenza con un certo modo diffuso di essere dell’uomo siciliano, le cui radici affondano nel tempo” (C. NARO, Inculturazione della fede e ‘ricaduta’ civile della pastorale, in “Sinaxis”,1996,1, p. 59). Per la verità mi riesce un po’ difficile riconoscermi in questa collocazione. Più articolata mi è sembrata la ricostruzione di alcuni miei modesti contributi operata da Michele Vittori (La transcultura mafiosa: riflessioni analitiche ed indicazioni metodologiche per una comprensione antropologica del fenomeno mafioso, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, inedita, pp. 215-224): effettivamente, a mio parere, la mafia è un “fenomeno sociale e culturale ibrido ed agente di ibridazione nell’ambiente circostante (…) che ha adottato, ricostruito e diffuso buona parte dei codici culturali dominanti” (ivi, p. 219). Allo stato attuale delle mie riflessioni, comunque, ci terrei a sottolineare l’aspetto dialettico della mafia come fenomeno sociale e del contesto culturale in cui è nata: mi sembra infatti che essa non solo “attraversa, utilizza e stravolge” (p. 221) le due “culture dominanti” nel Mediterraneo dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi (la cattolica e la borghese), ma da esse è a sua volta impregnata nel suo costituirsi e nel suo svolgersi. Insomma, per cercare di essere ancora più chiaro, direi che la ‘cultura’ di una società (segnatamente dei suoi ceti più influenti) condiziona fortemente idee e decisioni dei singoli, ma non le determina meccanicisticamente. Le condiziona perché ciò che siamo non è intelligibile senza il contesto culturale nel quale la nostra personalità si è andata profilando: ma, proprio ai medesimi stimoli culturali, alle medesime tradizioni collettive, ognuno di noi reagisce in maniera potenzialmente innovativa e, comunque, di volta in volta originale. Come è stato notato anche dalle scienze pedagogiche, alla fine nessuno di noi è la somma (statica) di fattori ambientali e di fattori innati: piuttosto è il prodotto (dinamico), sempre imprevedibile, dell’educazione e delle doti genetiche. Ammettere questo margine di creatività – per quanto relativa, limitata – è arduo per chi cerca di decifrare le ‘leggi’ della storia perché introduce delle variabili individuali che rendono problematica ed ipotetica ogni forma di generalizzazione: il determinismo antropologico sarebbe estremamente più semplice, ma non per questo più vero. Quando si osserva che in uno stesso quartiere giocano da bambini Falcone e i boss della mafia che poi egli sottoporrà ad interrogatorio; che nelle stesse scuole studiano, provenienti da famiglie di omologa estrazione sociale, sia politici assassinati sulla via del rinnovamento sia politici collusi con il sistema di dominio mafioso o addirittura ad esso ‘interni’; che negli stessi oratori di periferia matura in alcuni la decisione di entrare in polizia rischiando la vita come scorta armata, in altri la decisione di entrare in Cosa Nostra per una carriera di violenza e di sangue…non può reggere alcuna pretesa di spiegare esaustivamente il rapporto fra condizionamenti culturali e biografie individuali. La storia collettiva che, alla fine, ne risulta è l’intreccio complesso di decisioni personali che sono sempre in rapporto con le situazioni storico – culturali di partenza: ora per dipendenza passiva ora per opposizione radicale ora per adattamento compromissorio.
(37) In più occasioni mi è stato fatto notare che la nozione di ‘cultura meridionale’ è troppo generica per essere scientificamente attendibile. Riconosco che si tratta di una categoria da usare con molta prudenza e da tematizzare ulteriormente, sapendo già che va analizzata sincronicamente (cultura contadina, cultura marinara, cultura urbana…) e periodizzata diacronicamente (non siamo certo in presenza di una costante metafisica, o naturalistica, che permane inalterata nella storia); tuttavia non mi pare che – allo stato attuale della ricerca – sia preferibile farne a meno. Per limitarci al caso della Sicilia, sarebbe strano se precise circostanze fisico-geologiche (un’isola al centro di un mare su cui si affacciano etnie e civiltà differenti) e storico-sociali (successive, incessanti invasioni ad opera di dinastie ed eserciti provenienti dai quattro punti cardinali: ogni inserimento ‘esterno’ ha modificato il tessuto socio-culturale costituito dalla sedimentazione delle influenze precedenti) non incidessero su usi e costumi, pregiudizi e tradizioni, degli abitanti: suggestioni interessanti si trovano nell’opera letteraria di Leonardo Sciascia, a parere del quale “un’autentica identità sicula è riuscita a conservarsi attraverso i secoli” (La Sicilia come metafora, cit., p. 43; vedi anche Sicilia e sicilitudine in La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi, Torino 1970, pp. 11-17 ) e, di recente, in F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996. Un tentativo pioneristico, non privo di ingenuità scientifica, è costituito da S.B. RANDAZZO, Sicilianità. Subcultura, tradizioni, ethos e comportamenti, tendenzialità, Edi Oftes, Palermo 1985 (sul quale ha appuntato dure critiche M. VITTORI, La violenza dello stereotipo, “Segno”, 1998, 200, pp. 197-201: questo numero della rivista, dedicato agli Atti della IV Settimana Alfonsiana sul tema “Religione, violenza, vangelo”, offre diversi spunti di riflessione). Qui si prova anche, opportunamente, a differenziare geograficamente la regione suggerendo che essa si componga: “a) di tre sue culture, da assegnare ai tre Valli (Demone, Noto, Mazara); b) di tratti differenziati nella Contesa di Modica; c) di peculiari comportamenti nei confini dei tre Valli (o zone d’ombra culturale), avendo per scontato che i tratti comuni delle accennate sub-culture manifestano varianti nelle singole comunità (o paesi o città) in corrispondenza alle date di origine, alla finalità per cui erano state fondate, alla classe egemone che ne aveva gestito la politica e ai rapporti di vicinato intra ed extra comunitario” (pp. 10-11, ma anche 109-115).Queste differenziaioni devono fare i conti però con quei due potenti fattori di omologazione culturale, a livello non solo regionale ma almeno nazionale, che – secondo il celebre avvertimento di Pier Paolo Pasolini – sono la TV e la Scuola media unificata.
(38) Come si vede, il problema storico – culturale del rapporto fra teologia cristiana e codice culturale mafioso si sdoppia alla luce della realtà, intermedia, della cultura ‘meridionale’ (e ‘siciliana’ in particolare): c’è da indagare meglio a) sulla inculturazione della teologia cristiana nella cultura meridionale e b) sul rapporto fra cultura meridionale e codici culturali mafiosi. Su questo secondo rapporto va sottolineato che il confine fra cultura mafiosa e cultura meridionale è “sottile, ma decisivo (…). Facile sarebbe identificare totalmente le due culture, col risultato di non capire né le profonde differenze fra aree culturali dello stesso Meridione (la Sicilia non è la Basilicata, anzi la provincia di Palermo non è la provincia di Siracusa) né il fatto che da una medesima cultura sono emersi movimenti e personaggi mafiosi, ma anche movimenti e personaggi fortemente impegnati – non di rado sino al versamento del sangue – nella lotta contro la mafia; ed altrettanto facile sarebbe separare totalmente le due culture riducendo la mafia a un ‘tumore’ del tutto estraneo al tessuto culturale meridionale, da ricondurre in toto ad errori compiuti dalla ‘piemontizzazione’ dopo l’unificazione italiana della seconda metà dell’Ottocento. La verità va cercata, probabilmente, in direzione di un intreccio fra tradizione culturale meridionale e mentalità mafiosa: nel senso che la mafia ha mutuato dalla cultura meridionale intuizioni sapienziali, paradigmi di comportamento, consuetudini e stili di vita (per cui senza lo sfondo della cultura meridionale la mafia sarebbe una realtà totalmente altra, irriconoscibile); ma questa mutuazione di concezioni e di modelli ha costituito una delle possibili ‘traduzioni’ e ‘interpretazioni’ della tavola dei valori meridionali, da osservare in comparazione con altre possibili ‘rielaborazioni’ che non solo sarebbero legittime in teoria ma che anche storicamente si sono realizzate in aree geografiche e soprattutto in aree sociali aliene dalla mentalità mafiosa. Detto altrimenti: la cultura meridionale è la condizione di possibilità della cultura mafiosa e in questo senso, ma solo in questo senso, una sua con-causa; ma se la mafia non ci sarebbe senza la cultura meridionale, la cultura meridionale potrebbe darsi – ed anzi, effettivamente, si è data per milioni di meridionali in epoche successive – senza la mafia” (A. CAVADI, La cattiva novella, cit., p. 8).
(39) Il fatto che un capo mafia al vertice della piramide organizzativa, come Michele Greco, sia stato comunemente chiamato “il papa” getta una luce inquietante sulla ipotesi che i mafiosi abbiano inteso riprodurre un modello di autorità tipicamente cattolico e di cui, già nell’Ottocento, eminenti figure di pensatori cristiani come Antonio Rosmini sottolineavano la distanza dal progetto originario di Cristo e dalla prassi democratica dei primi secoli (ho sviluppato questo punto in Il Signore non sia con loro, cit., p. 27).
(40) E’ impressionante leggere i resoconti delle cerimonie iniziatiche (oggi, pare, non più inevitabili come sino a pochi decenni fa) in cui il novizio, attraverso un simbolismo ‘battesimale’ di morte e di resurrezione, diventa un uomo ‘nuovo’ per il quale l’associazione costituisce un orizzonte di riferimento assoluto; talora la cerimonia viene suggellata con una sorta di ‘comunione’ col sangue del neofita (cfr. la sintesi, con i riferimenti bibliografici, che ne fa Letizia Paoli, The pledge, cit., pp. 110-113).
(41) Su questo versante ci sarebbe da approfondire l’atteggiamento cristiano e cattolico nei confronti della legalità statuale (cfr. A. CAVADI, Né a Cesare né a Dio, “Sudovest”, 1994, 4, pp. 37-39). Già nel corpus paolino troviamo delle indicazioni contraddittorie. Da una parte, infatti, possiamo leggere: “Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori; perché non v’è potestà se non da Dio, e quelle che sono, sono da Dio ordinate. Così che chi si oppone all’autorità, va contro l’ordine di Dio” (Romani, 13, 1-2). Altrove, però, viene stigmatizzato il ricorso a giudici laici in caso di controversie interne fra credenti (cfr. I Corinti, 6, 1-11). Come è stato osservato, “siamo di fronte ad una polarizzazione, che permane nella storia della Chiesa: da un lato la sacralizzazioone delle istituzioni, in quanto ogni potere viene da Dio; dall’altro il disconoscimento delle istituzioni, se esse sono rette da ingiusti e non da santi. Questa polarizzazione tra santificazione e negazione si risolve, o può risolversi, nell’impraticabilità di una critica concreta dello Stato e delle istituzioni nella loro attuazione storica” (U. SANTINO, Appunti, cit., pp. 46-47). Ad una polarizzazione simile ci fanno pensare ‘luoghi’ biblici come l’intera, breve Lettera a Filemone. Anche essa si presta ad una interpretazione ambigua: è una protesta nei riguardi del sistema schiavista (oltre le normative allora vigenti) o un biglietto di raccomandazione a favore di un singolo soggetto (contro le normative allora vigenti)? In questa ambiguità è prefigurata l’oscillazione nella storia del cristianesimo fra una relativizzazione della legalità di carattere ‘profetico’ e progressista (le leggi degli uomini vanno sottoposte al giudizio dell’etica) ed una relativizzazione della legalità di carattere ‘utilititaristico’ e clientelare (le leggi degli uomini vanno subordinate agli interessi ecclesiastici). Su un episodio significativo della tendenza della chiesa cattolica a costituire un sistema giuridico – penale alternativo, e in un certo senso sostitutivo, al sistema giudiziario statuale cfr. A. CAMILLERI, La bolla di componenda, Sellerio, Palermo 1993 e la discussione successiva con l’autore di cui do conto in Qualcuno ha mai visto una ‘bolla di componenda’? (Città d’utopia, 1994, 11, pp. 12-13). Ancora più inquietanti le considerazioni suggerite dalla recente condanna giudiziaria di p. Giuseppe Frittitta, un frate carmelitano reo di complicità con il boss Pietro Aglieri (cfr. l’intervista da me rilasciata a L. P. per “Oggi Sicilia”, 27.12.1997 dal titolo Pentiti, davanti a Dio non basta ed il successivo intervento, sullo stesso quotidiano, Ancora su padre Frittitta del 4.1.1998). Sulla necessità di sciogliere gli equivoci e le connivenze fra realtà ecclesiale e sistema mafioso alcuni di noi avevano rivolto un appello a papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Sicilia nel 1993 (vedi: A. CAVADI, Riscoprire nel presente la radicalità cristiana, “Narcomafie”, 1993, settembre, pp. 27-28).
(42)Anche oggi i mafiosi tengono alla loro ‘rispettabilità’ sociale, ma questa non passa necessariamente – specialmente nei contesti urbani – attraverso manifestazioni di devozione religiosa, di elargizioni ad ecclesiastici e ad indigenti… A differenza di trenta o quaranta anni fa, la famiglia in odor di mafia non tiene spasmodicamente ad avere un figlio prete: per l’immagine, e per la sostanza, della sua ‘politica’ è sufficiente il figlio avvocato o funzionario della pubblica amministrazione. Giovanni Falcone ha notato come “proprio la capacità della mafia di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi costituisce una delle ragioni più profonde della forza di tale consorteria, che la rende tanto diversa dalle comuni organizzazioni criminali” (Il fenomeno mafioso: dalla consuetudine secolare all’organizzazione manageriale, “Una città per l’uomo”, 1988, 4, p. 6). Per una possibile periodizzazione della storia della mafia cfr. la guida bibliografica ragionata (a cura di G. La Fiura, A. Crisantino ed A. Cavadi) in “Nuova Secondaria”, 1991, 5, pp. 55-58, ora anche in A. CAVADI, Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, pp. 21-31.
(43) Con ‘secolarizzazione’ (termine originariamente teologico-giuridico oggi adottato dai sociologi della ‘modernizzazione’) ci si riferisce al processo storico – sociale per cui “la religione è stata costretta a ritirarsi da molti campi nei quali esercitava la sua tutela” e che è stato definito anche con i termini “laicizzazione”, “disincantamento del mondo”, “emancipazione della società dalla religione” (AA.VV., Manuale di sociologia, UTET, Torino 1994, p. 438), “razionalizzazione” (è la formulazione prescelta da Max Weber: cfr. AA.VV., Stato e società, La Nuova Italia, pp. 409-411), ‘desacralizzazione’. La “secolarizzazione presenta aspetti e dimensioni molteplici” (A.GIDDENS, Sociologia, Il Mulino, Bologna 1991, ed. or. 1989, p. 407): se “non è certo, come invece riteneva Nietzsche, che l’influenza della religione sia diminuita fin quasi a scomparire” (p. 384), limitandoci ai paesi industrializzati occidentali – come l’Italia – non possiamo negare un decremento del “seguito delle organizzazioni religiose, espresso dal numero di individui che fanno parte di una chiesa o di altri gruppi religiosi” (p. 407); un decremento di “influenza sociale, ricchezza e prestigio” da parte delle organizzazioni religiose (p. 407); un decremento di incidenza delle “credenze religiose” nella lettura complessiva della realtà (p. 408). Ma vedi anche più sotto la nota 45.
(44) In Mafia. Lineamenti per una diagnosi, “Rocca”, 1990, 4, pp. 24-26; Quale politica culturale contro la mafia, “Segno”, 1990, 114-115, pp. 33-38. In questi articoli ho presentato una distinzione fra mafia ‘sacrale’ e mafia ‘secolarizzata’ che, alla luce di obiezioni avanzatemi sul piano dell’analisi storica da Umberto Santino, ritengo vada ripensata profondamente.
(45) Questo proposito è suffragato anche dall’osservazione sociologica secondo cui molti fenomeni registrabili nelle società più ‘moderne’ – come quella nordamericana – costituiscono “un enigma difficile da spiegare per tutti coloro che sostengono l’inarrestabile declino della religiosità nel mondo moderno” (A. BAGNASCO – M. BARBAGLI – A. CAVALLI, Corso di sociologia, Il Mulino, Bologna 1997, p. 282). Non sembrerebbe che “il processo di secolarizzazione conduca tendenzialmente alla graduale estinzione della religione e della religiosità nel mondo moderno” (ivi). Per queste ragioni alcuni sociologi propongono addirittura di sostituire il concetto di ‘modernità’ a quello di ‘secolarizzazione’: “mentre quest’ultimo viene spesso associato all’idea di un movimento unidirezionale della cultura e della società verso una crescente differenziazione dell’istituzione religiosa dalle altre, così come all’eclissi della distinzione un tempo netta fra sacro e profano, la nozione di modernità, invece, consente di evidenziare la persistenza spesso creativa delle religioni tradizionali, la diffusione vivace seppur ampiamente minoritaria delle correnti fondamentaliste e intransigenti all’interno del cristianesimo, l’impiantarsi in grande scala di religioni non cristiane in Europa”(S. MARTELLI, La religione tra modernità e post-modernità. A proposito del Convegno internazionale “La religione degli europei” , “Religioni e società”, 1992, 13, p. 135). Se tutto questo è vero, la lotta alla mafia dovrà comportare una battaglia non solo intellettuale e culturale, ma anche pratica (con esperienze popolari di autogestione democratica del territorio); e “simile coinvolgimento” implica “l’appello a motivazioni di ordine etico” e ad “un linguaggio ‘simbolico’ che sappia parlare non soltanto al cervello ma anche al ‘cuore’ della gente. La mafia governa anche grazie alle sue epopee, ai suoi eroi: c’è qualcosa come una mitologia da destrutturare nella memoria e nell’immaginario collettivo. Da destrutturare e – questo è il punto – in qualche modo da ricostruire. (…) Il dato centrale è che il sentimento religioso costituisce – lo si voglia o meno – un aspetto tuttora costitutivo dell’esperienza antropologica, soprattutto in terre di mafia; e sarebbe imperdonabile leggerezza non tentare di canalizzarlo in direzione di una società meno ingiusta e meno violenta” (A. CAVADI, Mafia e cultura cattolica. Qualche osservazione preliminare, in IX Convegno “Dialogo internazionale”, Dial, Palermo 1993, pp. 38-39). In questa logica don C. Scordato ha proposto di “aggiungere nella commemorazione dei santi anche le vittime di mafia e di avviare il processo di beatificazione di qualche martire caduto nella difesa dello Stato” (Abbozzo, cit., pp. 159-160).
(46) Un modesto contributo in questa direzione ho inteso offrirlo in Vivere il Vangelo nel Meridione, “Itinerari”, 1995, 1, pp. 31-36.
Pubblicato in “Filosofia e teologia”, 1999, 2, pp. 355-365.