loading...

Documenti e scritti vari – La cultura siciliana: indicazioni per una diagnosi

Augusto Cavadi

La cultura siciliana: indicazioni per una diagnosi

Esiste una cultura siciliana?

Vorrei premettere che ho molte riserve nei confronti della formula ‘cultura siciliana’. So che in ambienti di matrice cattolica ha fortuna perché induce coloro che sono animati da sane intenzioni ‘apostoliche’ a sperare di rintracciare una ‘cultura’ strutturata, definita, su cui intervenire per mutare atteggiamenti morali, pratiche liturgiche, orientamenti sociali e scelte politiche. Ma ‘oggettivamente’, ‘scientificamente’ è così ?
Credo che la risposta debba essere negativa anche per quanti, come me, non sono condizionati da una filosofia, per esempio economicistica (talora di matrice marxista), che tende a misconoscere la dimensione culturale e simbolica dell’esperienza umana. Se affrontiamo la questione con la massima onestà intellettuale possibile, mi pare che ci troviamo a constatare che non esiste una cultura siciliana, ma molte culture siciliane: pirandellianamente si direbbe che sono “una, nessuna e centomila”.
Ciò è vero già dal punto di vista sincronico: in una stessa epoca storica (per esempio nella seconda metà del XX secolo), infatti, c’è una cultura borghese-urbana emergente distinta da una cultura aristocratico-feudale residuale; entrambe sono diverse rispetto alla cultura contadino-agraria dell’entroterra la quale, a sua volta, non è identificabile con la cultura del proletariato delle zone costiere dedito alla pesca e al turismo… Ma queste differenze incrociate tra stati sociali e zone geografiche impallidiscono rispetto alle differenze, molto più accentuate, che si possono rilevare diacronicamente: le culture siciliane, infatti, sono sottoposte – come ogni altra cultura nel pianeta attuale – a processi di trasformazione impressionanti. Soprattutto in una fase di accelerazione inedita, come quella che stiamo attraversando e che presumibilmente continuerà con ritmi ancora più intensi, bastano pochi decenni per constatare sociologicamente che le credenze, gli usi, i costumi, le norme etiche, le abitudini culinarie… – insomma tutto ciò che costituisce la cultura di un popolo o meglio le culture dei diversi strati sociali di un popolo – sono soggetti a modificazioni radicali. Possiamo anche aggiungere che queste trasformazioni culturali vanno in direzione di un’omologazione crescente: prima a livello nazionale (lo notava negli anni ’60 Pierpaolo Pasolini: la TV e la Scuola media unificata cancellano i linguaggi regionali a favore di una ‘koiné’ simbolica e valoriale uniforme dalle Alpi a Lampedusa), poi a livello internazionale (globalizzazione significa molte cose, ma certamente anche che il ragazzo catanese per corteggiare la ragazza trapanese via Internet ricorre necessariamente a numerosi vocaboli dell’inglese informatico, sempre meno a proverbi e liriche della tradizione siciliana, e che il loro primo appuntamento sarà davanti a un hamburger del Mc Donald).
Per evitare di dare un quadro eccessivamente semplificato, bisogna però aggiungere almeno un’altra considerazione: questa tendenza all’uniformità sovranazionale (in concreto: all’adattamento all’american way of life)(1) è controbilanciata dalla riscoperta di radici etniche e locali. In altri termini: i processi di globalizzazione liberano spazi inediti a localismi di ogni segno e colore (dal localismo ‘virtuoso’ degli ambientalisti al localismo xenofobo delle Leghe moltiplicatesi nell’Italia settentrionale).


Prima direzione di analisi: demistificare “i luoghi comuni”

Davanti a questo scenario così articolato e movimentato, non resta che tacere? L’operatore pastorale deve rinunziare a qualsiasi analisi previa della cultura regionale in cui ha deciso di intervenire? Proporrei di indagare in tre direzioni.
La prima è quella della demistificazione: se è semplicistico tratteggiare una generica ed effettivamente inesistente ‘cultura siciliana’, possiamo però con precisione dire che cosa non ne fa parte. Facciamo un esempio. Tra i ‘luoghi comuni’ più ripetuti, non solo fuori dalla Sicilia ma anche dai siciliani, rientra la ‘rassegnazione’: tipico del nostro dna culturale, se non addirittura biologico, sarebbe un atteggiamento di passività, fatalismo e immobilismo rispetto a tutte le forme di dominio. Il succedersi cronologico di decine di dominazioni (dai Greci ai Romani, dai Bizantini agli Arabi, dai Normanni agli Svevi, dagli Angioini agli Aragonesi, ai Borboni) sarebbe una riprova storica di questa abulìa caratteriale.
Ma siamo sicuri che la storia ci dia ragione su questo punto?
1848: l’anno rivoluzionario per eccellenza. Il fuoco divampa a Parigi e da lì si estende a tutta l’Europa. A Parigi nel febbraio, ma già a gennaio una rivolta popolare a Palermo costringe Ferdinando II a concedere la costituzione liberale. Quattro mesi dopo la revoca, ma un anno dopo (maggio 1849) deve fare i conti con un nuovo tentativo dei separatisti siciliani.
Senza il concorso di varie formazioni armate di siciliani, e più in generale di un consenso sociale diffuso, 12 anni dopo Garibaldi non avrebbe così facilmente conquistato la Sicilia.
Ma non passano 6 anni che Palermo è di nuovo in agitazione, questa volta contro il nuovo governo nazionale unitario: “la rivolta palermitana del settembre 1866 – la rivolta del ‘sette e mezzo’ – fu un evento annunciato da prima, nella tradizione ormai consolidata del cartello di sfida lanciato dalla popolazione palermitana ai poteri costituiti”(2).
Per non farla lunga, bisogna almeno ricordare le tappe cruciali della lotta del movimento contadino contro i feudatari spalleggiati dai soldati e dai mafiosi: i “fasci siciliani” (1893-1894) e le varie ondate degli anni ’20, ’40 e ’50 del XX secolo. Sono fenomeni di grande rilevanza, quantitativa (centinaia di migliaia di aderenti e militanti) e qualitativa (centinaia di martiri e coinvolgimento significativo di giovani e donne) che hanno anticipato e prefigurato i movimenti antimafia degli ultimi 30 anni.
Ai fini della nostra riflessione, c’interessa una considerazione illuminante di Umberto Santino: “Raccontare la storia delle lotte contro la mafia dall’ultimo decennio del XIX secolo ai nostri giorni ci sembra il modo migliore per dare una risposta, più convincente di mille polemiche, a tutte quelle visioni della Sicilia e dell’Italia meridionale legate a schemi teorici tanto gratuiti, in tutto o in parte, quanto fortunati. Pensiamo in particolare al ‘familismo amorale’ (Banfield), alla concezione della mafia come subcultura condivisa dalla popolazione siciliana (Hess), alla tesi secondo cui il Mezzogiorno sarebbe caratterizzato dall’incivisme, cioè dalla mancanza di strutture della società civile. Non si vuole negare l’importanza che hanno in Sicilia e nel Mezzogiorno – come del resto in ogni parte del mondo e in tutti gli strati della popolazione, a cominciare dalle dinastie aristocratiche e da quelle finanziario-imprenditoriali – la famiglie le reti parentali, ma non si possono costruire paradigmi interpretativi convincenti ignorando gran parte della storia siciliana e meridionale, non spendendo neppure una parola per la fitta rete organizzativa dispiegata nel territorio ad opera dei Fasci, per le strutture organizzative – sindacali, partitiche, cooperativistiche – che formarono l’ossatura del movimento contadino nei due dopoguerra. E il ‘familismo’ non sempre significa chiusura nel privato e squallido egoismo, tanto che si è giustamente parlato di un ‘familismo morale’ e – come vedremo – anche nel fronte antimafia un ruolo importante hanno avuto ed hanno i familiari delle vittime. Come pure sostenere che tutta, o quasi, la popolazione della Sicilia occidentale era irretita nella subcultura mafiosa e considerava la mafia come uno scudo protettivo vuol dire amputare con un taglio netto tutta la storia delle lotte contro la mafia, una vera e propria guerra in cui grandi masse armate della loro volontà di riscatto e forti delle organizzazioni e dei programmi che erano riuscite a darsi si scontravano con la più feroce delle violenze. Negli ultimi anni a un’immagine dell’Italia meridionale e insulare piagata dall’incivisme si è contrapposta un’immagine forse un po’ troppo rosea ed ottimistica. Recenti ricerche hanno registrato un fiorire di associazioni e tra le metropoli italiane Palermo avrebbe la più alta concentrazione di associazioni di volontariato”(3).


Seconda direzione di analisi: mettere a fuoco le sub-culture

Una seconda direzione in cui indagare sarebbe l’ambito delle sub-culture. Il termine non è dei più gradevoli e si presta all’equivoco di una valutazione negativa, ma in sociologia non sta a designare una cultura ‘inferiore’, ‘deteriore’ rispetto ad altre, bensì la cultura di un ‘sub-gruppo’. Nel nostro caso: la Sicilia è un gruppo sociale costituito da innumerevoli ‘sub-gruppi’, ciascuno dei quali (il sub-gruppo degli operai dei Cantieri navali di Palermo, il sub-gruppo degli studenti agrigentini, il sub-gruppo dei valdesi di Riesi etc.) va analizzato segnatamente e senza pregiudizi. Questo lavoro sul campo, qualora venga praticato con strumenti scientifici anche elementari e soprattutto senza pregiudizi ideologici, può riservare notevoli sorprese. Si potrebbe scoprire, ad esempio, che in un sub-gruppo, costituito da un ‘gruppo di preghiera’ intestato a Padre Pio, la maggioranza degli associati (anziani compresi) è favorevole, in teoria e in pratica, alla contraccezione artificiale; oppure che in un altro sub-gruppo (i tifosi dell’Acireale calcio) la maggioranza (giovani compresi) è favorevole alla pena di morte.
Mi rendo conto che questa pista è faticosa perché presuppone che la profezia cristiana sia, prima che un atto di parola, un atteggiamento di ascolto(4); è molto più semplice sbarcare a Marsala o a Gela presupponendo di sapere già quale sia, ‘in generale’, la cultura siciliana e calibrando il proprio annunzio su questa presunzione di sapere. Ma non stupiamoci, allora, degli inevitabili equivoci e delle pietose incomprensioni che riproducono in piccolo i disastri missionari perpetrati sulla pelle degli Indios in America Meridionale o in Cina dopo il divieto magisteriale degli esperimenti di ‘inculturazione’ di Matteo Ricci e compagni(5).


Terza direzione di analisi: individuare le trans-culture

Dobbiamo rassegnarci, dunque, alla micro-sociologia che ha tanto maggiore validità quanto meno estesi sono i confini dei sub-gruppi ritagliati? Non credo. Penso, al contrario, che resta una terza pista da percorrere: l’analisi delle ‘trans-culture’ che si incrociano oggi in regioni geo-sociali come la Sicilia. Ho trovato questa categoria concettuale in un saggio del fondatore e presidente del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo. Egli l’ha adottata per designare la ‘transcultura’ mafiosa, intesa come “percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui possono convivere ed alimentarsi funzionalmente aspetti arcaici (…) e aspetti modernissimi”: “un concetto dinamico, aperto a nuovi apporti anche se agganciato a vecchi ‘valori’, contraddittorio eppure con una sua capacità di equilibrio”(6).
Proporrei di utilizzare la medesima categoria per indicare almeno due altre influenze senza le quali la dimensione culturale dei cittadini siciliani, considerati sia individualmente che per sottogruppi sociali, resterebbe a mio avviso del tutto indecifrata: la transcultura ‘cattolica’ e la transcultura ‘borghese-capitalistica’. Anche queste due, come la transcultura mafiosa, si caratterizzano ciascuna per una propria tavola di valori, di norme etiche, di consuetudini sociali, di istituti giuridici, di linguaggi verbali e non-verbali, di autorappresentazione simbolica etc.
Di fronte a questa prospettiva, si delineano alcune questioni decisive per il nostro taglio tematico.
La prima: come caratterizzare, in concreto, ciascuna di queste tre transculture in modo da evitare approssimazioni troppo generiche e confusioni analitiche (per esempio identificando frettolosamente liberalismo e transcultura ‘borghese-capitalistica’ oppure cristianesimo e transcultura ‘cattolica’)? Lo dico, per amore di chiarezza, in forma sintetica e un po’ brutale: al catechista, al predicatore, all’operatore pastorale deve interessare molto – se non vuole creare più guasti che benefici – distinguere che cosa ci sia di liberale in alcuni costumi socio-antropologici e che cosa di legato alla logica del profitto elevato a scopo ultimo dei processi produttivi; oppure che cosa ci sia, in altri costumi, di cristiano (in senso evangelico) e che cosa di legato ad un’interpretazione latino-romano-mediterranea del messaggio originario.
La seconda questione: queste tre ‘transculture’ (in ordine di diffusione decrescente: la borghese-capitalistica che incide nella quasi totalità dei siciliani; la cattolica che incide, anche là dove è presente come negazione polemica, in una buona maggioranza dei siciliani; la mafiosa che impregna delle forti minoranze in vario modo coinvolte nel relativo sistema di dominio) sono parallele ed indipendenti o, nel concreto fluire storico, si sono reciprocamente influenzate e modificate? Anche qui sarebbe importante cogliere la rilevanza ‘pastorale’ di simili domande per nulla accademiche: detto sempre in termini succintamente brutali, sarebbe importante accertare se in Sicilia la mentalità borghese è anche un po’ cattolica e mafiosa, se la mentalità cattolica è anche un po’ borghese e un po’ mafiosa, se la mentalità mafiosa è anche un po’ borghese e un po’ cattolica(7).
La terza questione: le tre transculture principali che si intrecciano attualmente nella società siciliana, e che contribuiscono a determinarne il ‘volto’, sono compatibili con il messaggio di Gesù? Non vorrei che la domanda sembrasse né più provocatoria né più banale di come la intendo. Provo a precisarne il senso. Quando un operatore pastorale, o più in generale una comunità cristiana, riconosce in sé stesso/stessa i tratti della transcultura borghese deve chiedersi se e in che misura tale transcultura sia evangelicamente permeabile? Mi pare che su questo non ci debbano essere dubbi. Quando un operatore pastorale, o più in generale una comunità cristiana, riconoscesse in se stesso/stessa i tratti della transcultura mafiosa deve chiedersi se e in che misura tale transcultura sia evangelicamente permeabile? Anche su questo punto non dovrebbero esserci dubbi(8). Dubbi, perplessità, resistenze possono nascere, invece, se ci poniamo la questione della compatibilità della transcultura cattolica con il messaggio evangelico. A prima vista, infatti, potrebbe sembrare che la questione sia mal posta in quanto, per principio, il modello cattolico è la versione più fedele e completa del cristianesimo. Sarei poco onesto intellettualmente se non confessassi che anni di ricerca teologica e storica mi hanno portato a prendere sul serio la prospettiva ecumenica secondo la quale nessuna delle chiese storicamente esistenti (cattolica, ortodossa, evangelico-riformata, anglicana…) incarna, senza difetti e senza adulterazioni, il messaggio del cristianesimo originario. Perciò, dal mio punto di vista, che mi permetto sottoporvi solo come ipotesi di lavoro eventualmente da scartare se risultasse infondata, anche il ‘paradigma’ cattolico dovrebbe essere sottoposto al giudizio della Scrittura e del buon senso per verificare quali convinzioni, quali istituzioni, quali consuetudini siano eventualmente incompatibili con la proposta di vita di Gesù di Nazareth. In questa convinzione – certo di minoranza nella chiesa cattolica attuale – so di non essere solo. Nella Prefazione scritta per l’ultimo libro di un nostro comune amico, un fratello vescovo ha scritto qualche mese fa: “La purificazione della memoria dovrà anche produrre nella Chiesa un profondo lavoro di scavo nelle componenti pratiche e organizzative, nelle strutture ecclesiali e politiche di potere, nelle formulazioni dogmatiche e teologiche che hanno permesso la degenerazione storica del suo messaggio. Credo che oggi si debba dire a tutti gli apparati ecclesiali: ‘convertitevi e credete al vangelo’ “(9).


Note

(1) “La Rete, la globalizzazione, che meglio sarebbe denominare occidentalizzazione del pianeta, si sviluppa per luoghi salienti” (M. CACCIARI, Colloquio con Gianfranco Bettin. Duemilauno. Politica e futuro, Feltrinelli, Milano 2001, p. 50).
(2) A. RECUPERO, La Sicilia all’opposizione (1848-74) in AA. VV., La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Einaudi, Torino 1987, p. 80.
(3) U. SANTINO, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 15. Nel prosieguo del discorso, l’autore attribuisce sfiducia e scoramento da parte di varie generazioni di siciliani alla durezza della repressione dei movimenti contadini da parte non solo dei mafiosi ma anche delle istituzioni statali. Egli sottolinea, in particolare, il fenomeno delle emigrazioni di massa successive alle ondate repressive: alla fine del XIX secolo, “i Fasci furono sciolti e i dirigenti furono processati e condannati. Si distrusse così un’esperienza di autorganizzazione capillare che avrebbe potuto mettere radici e circa un milione di siciliani abbandonò l’isola in cerca di fortuna in altri lidi” (p. 16); a metà del XX secolo, “decine e decine di militanti sono stati uccisi (…) e quasi tutti i delitti sono rimasti impuniti, nonostante le denunce, spesso con nomi e cognomi, gridate nelle piazze dai compagni dei caduti. Ancora una volta i protagonisti delle lotte scelgono la strada dell’emigrazione (dal 1951 al 1971 lasciò la Sicilia più di un milione di persone). Queste sconfitte e questi esodi, ben più consistenti di quelli biblici, hanno messo in ginocchio e dissanguato la Sicilia migliore e lasciato libero campo agli agrari e ai mafiosi, che tenevano saldamente in mano le redini del potere” (ivi).
(4) Per chiarire e approfondire questo punto cfr. A. CAVADI, Essere profeti oggi. La dimensione profetica del’esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1996, pp. 37-39.
(5) Su questa triste pagina della cattolicità è tornato di recente H. KUNG, Cristianesimo. Essenza e storia, Biblioteca universale Rizzoli, Milano 1999, pp. 674-676.
(6) U. SANTINO, L’omicidio mafioso. Dinamica della violenza ed evoluzione del fenomeno mafioso dagli anni ’60 ad oggi, in G. CHINNICI – U. SANTINO, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni ’60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1989, p. 378; la categoria interpretativa ritorna anche in U. SANTINO, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1995, pp. 155-157.
(7) Cfr. A. CAVADI, A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1994, pp. 105-108.
(8) Ho raccolto studi e testimonianze, sia cattoliche che protestanti, nei due volumi Il vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia. Storia Teologia Pastorale, vol. I; Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia. Testimonianze Tracce di preghiera, vol. II, Dehoniane, Bologna 1994. Una sintesi più recente in Il Dio dei mafiosi, “Filosofia e teologia”, 1999, 2, pp. 355-365.
(9) R. NOGARO, Prefazione a S. TANZARELLA, La purificazione della memoria. Il compito della storia fra oblio e revisionismi, Dehoniane, Bologna 2001, p. 10.

Conferenza all’Istituto teologico “San Tommaso”, Messina, 25 aprile 2001.