La non violenza aiuta a battere la mafia
Augusto Cavadi
La non violenza aiuta a battere la mafia
Che cosa lega le iniziative nonviolente realizzate in India più di mezzo secolo fa da Gandhi e la Sicilia attuale? Apparentemente nulla. Grazie al cielo, la nostra isola non è sottoposta a una dominazione straniera rispetto a cui dover scegliere fra resistenza armata e forme di lotta alternative. Eppure – a ben rifletterci – gli abitanti di cui brulica la nostra regione proprio liberi non sono. Non siamo. Veniamo quotidianamente sottoposti alle forche caudine di un sistema di potere complesso, al cui centro pulsa l’inquieta coalizione di una decina di cosche mafiose che organizzano militarmente (circa) cinquemila “uomini d’onore” e che – proprio grazie al dosaggio astuto di violenza effettiva e di violenza minacciata – riescono a controllare la vita politica, economica e, in qualche misura, sociale. Come possono cinquemila individui, per quanto solidamente organizzati, imporre la loro dittatura su cinque milioni di cittadini? Un’utile indicazione l’ha data, a suo tempo, Buscetta parlando con Falcone: “Dottore, noi potevamo contare sulla complicità di un quinto dei siciliani”. Significa che un milione, o giù di lì, di nostri concittadini – per paura o per ambizione o per sete di denaro o per conformismo o per un tragico mix di questi fattori – costituiscono quello che Umberto Santino chiama il ‘blocco sociale’ mafioso: un reticolo gerarchico e capillare che succhia le risorse finanziarie dagli imprenditori onesti, ottiene la cooperazione di funzionari pubblici e di professionisti per finalità illecite, stabilisce patti scellerati con amministratori locali e uomini politici nazionali. Depreda coste e boschi, si accaparra fonti idriche, inchioda al degrado postbellico interi quartieri cittadini, gestisce terapie mediche d’avanguardia.
Se questo quadro ha qualche fondamento oggettivo, non dovrebbe risultare esagerato porsi la questione di come liberare la Sicilia (e, analogamente, il Meridione italiano) dal dominio mafioso. Partiti e sindacati, chiese e movimenti, magistrati e intellettuali hanno le loro ricette: e, data la difficoltà dell’obiettivo, sarebbe poco saggio escluderne frettolosamente alcune. Ed è in questo contesto di ipotesi operative che, che da decenni, Enzo Sanfilippo – sociologo palermitano, membro del movimento dell’Arca fondato da Lanza del Vasto ed animatore sociale, con la moglie Maria, in svariati settori – propone in convegni, corsi di aggiornamento e incontri assembleari, di far tesoro della lezione gandhiana. A suo avviso, infatti, dalla sudditanza alla criminalità organizzata non si uscirà per effetto di generici processi di sviluppo politico o economico (l’esperienza ci attesta quanto la mafia sia abile nell’adattarsi ai regimi politici ed ai sistemi economici che si susseguono): dunque, occorre una lotta mirata, consapevole e insistente. D’altronde è ancora l’esperienza storica ad insegnarci che questa lotta non può essere esclusivamente giudiziaria e repressiva: con i processi, nei casi più felici, si decapitano le cosche ma non si riesce a sradicare il meccanismo riproduttivo di nuovi dirigenti né ad intaccare la vasta base di consenso sociale che assicura adepti e fiancheggiatori. Occorre, allora, boicottare con strategie inedite gli interessi economici e politici di “Cosa nostra” e delle sue sorelle minori; ma – mentre si tenta di opporre resistenza e di arginare – occorre anche passare attivamente al contrattacco introducendo all’interno delle associazioni mafiose semi di dubbio, di riflessione e di destrutturazione. Detto un po’ sbrigativamente: bloccare e rendere inoffensivi i mafiosi è il primo passo; educarli – là dove c’è ancora uno spiraglio di umanità, di senso critico, di comunicazione – il secondo.
Tutto ciò può essere scambiato per ‘buonismo’ o per ingenuità ‘cattolica’: ma, alla luce degli insegnamenti gandhiani, è invece segno di lungimiranza. Arrestare un mafioso, tenerlo dentro in regime carcerario duro è senz’altro utile, anzi necessario: lo Stato deve utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per interrompere sequenze di omicidi ed estorsioni. Ma la società, o almeno le punte più consapevoli e sensibili della società, devono attivarsi per cogliere anche il minimo sintomo di resipiscenza. Al di là di ‘perdonismi’ più o meno meditati, trasformare (là dove è possibile) un ‘collaboratore di giustizia’ in ‘pentito’ effettivo significherebbe non solo recuperare al consorzio civile individui che – con i loro comportamenti – ne sono evasi, ma anche evitare che, agli occhi dei parenti e dei ‘picciotti’, questi criminali appaiano dei martiri e degli eroi.
Neppure in questo ambito siamo all’anno zero. Ci sono esperienze che meritano di essere ricordate, discusse e valutate. Per farne memoria, in prospettiva di nuovi percorsi, i “Quaderni di Satyagraha” (rivista scientifica sulla nonviolenza che la condirettrice, Martina Pignatti Morano, ha presentato ieri alle ore 16 presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Palermo), “Libera” e il Centro “Impastato” hanno organizzato, per le ore 17 di mercoledì 10, un seminario, aperto alla cittadinanza, presso il “Gruppo di studio per la qualità della vita” (via Notarbartolo 41). Punto di partenza, per un contatto fra persone e gruppi interessati a proseguire anche in futuro il confronto e la collaborazione, il denso saggio apparso, a firma di Sanfilippo, nel numero 3 dei citati “Quaderni di Satyagraha”.
Per quanto preziose, comunque, le esperienze non bastano. Occorrono dei criteri interpretativi validi. Per quanto mi riguarda, una chiave filosofica interessante me l’ha suggerita, nel corso di un’intervista di molti anni fa, il figlio di un boss di quartiere volatilizzatosi probabilmente perché vittima di “lupara bianca”. Il ragazzo aveva maturato un consapevole rifiuto della tavola di valori della famiglia d’origine, ma riteneva che questo processo sarebbe stato difficilmente condiviso dai fratelli e dalle sorelle perché “ogni volta che entriamo in contatto col mondo della giustizia e con esponenti del movimento antimafia abbiamo la netta impressione di una barriera invalicabile fra persone per bene e gente perduta. Penso che le cose andrebbero diversamente se si fosse convinti che c’è del marcio anche fra i ‘giusti’ e c’è del valido anche fra gli ‘ingiusti’. Nella storia, e nel cuore delle persone, il bene e il male non si lasciano separare mai con un taglio netto”. Non so se avesse mai letto Gandhi, ma il suo modo di vedere l’uomo non ne era troppo distante.