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Pentito in sagrestia

Augusto Cavadi

Pentito in sagrestia

Il dibattito, ormai pluriennale, sui pentiti di mafia ha attraversato in queste settimane una nuova tappa. In una chiesetta alle spalle del teatro Massimo di Palermo, il rettore don Francesco Conigliaro (che è anche docente di filosofia politica all’Università statale) ha ospitato una tavola rotonda sull’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti dei mafiosi che dichiarano di volersi dissociare dalle cosche di appartenenza. Le relazioni iniziali sono state tenute da p. Nino Fasullo, direttore della rivista “Segno”; da don Giacomo Ribaudo, parroco della “Magione” e da don Cosimo Scordato, docente presso la Facoltà teologica di Sicilia. Il compito di moderare il dibattito, ma anche di introdurlo richiamando alcune vicende significative, è stato affidato a don Francesco Michele Stabile, parroco a Bagheria e anche docente di storia della Chiesa.
Convitato di pietra il mafioso – e studioso di teologia cattolica – Pietro Aglieri. Egli, più e meglio di altri ‘colleghi’, ha infatti teorizzato la decisione personale di dissociarsi dall’organizzazione criminale di provenienza senza, per questo, collaborare attivamente con gli organi giudiziari. Che pensare di casi simili? Il pentimento interiore può non comportare un passare sul fronte opposto, dalla parte dello Stato e delle sue leggi?
Per ragioni opposte, né p. Fasullo né don Ribaudo hanno mostrato dubbi, esitazioni. Per il primo, infatti, non c’è alcuna possibile distinzione fra reato (rispetto al codice penale) e colpa (rispetto al codice morale): chi non accetta i meccanismi giudiziari statuali per ciò stesso mostra di non essere realmente pentito. Per il secondo, invece, sarebbe del tutto logica – ed eticamente coerente – la scelta di chi chiedesse sinceramente il perdono di Dio ma non volesse contribuire, con le proprie dichiarazioni, a individuare gli ex-complici e le loro responsabilità penali.
Più problematica, invece, la posizione di don Cosimo Scordato. Come tutte le persone veramente intelligenti, egli ha mostrato di sapere che per ogni questione si danno risposte semplici e risposte complesse: e che le prime risultano, di solito, sbagliate. Egli non ha negato la distinzione, faticosamente guadagnata dalla coscienza moderna almeno da Kant in poi, fra ‘reato’ in senso giuridico e ‘peccato’ in senso morale. In linea teorica, non si può escludere né un pentito sincero che si rifiuti di collaborare con la giustizia umana né un collaboratore di giustizia efficiente che, nell’intimo, non sia per nulla pentito. In concreto, però, si tratta di accompagnare un eventuale pentito (nell’accezione evangelica) in un cammino religioso che, proprio in quanto religioso, non può non coinvolgere la sfera sociale e istituzionale. Nell’ottica cattolica, in particolare, la relazione fra il singolo e Dio passa attraverso la mediazione storica, visibile e tangibile, di una comunità: chi pretenda di amare il Dio che non vede e non dà segni di concreta solidarietà coi fratelli che vede (in questo caso, soprattutto, con le vittime dei delitti di mafia già avvenuti o in cantiere), è – oggettivamente – un bugiardo.
La successiva discussione ha sollevato questioni che meriterebbero di essere riprese una ad una ed esaminate partitamente. Per ovvie ragioni mi limito qui, come durante il dibattito, ad alcune notazioni telegrafiche.
La prima riguarda l’impostazione stessa di queste iniziative. Esse presuppongono una sorta di polarità duale: o l’azione legale-repressiva dello Stato o l’azione morale-persuasiva della Chiesa. Ma è davvero così? O non è possibile immaginare dei percorsi ‘laici’ di dialogo con gli uomini e le donne più o meno inestricabilmente coinvolti nel sistema mafioso? E’ quanto, da più di un anno, sta tentando un Gruppo di lavoro su “La nonviolenza e il superamento del sistema mafioso” coordinato da Enzo Sanfilippo e Andrea Cozzo (vedi il documento costitutivo e altri testi integrativi sul sito www.centroimpastato.it): gruppo di lavoro in cui si ritrovano, fianco a fianco, persone di diversa formazione culturale e che cercano una piattaforma, teorica e operativa, del tutto ‘aconfessionale’ (secondo quella interpretazione della filosofia e della pratica nonviolenta che lo stesso Andrea Cozzo ha illustrato nel suo recente volume, presentato da me su questa stessa rivista, Conflittualità nonviolenta, Mimesis, Milano 2004). Insomma: non tutto quello che non è segnato confessionalmente è, per ciò stesso, amorale. Né si deve riservare alla Chiesa cattolica – o, più in generale, alle comunità religiose – l’esclusiva delle strategie etiche e pedagogiche di lungo respiro. La dimensione ‘spirituale’ (se liberata da ogni accezione riduttiva che la identifichi con l’incorporeo, l’immateriale, lo ‘spiritualistico’), prima di qualificarsi come ‘cattolica’ o ‘buddhista’, è costitutivamente antropologica: e, perciò, universale. Ben vengano, dunque, tutte le iniziative – da parte di comunità cattoliche e istituzioni religiose – miranti ad aprire, con i mafiosi e con i loro familiari, spazi di dialogo; ma senza con ciò ritenere chiuso lo spettro delle ipotesi e senza attivare, conseguentemente, altri spazi (filosofici, etici, artistici, musicali, psicologici, sociologici….) di riflessione e di confronto in cui il linguaggio dello Spirito provi ad essere articolato in alfabeti diversi rispetto al teologico – confessionale.
Una seconda osservazione riguarda l’ambito più propriamente ecclesiale – cattolico. Se reato e peccato non vanno identificati, ma neppure separati, la parentela fra la dimensione legale e dimensione etica dell’agire non comporta un alleggerimento della responsabilità del ‘credente’. Se mai, un aggravamento. Chi si muove nella consapevolezza della valenza giuridica e morale del proprio agire, dovrebbe avvertire ragioni in più – non certo in meno – per stare attento a scelte, atteggiamenti, gesti…Così, ad esempio, se sei un ministro ordinato che, come p. Frittitta, viene chiamato a colloquio da un latitante come Aglieri, devi concentrarti attentamente per non diventare – anzi, per non sembrare neppure – uno strumento di manovre illecite. Come è noto, il padre carmelitano della Kalsa, in appello è stato dichiarato innocente: e ciò non può che far piacere. Ma non va dimenticato che a chiederne l’imputazione – e ad ottenerne, in primo grado, la condanna – non sono stati giudici ‘cattivi’ o ‘atei’. Essi avevano avuto notizia di vari presbiteri cattolici che si erano prestati a soccorrere religiosamente Aglieri ed altri latitanti e per nessuno di questi avevano mai chiesto l’attivazione del processo giudiziario. Se si sono decisi nel caso del solo p. Frittitta, ciò è stato perché – a ragione o, sino a questo momento, a torto – avevano ritenuto che quel prete si fosse prestato, ben oltre i propri doveri di stato, a svolgere mansioni di collegamento con l’esterno che in nessun modo potevano configurarsi come compiti istituzionali. Similmente, se sei il di un partito cattolico, devi concentrarti attentamente per non diventare – anzi, per non sembrare neppure – uno strumento di manovre illecite. L’attuale presidente della Regione siciliana, infatti, al di là – o al di qua – di possibili esiti giudiziari, risulta in rapporti amichevoli con una serie di personaggi più o meno inquinati: come può conciliarsi questa spregiudicatezza quotidiana con le dichiarazioni di fede religiosa di cui è puntellata la sua azione amministrativa? Un amico del Padreterno, un fedele collaboratore di Gesù Cristo, un devoto ammiratore della Madonna può essere, contemporaneamente e senza travagli interiori, amico di deputati corrotti, di poliziotti ricattatori, di imprenditori in odor di mafia? O non può darsi – come mi ha fatto notare nel corso di un dibattito pubblico una signora musulmana trapiantata in Sicilia – che un oscuro destino pesi su un cognome (Cuffaro) che in arabo significherebbe l’ateo, colui che non crede in nulla? Al di là delle osservazioni semiserie, resta un dato oggettivo per nulla umoristico: il silenzio del mondo ecclesiale siciliano davanti alla certezza che uno dei suoi ‘figli’ costruisca le proprie fortune elettorali in una rete di amicizie compromettenti. Qualche vescovo, qualche prete, meglio ancora qualche comunità ecclesiale o movimento cattolico non dovrebbe rompere questo silenzio assordante e dichiarare, a chiare lettere, che gli amici dell’amico Cuffaro non sono suoi amici?

Pubblicato su “Centonove”, 21 gennaio 2005.