Una doppia verità nella lotta alla mafia
Augusto Cavadi
Una doppia verità nella lotta alla mafia
Il 4 marzo del 1995 un colpo di pistola suicida ha, inopinatamente, interrotto la vita del maresciallo dei Ros Antonino Lombardo. E’ l’atto conclusivo di una serie inquietante di episodi che segnano uno dei momenti più oscuri della storia dell’antimafia. Infatti: il 23 febbraio, durante la trasmissione di Santoro “Tempo reale”, Leoluca Orlando e Manlio Mele denunziano il “comportamento equivoco di qualche esponente dell’Arma dei Carabinieri” che, nel recente passato, aveva avuto responsabilità a Terrasini; il 24 febbraio il maresciallo Lombardo (oggetto, insieme ad un suo superiore gerarchico, della plateale denunzia da parte dei due politici) presenta querela; il 25 i superiori esonerano Lombardo dalla missione negli Stati Uniti dove avrebbe dovuto prelevare il boss Badalamenti; poche ore dopo, lo stesso giorno, Badalamenti comunica di non voler più riconsegnarsi alle autorità italiane; nella notte fra il 25 e il 26 febbraio viene incaprettato Francesco Brugnano (confidente di Lombardo); il 2 marzo Lombardo parte per Milano come caposcorta del collaboratore di giustizia Cangemi; il 4, in mattinata, torna in Sicilia, incontra alcuni superiori che lo avvertono della possibilità molto concreta di indagini della magistratura sulla sua correttezza professionale. Agli stessi interlocutori confida la sua amarezza, poi scrive una breve lettera di addio e si uccide nella sua auto in caserma.
Su questi fatti si sono aperte inchieste, svolte indagini, celebrati processi: a dodici anni di distanza la questione, dal punto di vista giudiziario, è chiusa. Che nei familiari, negli amici, in fasce dell’opinione pubblica interessata a queste vicende siciliane resti l’ansia di saperne di più, è comprensibile. Ed è per rispondere a questa esigenza, legittima, che Daniela Pellicanò ha preso in mano tutte le carte disponibili ed ha redatto un’accurata ricostruzione giornalistica (Uno sparo in caserma. Il caso Lombardo, Città del sole, Ravagnese 2006). Non mi pare, però, che il risultato riesca a svincolarsi da una contraddizione: da una parte si afferma e si ribadisce che “il caso è aperto”, che gli enigmi da sciogliere restano ancora troppi; ma, dall’altra, l’autrice mostra di essere arrivata a delle certezze sulle ragioni del suicidio di Lombardo, costretto intenzionalmente ad autoeliminarsi dalla scena per evitare che Badalamenti potesse tornare in Italia.
Poiché, in questa ipotesi, sarebbero individuabili alcuni responsabili – diretti o indiretti – del piano, alla prima contraddizione se ne intreccia una seconda (certamente non meno grave). Da una parte, infatti, il libro sembra scritto per difendere la memoria di un investigatore dal fango con cui è stata imbrattata da accuse fondate su dati di fatto opinabili o, per lo meno, superficiali. Ma, dall’altra, non sembra che l’autrice usi lo stesso doveroso garantismo nei confronti di altri protagonisti della vicenda, per esempio di tre magistrati della Procura di Palermo accusati – rispettivamente – di aver ostacolato, il primo, il rientro di Badalamenti (in quanto il vecchio boss di Cinisi avrebbe potuto contestare l’impianto accusatorio contro Andreotti poggiante sulle dichiarazioni di Buscetta) e di aver propalato, gli altri due, la notizia di alcune accuse contro Lombardo formulate dal ‘pentito’ Salvatore Palazzolo. Quali infatti le fonti di tali gravissime accuse? Per quanto riguarda l’intento di ostacolare il rientro di Badalamenti dagli Usa, una relazione scritta da Lombardo e ritrovata, dopo la sua morte, in un cassetto; per quanto riguarda la violazione di segreto d’ufficio a proposito delle ‘voci’ riferite da Palazzolo, una “confidenza” che il maresciallo avrebbe fatto ai familiari prima di togliersi la vita. Insomma, nell’uno e nell’altro caso, le asserzioni di una persona che – avendo optato per il suicidio – non è in grado di poter dimostrare quello che ha affermato.
Personalmente, al posto della Pellicanò, avrei evitato – davanti ad una congerie di dati tanto contrastanti – di prendere posizione: anche perché, in casi del genere, difendere la causa di qualcuno comporta ledere gravemente l’onorabilità di altri. Mi sarei limitato a riportare, insieme alle accuse contro Lombardo, le convinte testimonianze di stima e di fiducia di quanti gli erano a vario titolo vicini (soprattutto all’interno dell’Arma dei Carabinieri). Come hanno dimostrato episodi quali la mancata perquisizione dell’ultimo rifugio di Totò Riina, la lotta alla mafia ha comportato – e possiamo supporre che continui a comportare – manovre e intrecci al confine fra la legalità democratica e l’illegalità strategica: difficile separare con un colpo di spada l’innocenza dalla colpevolezza. Come in tutte le guerre – sporche, per definizione- pochissimi sono gli eroi a tutto tondo: per molti altri vale il detto “chi mangia fa molliche” e, quando abbandonano la scena di questo mondo, è preferibile lasciarli riposare sotto il velo dell’umana pietà. Ci sono casi – come questo – in cui, per restare nell’area dei proverbi, “tu hai ragione, ma non per questo io ho torto”. Sono casi tragici proprio nell’accezione greca del termine: i margini di libertà soggettiva sono talmente ristretti da apparire azzerati. E’ come se, a certi bivi, non importasse cosa scegli davvero: tanto, ormai,sono entrambe strade senza uscita. Attraversare questa tragicità, in religioso o civile silenzio, è il prezzo che un po’ tutti dovremmo essere disposti a pagare per serrare le fila contro le organizzazioni mafiose ed uscire dal pantano di questi anni.
Pubblicato su “La Repubblica Palermo”, 6 marzo 2007.