Il Padrino
Umberto Santino
Il pentolone di Puzo, ovvero l’apoteosi del Padrino
“Questo è ciò che lo rende grande. Il Grande Don. Prende tutto come un fatto personale. Come Dio.”
Mario Puzo, Il padrino, Dall’Oglio, Milano 1970, p. 150.
Romanzo dall’impianto ottocentesco confezionato con tecnica cinematografica, Il Padrino di Puzo è un pentolone in cui sono messi a bollire tutti gli ingredienti necessari per il successo: dosi massicce di violenza e di sesso, colore siciliano, o quello che allora, e forse ancor’oggi, passava per “siciliano”, trama “robusta” che può dipanarsi all’infinito nella buona tradizione del telefilm americano, caratteri “forti”, cioè apertamente brutali, gran mondo hollywoodiano e guerre tra gangs, pistolotti moraleggianti e lamentazioni sui mali del cosmo, ammirazione non celata per gli “eroi” e dileggio per i cattivi e i traditori…
Con le sue 450 pagine, che scorrono abbastanza facilmente nonostante qualche pesantezza, il libro è semplice ed elementare come un fumetto: personaggi tutti d’un pezzo, scene-madri costruite con i trucchi del mestiere e la grande spaghettata siculo-americana è servita in tavola. L’America attendeva un libro del genere, con la sua sete di miti e di saghe familiari, ma il successo ha varcato l’Oceano e gli stereotipi sulla mafia si sono rispecchiati in un altro “libro sacro”.
Su una selva di personaggi domina il don, anzi il Don, che è letteralmente un “grand’uomo”, anzi il Padreterno in persona, creatore di leggi inviolabili e custode di codici morali imprescrittibili. Tutti vanno da lui per chiedere grazie e favori, anzi “giustizia”, che il mondo non sa né può dare. Il Don dispensa verdetti e sanzioni, a buon rendere. L’impresario di pompe funebri a cui hanno pestato la figlia, il divo-cantante che non ha più voce e si vede escluso da un film che lo rilancerebbe tra le stelle da premio Oscar, il panettiere che vuole che l’aiutante resti in America e sposi la figlia: tutti corrono al tribunale del Don e ottengono quel che chiedono. E tutti si ritrovano nella prima scena-madre che è il matrimonio della figlia del Padrino. Il matrimonio è proprio come si deve: grandi abbuffate, canti e balli paesani, offerte in denaro alla sposa-madonna, ma pure amorazzi fuoricampo. Se il Don è al centro della festa, il Dio Pantocratore adorato dalla folla di fedeli, il membro fuorimisura del figlio primogenito continua le sue imprese leggendarie, con grande gusto di femmine superdotate. Ovviamente ci sono caporegimi che uniscono alle ben note doti professionali un’insospettabile attitudine alla danza, c’è il macellaio Brasi che è l’incarnazione stessa della forza bruta a servizio del Padrino, e c’è pure un consigliori irlandese (la transnazionalità reclama già la sua parte) che però fa di tutto per sembrare siciliano. A proposito di siciliani: è chiaro, fin dalle prime pagine, che è una razza a parte, un’èlite di dèi-padrini, di donne-madri virtuose, prolifiche e sottomesse, di teste finissime e brutaloni simpatici. Che tenerezza quel Luca Brasi dall'”intensa brutalità” stampata sul viso!
Come si fa a misurarsi e tentare di mettersi a paro con questa razza di superuomini? Una fragile donna americana ci prova e, a modo suo, ci riesce. Fino alla fine non capirà, o non vorrà capire, che suo marito, il nuovo Don, è un assassino plurimo che pianifica e mette in opera ecatombi a ciclo continuo, ma la conversione della first-lady al cattolicesimo e le pratiche devote l’aiuteranno a continuare a condividere la sua esistenza con Michael, successore del Padrino, una volta sepolto nel passato remoto il suo ruolo di eroe di guerra. Adesso nella sua guerra privata è lui il Napoleone e il boia, lo stratega e il beccamorti. Nelle ultimi pagine Kay verserà qualche lacrimuccia ma si può essere certi che la storia della famiglia Corleone continuerà, tra un padrenostro e un requiem aeternam…
Ma torniamo al vecchio Don. È proprio il migliore uomo del mondo. Gran testa, abilissimo politico, passato onestissimo, poi in affari come assassino e importatore di olio d’oliva. Si acquista ben presto una fama che farebbe invidia a chiunque. Il morente ex consigliori gli chiede di fare il miracolo: tenerlo in vita, ma il Padrino, che non se la sente di fare concorrenza a Sant’Antonio o a Santa Rita, si schermisce: “Io non ho questo potere. Se lo avessi sarei più misericordioso di Dio, credimi” (p.43), tant’è vero che lui, misericordiosamente, manda al Padreterno un numero imprecisato di viventi, ma se potesse risusciterebbe i morti.
Purtroppo per il vecchio Don c’è chi vuole tentare strade nuove, non si contenta di attività redditizie quanto benemerite, come le scommesse clandestine e lo sfruttamento della prostituzione, ma per l’amor di Dio, gli stupefacenti no! Al “Turco”, il siciliano rinnegato – proprio come nell’opera dei pupi, con i Paladini di Francia contro i Mori infedeli – che gli propone di entrare nel nuovo corso narco-mafioso, il Padrino dice, papale papale: “Devo rispondere negativamente, ma devo dirvene le ragioni. I profitti del vostro commercio sono imponenti, ma altrettanto lo sono i rischi. La vostra operazione, qualora vi prendessi parte, potrebbe danneggiare gli altri miei interessi” (p. 72). Parole chiarissime: il traffico di stupefacenti è definito “uno sporco commercio”, ma il problema è comparare costi e benefici, senza scomodare il richiamo a un inderogabile “codice d’onore” e a una “morale alternativa”. Sollozzo, il “Turco” rinnegato, va per la sua strada, si dedica proficuamente al traffico di eroina e, per non avere intralci, fa sparare al Don che ha la pellaccia dura, è ferito gravemente ma non muore.
Con il Padrino all’ospedale è il turno dei figli e dei comprimari. Il primogenito è un energumeno dal membro spropositato ma non smentisce la “tradizione”. Ammazza da degno figlio di suo padre finché non è ammazzato in un’imboscata tesagli con la complicità del cognato, che farà una brutta fine.
Il secondo figlio scompare in un albergo di Las Vegas e si meriterà la pessima opinione del padre: un damerino-donnaiolo che, udite udite, si fa schiaffeggiare in pubblico, il colmo per uno che discenda da lombi così illustri. Se continua così morirà nel suo letto senza avere ucciso nessuno. Una vera vergogna.
Per fortuna, a consolazione del Padrino, c’è il terzogenito, che sembrava avviato per le strada dell’americano-bene, con decorazioni di guerra e master in un’università prestigiosa. Ma basterà una buona sberla, somministrata da un capitano di polizia, che si vende al “nemico”, a risvegliare il sangue del nuovo semidio. Michael in breve diventa il degno continuatore del padre, ma si vedeva fin dall’inizio che era predestinato. Se si tira un po’ per le lunghe è per l'”economia” del romanzo. Dopo avere ucciso, in modo da strabiliare un arcangelo sterminatore, il nemico numero uno e il piedipiatti fedifrago, Michael deve scappare, ovviamente in Sicilia, ovviamente a Corleone, la mitica Madre Patria, a ritrovare le radici che hanno prodotto tanto frutto. E lì Michael capisce il perché e il percome. Si tuffa nell’Eden primigenio, ha il colpo di fulmine per un’Eva indigena che sarà la sua sposa per poco, destinata com’è, per la perfidia dei nemici e la gaglioffaggine del solito traditore, a saltare con la macchina imbottita di tritolo (i metodi made in Usa sono arrivati anche nell’entroterra siciliano); apprende dalla viva voce dei mitici fondatori cos’è stata la mafia e dalla realtà quotidiana cos’è diventata. Tutto nella spazio di una sola pagina. A pagina 329 della traduzione italiana leggiamo la sintesi dell’apprendistato storico-letterario di Michael: la mafia prima era buona, dava giustizia e assicurava protezione ai poveracci (la solita solfa), ma adesso era diventata “il braccio illegale dei ricchi e persino la polizia ausiliaria della struttura ufficiale e politica”, in breve: “una struttura degenerata della società capitalistica”. In una paginetta c’è tutto, o almeno il bignamino che basta a Michael e al lettore che si contenta di poco. E Michael e il lettore continueranno per la strada già segnata: il primo intraprenderà la carriera del Don, il secondo farà sempre più il tifo per la benemerita Assassineria “Corleone & Sons”.
Nel frattempo, in terra americana, avviene l’altra grande scena-madre: il supervertice mafioso per porre fine alla guerra tra le famiglie. Teatro naturale la sala delle conferenze di una banca d’affari. Protagonisti il fior fiore della canaglieria del secolo in panni di dèi ed eroi soprannaturali. Ognuno ha la sua storia, compendiata in poche righe come in un cartiglio su un piedistallo. Ma su tutti domina il nostro Padrino che si comporta da par suo: un’introduzione da grande statista, poi un paio di interventi risolutivi fino alla splendida perorazione finale e all’abbraccio pasquale con il nemico. Se Don Corleone è il Giove sapiente e imperturbabile, anche quando è alle soglie dell’autopensionamento, gli altri fanno di tutto per non essergli da meno: tutti sono solenni e comprensivi, parlano d’affari ma con il cuore in mano, sono accomunati dalla stessa fede nel business (“non siamo comunisti, dopo tutto”: ma questo l’avevamo capito) e dal disprezzo per i “negri”, a cui rifileranno la droga (ma ai bambini, ai bambini, no! “Non voglio che si venda ai bambini”: p. 293). Cuori di padri, cuori di affaristi-assassini bianchi, che hanno ben compreso che è più conveniente passare alle attività legali, ma senza perdere i contatti con quelle illegali, anche se è meglio trincerarsi dietro i criminali “ultimi arrivati”.
Ma Puzo tiene in particolare al discorso finale del Don: un discorso memorabile, pieno di buon senso e lungimiranza, che consolidò la sua fama di statista della mafia e di profeta del futuro. Come Mosè alle soglie della Terra promessa il Don guarda al futuro che lui non vedrà ma ha preparato per i figli dei figli dei figli: “Ora ho dei nipoti e spero che i loro figli possano un giorno, chi lo sa, essere governatori o presidenti. Nulla è impossibile qui in America” (p. 295).
Sappiamo come sono andate le cose e quale miscuglio di sangue e business ha dominato gli ultimi decenni del XX secolo. La mafia è cresciuta, omicidi e stragi sono continuati, l’accumulazione criminale ha toccato cifre impensabili venti o trent’anni fa. Sono nate nuove mafie e il “Padrino” di Puzo ha continuato ad avere tantissimi lettori: lo stereotipo di una mafia originariamente buona e successivamente degenerata ha continuato a tenere banco, ma questo non è dipeso solo dal successo dei romanzi di Puzo. La fabbrica degli stereotipi se ha in Puzo uno dei marchi più noti ha sfornato e sforna altri prodotti che hanno veicolato un’immagine mitica e apologetica della mafia. Dopotutto le dichiarazioni di Buscetta sui suoi amici “buoni” (quelli che nei primi anni ’60 usavano le giuliette al tritolo) e sui corleonesi “cattivi” ricalcano esattamente questo vecchio cliché.