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Chiesa, mondo cattolico e mafia

Umberto Santino

Chiesa, mondo cattolico e mafia

Mentre la Chiesa cattolica ha compiuto i primi passi per il processo di beatificazione di padre Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso nel settembre del 1993 (sulla lapide nella sua chiesa non c’è la parola mafia ma nessuno ha mai dubitato che sia stato ucciso da mano mafiosa), la Cassazione ha definitivamente assolto padre Frittitta, condannato in primo grado per favoreggiamento aggravato nei confronti del capomafia Pietro Aglieri, assolto in appello e definitivamente scagionato dalla Suprema Corte “per aver commesso il fatto nell’esercizio di un diritto”, cioè per avere esercitato il suo ministero di sacerdote visitando il boss latitante e dicendo messa nel suo nascondiglio, debitamente arredato con un altarino.
Al di là di scelte personali, che possono portare al martirio o all’incriminazione per favoreggiamento, nella lunga vicenda dei rapporti con la mafia la Chiesa cattolica e più in generale il mondo cattolico hanno assunto atteggiamenti diversi, che vanno dal silenzio alla denuncia, dalla complicità all’impegno, dalla condivisione alla condanna.
Nella mia Storia del movimento antimafia ho ricostruito questi rapporti, cercando di essere il più possibile obiettivo e dando spazio a eventi e figure dimenticati.


Chiesa cattolica e movimento contadino

Nell’oltre mezzo secolo che vide la contrapposizione tra il movimento contadino, le forze politiche di sinistra e i proprietari terrieri e i mafiosi, dall’ultimo decennio del XIX secolo agli anni ’50 del XX, la Chiesa è stata, quasi unanimemente, dalla parte di chi deteneva il potere, considerando quelle lotte, in nome del socialismo e del comunismo, un grave attentato all’assetto socio-politico in cui era pienamente inserita.
Durante i Fasci siciliani, l’unica voce che in un primo momento mostrò di comprendere “le ragioni del malcontento popolare” fu quella del vescovo di Caltanissetta Guttadauro che in una lettera pastorale dell’ottobre 1893 scriveva: “Le ragioni del malcontento esistono e non si possono dissimulare. Il ricco per lo più abusa delle necessità del povero, che viene costretto a vivere di fatica, di stento, di disinganno”. Il vescovo invitava i parroci a reclamare presso i proprietari e i gabelloti, direttamente o indirettamente legati alla mafia, perché si ristabilisse la giustizia e l’equità nei contratti, la giusta proporzione tra il lavoro e il capitale, venisse diviso equamente il raccolto, si desse ai lavoratori la giusta mercede, cessasse l’usura. Ma successivamente, nel febbraio del 1894, quando la parabola dei Fasci siciliani si era chiusa nel sangue (108 morti in un anno), per l’azione congiunta dei campieri mafiosi e dei militari inviati da Crispi, monsignor Guttadauro muta registro e si unisce al coro dei prelati che scagliano fulmini contro i Fasci: le plebi sono state illuse da istigatori malvagi e da ree dottrine, come il socialismo e la massoneria. Il vescovo di Noto propone di rinchiudere “caritatevolmente” i socialisti in manicomio e definisce “stoltizia” l’aspirazione a ordinamenti democratici e a un’equa distribuzione dei beni. Il cardinale arcivescovo di Palermo tuona contro i “mestatori anarchici e socialisti” e riceve nel palazzo arcivescovile il generale massacratore Morra di Lavriano che lo ringrazia per la pubblicazione della sua pastorale.
Eppure negli anni successivi nasceranno all’interno del mondo cattolico nuove forme di apostolato sociale, associazioni e istituti “diretti a sollevare la povertà del popolo”, germogli siciliani dell’Opera dei Congressi, che si proponeva di avviare un intervento delle parrocchie nella vita sociale.
Si profila così quella che sarà la strategia dei cattolici più avveduti di fronte al movimento contadino: condanna esplicita del socialismo e delle lotte ad esso ispirate, promozione di iniziative volte ad alleviare le condizioni di vita degli strati più disagiati. Così, per fronteggiare l’usura, don Sturzo, fondatore del Partito popolare, si prodiga per lo sviluppo delle casse rurali cattoliche, all’interno di una visione che poggia su un’analisi abbastanza lucida del fenomeno mafioso, salito alla ribalta nazionale con il delitto Notarbartolo del febbraio del 1893, ma sulla chiusura verso la lotta di classe. I cattolici erano favorevoli alle affittanze collettive, che miravano ad eliminare il gabelloto mafioso sostituendolo nell’affitto dei feudi con le cooperative di lavoratori, e puntavano l’attenzione verso i ceti medi: piccoli proprietari coltivatori, mezzadri e fittavoli. In concreto le casse rurali cattoliche nascono in contrapposizione con le casse agrarie socialiste e raccolgono soggetti non proprio raccomandabili. Così a Santo Stefano Quisquina, in provincia di Agrigento, si consuma una vicenda esemplare: la contrapposizione tra la Cassa agraria cooperativa, organizzata dal dirigente socialista Lorenzo Panepinto, e la Cassa rurale cattolica, legata ai gabelloti, si inserisce in uno scontro, avviato negli anni dei Fasci e continuato successivamente, che porta nel maggio del 1911 all’omicidio di Panepinto, destinato come tantissimi altri a rimanere impunito. Ma anche in un centro di vitale importanza per le lotte contadine e lo scontro con la mafia, come Corleone, vengono segnalati legami della locale Cassa rurale con mafiosi: affiliati alla cosca dei “fratuzzi” venivano impiegati come campieri nelle affittanze e godevano del credito agrario e commerciale.


Preti uccisi dalla mafia e la “famiglia sacerdotale” di don Calò Vizzini

Negli anni precedenti l’avvento del fascismo il movimento contadino vive una nuova stagione di lotte anch’essa conclusa nel sangue. Tra i caduti ci sono il dirigente contadino Nicolò Alongi e il segretario del sindacato dei metalmeccanici di Palermo Giovanni Orcel, che avevano sperimentato le prime forme di collegamento tra lotte contadine e operaie, entrambi assassinati nel 1920. In quegli anni tra le vittime di omicidi ci sono dei preti. Alcuni di essi possono essere caduti per avere svolto attività non gradite agli ambienti mafiosi. Giorgio Gennaro, ucciso nel 1916 nella borgata palermitana di Ciaculli, regno della dinastia mafiosa dei Greco, aveva denunciato il loro ruolo nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche. Così pure Costantino Stella, arciprete di Resuttano, in provincia di Caltanissetta, ucciso nel 1919, e Stefano Caronia, arciprete di Gibellina, in provincia di Trapani, ucciso nel 1920, sono “preti sociali”, la cui attività si lega all’insegnamento di Leone XIII e all’azione di don Sturzo. Ma accanto ad essi troviamo preti legati alla mafia, come l’arciprete di Castel di Lucio (Messina) Gian Battista Stimolo, ucciso sempre nel corso degli anni ’20, e altri come i cinque ecclesiastici della famiglia di Calogero Vizzini, capomafia per molti anni, che non risulta abbiano mai avuto nulla da ridire sulle imprese del loro congiunto. Due di essi, zii di don Calò, sono vescovi, un altro zio è arciprete, e due fratelli sono preti e uno, monsignor Giovanni, per poco non ha indossato anche lui i panni episcopali. Calogero Vizzini, mafioso-imprenditore, gabelloto di feudi e di miniere di zolfo, è il protagonista della sparatoria sulla piazza di Villalba, del 16 settembre 1944, in cui rimase ferito Girolamo Li Causi, da poco arrivato in Sicilia per riorganizzare il Partito comunista. Di casa Vizzini il vescovo di Caltanissetta Giovanni Jacono scriveva che era una famiglia “veramente sacerdotale” e non nascondeva che aveva aiutato il capomafia a scampare al carcere. Il vescovo aveva speso la sua autorità anche per altri mafiosi, congiunti di sacerdoti, arrestati o confinati.


Il cardinale Ruffini: i comunisti fuori legge

Nell’ultima fase del movimento contadino, nel secondo dopoguerra, non troviamo traccia di un ruolo dei cattolici, se non dall’altro lato delle barricate. La figura più rappresentativa della Chiesa siciliana è certamente il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, mantovano ma ben presto ambientatosi nel clima isolano. Dopo la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, eseguita dalla banda Giuliano ma voluta dagli agrari, dai mafiosi e dai partiti conservatori, battuti alle elezioni regionali del 20 aprile in cui per la prima e ultima volta vinsero le sinistre raccolte nel Blocco del popolo, Ruffini inviò una lettera al Papa, in cui parlava di inevitabile resistenza e ribellione “di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alla teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti”. E dopo la vittoria della Dc alle elezioni del 18 aprile 1948, chiese per iscritto al ministro degli Interni, il siciliano Mario Scelba, e a voce al presidente del consiglio Alcide De Gasperi, di mettere fuori legge il PCI. I nemici sono loro, i comunisti, scomunicati come il nuovo Anticristo, e in nome della lotta anticomunista tutto è lecito o giustificabile. E negli anni ’40 e ’50 ci saranno manovre per indebolire le lotte contadine, con la scissione sindacale, la creazione della Coldiretti, e la Chiesa, che nel maggio ’47 aveva salutato come un fatto positivo la rottura della coalizione antifascista al governo nazionale, avrà un ruolo di primissimo piano nella costruzione di un quadro politico ermeticamente sbarrato a sinistra.
Nel dicembre del 1951 il pontefice Pio XII rivolse un invito ai vescovi radunati nel concilio plenario siculo a “provvedere all’assistenza religiosa e materiale della plebe proletaria” e a favorire “con tutti i mezzi le Associazioni cristiane dei lavoratori e i loro liberi Sindacati”, ma il tentativo del vescovo di Agrigento Giovanni Battista Peruzzo di inserire nei canoni conciliari un capitolo sull’apostolato sociale, riprendendo la dottrina sociale della Chiesa su temi come il pieno impiego, il salario familiare, la bonifica delle terre, la riforma della proprietà terriera, l’assistenza alla piccola proprietà, sempre tenendo ben fermo il distacco dalle organizzazioni comuniste, compresa la CGIL, cadde nel vuoto, per il timore che anche soltanto parlare di “questione sociale” potesse portare acqua al mulino comunista.
Assolutamente isolata rimase la voce di don Primo Mazzolari che in un libretto sulla Sicilia scriveva che “il cristiano non può rimanere indifferente di fronte ai conflitti e alle contese di classe e di casta”. In compenso continuano le convivenze con la mafia anche sotto lo stesso tetto familiare. A Caccamo, in provincia di Palermo, il fratello del capomafia è l’arciprete Teotista Panzeca e in quella zona cadranno Filippo Intile, un contadino che si batteva per l’attuazione del decreto che disponeva la divisione del prodotto a favore dei coltivatori, e il sindacalista Salvatore Carnevale, mentre la Dc raggiungerà percentuali da monopolio.


La mafia? Un’invenzione dei comunisti!

Una volta sconfitto il movimento contadino e apertasi la strada all’emigrazione, la lotta alla mafia negli anni ’60 e ’70 è condotta da una sinistra ormai minoritaria. Nei primi anni ’60 si scatena una sanguinosa guerra di mafia e dopo la strage di Ciaculli, del 30 giugno 1963, il pastore della piccola comunità valdese di Palermo Pietro Valdo Panascia fa affiggere un manifesto in cui condanna esplicitamente la violenza mafiosa. A nome del Papa Paolo VI, il sostituto della Segreteria di Stato scrive al cardinale di Palermo, segnalando la presa di posizione di Panascia e invitandolo, con lo studiato linguaggio della diplomazia vaticana, a promuovere un’azione “per dissociare la mentalità della così detta “mafia” da quella religiosa e per confortare questa ad una più coerente osservanza dei principi cristiani”.
La risposta di Ruffini è molto meno diplomatica: non si può neppure lontanamente supporre un rapporto tra mentalità mafiosa e religiosa: questa è una calunnia dei comunisti. Il manifesto dei valdesi è solo “un ridicolo tentativo di speculazione protestante”; si parla tanto di mafia, ma sono solo delinquenti comuni, come ce ne sono dappertutto. E la Chiesa cattolica è impegnata quotidianamente in mille opere di bene.
L’anno successivo Ruffini pubblica una pastorale dal titolo Il vero volto della Sicilia, in cui dice che la mafia è formata da “gruppi di ardimentosi” mobilitati da alcuni capi, che la Sicilia ha dato i natali a tanti uomini illustri ma è purtroppo denigrata da personaggi come Danilo Dolci e da un romanzo come Il Gattopardo. Il documento del cardinale mantovano si può annoverare tra le pagine più emblematiche del sicilianismo, un’ideologia a forte tasso di filomafiosità. Non mancheranno all’alto prelato occasioni per continuare a tempestare contro i comunisti: è opera loro la montatura inscenata contro i monaci di Mazzarino – scriveva Ruffini a Giovanni XXIII – ma i frati saranno condannati come complici di mafiosi responsabili di estorsioni e di omicidi. Invano a loro difesa si erano levate le voci di avvocati come Giovanni Leone e Francesco Carnelutti, che sostenne che i frati erano dei santi, perché cercavano di persuadere gli estorti a pagare il pizzo, per evitare guai peggiori. Un esempio di francescanesimo riscritto in chiave mafiosa.


Dagli anni ’80 ad oggi: emergenze, impegno e compromesso

Le vicende degli ultimi decenni dovrebbero essere meglio note ma non mi pare che sia in corso una riflessione adeguata. Con la montagna di morti dell’ultima guerra di mafia (1981-83) e soprattutto con i grandi delitti e le stragi dei primi anni ’90, si è riscoperta ancora una volta la mafia (una storia che si ripete, dal delitto Notarbartolo ai nostri giorni) e c’è stata una reazione che ha portato alla legislazione antimafia, agli arresti e alle condanne e alla mobilitazione della società civile. La Chiesa, attraverso la parola del cardinale di Palermo Pappalardo e del Papa, ha preso posizione, c’è stato un impegno, meno visibile ma prezioso, di preti e credenti che ha portato al martirio di don Puglisi e di don Diana in Campania; si è parlato di mafia in termini nuovi, come “peccato sociale” e “struttura di peccato”, si sono gettate le basi per una “pastorale antimafia”. Ma anche la Chiesa e il mondo cattolico non sono sfuggiti al limite di fondo che hanno avuto istituzioni e società civile, attivate in una logica d’emergenza, cioè di risposta alla sfida mafiosa, con il ripiegamento e il ritorno alla “normalità” una volta che i mafiosi più accorti hanno messo da parte la strategia stragista. Se la mafia viene considerata soprattutto o esclusivamente una fabbrica di omicidi, un’emergenza straordinaria coincidente con la stagione dei delitti eccellenti, è facile passare all’equazione secondo cui una mafia che non uccide più, o uccide meno, comunque non uccide personaggi di primo piano, è una mafia alle corde, di cui non preoccuparsi eccessivamente.
E poi, tenendo conto di quello che rappresentano Chiesa e mondo cattolico nel nostro Paese, e non solo, non si poteva andare oltre un certo punto. Così le omelie del cardinale Pappalardo e del Papa si sono fermate quando era chiaro che bisognava affrontare il nodo del potere democristiano e del ruolo della Chiesa al suo interno. Le reazioni all’omicidio di don Puglisi sono state sottotono, la Curia e la parrocchia non si sono costituite parte civile al processo contro i mafiosi incriminati dell’assassinio, con una giustificazione inquietante: alla Chiesa interessa la conversione dei peccatori e quindi la giustizia terrena non ha molta importanza, una valutazione che rischia di somigliare al non riconoscimento del monopolio statale della forza e della giustizia teorizzato e praticato dai mafiosi.
A cosa alludeva il sostituto della segreteria di Stato nella lettera al cardinale Ruffini del 1963 quando parlava di mentalità mafiosa e mentalità religiosa? Il discorso allora non fu sviluppato ma successivamente non sono mancati contributi significativi. Teologi, moralisti, sociologi hanno sottolineato che c’erano e ci sono concezioni, linguaggi, riti, pratiche, che spiegano come in società ufficialmente cristianizzate si possano affermare e istituzionalizzare comportamenti e organizzazioni criminali. I mafiosi devoti, da Michele Greco ad Aglieri, assidui lettori della Bibbia e di testi edificanti e con altarino da latitanza, come pure i sicari di Medellín che pregano Maria Ausiliatrice prima di recarsi a compiere il loro omicidio quotidiano, condividono una religiosità che è fatta di pratiche esteriori, di elemosine e processioni, di frequentazioni con uomini di Chiesa che li esortano al pentimento, assicurando che Dio non farà mancare il suo perdono. Qualcuno ha visto nel culto dei santi come intermediari tra Dio e gli uomini qualcosa di molto simile al clientelismo, una sorta di proiezione celeste della pratica della raccomandazione; certamente l’autoritarismo della struttura gerarchica non aiuta a promuovere la partecipazione democratica e un’etica che dà maggiore importanza agli “atti impuri” che ai comportamenti sociali non stimola i fedeli a diventare cittadini impegnati per il rinnovamento della società.
Chiesa e mondo cattolico erano e rimangono una realtà composita, in cui convivono don Puglisi e padre Frittitta, la teologia della liberazione e le spregiudicate operazioni finanziarie di monsignor Marcinkus (su cui non si è mai fatta chiarezza). E se gli occhi sono rivolti al cielo, i piedi sono ben piantati sulla terra. La Chiesa fa politica, amministra consenso, assegna preferenze. In passato l’azione politica dei cattolici osservanti aveva come collante l’anticomunismo, e in suo nome si sono fatti compromessi e ingoiati rospi; ora, rottamata l’unità politica, può bastare la condivisione di concezioni e interessi, che vanno dalla condanna dell’aborto al finanziamento delle scuole private. Nessuna sorpresa se su questa base si trovano consonanze con il centro-destra, verso cui vanno le simpatie del Vaticano e della Conferenza episcopale italiana. La “questione morale” può attendere. Dopo mezzo secolo di Andreotti, ben venga Berlusconi, anche se della sua compagnia fa parte un certo Bossi che preferisce la acque del Po all’acqua benedetta.
Come pure non bisogna sorprendersi se già sono cominciate le gare di salto sul carro del vincitore. Alle elezioni regionali siciliane si è candidata con Forza Italia una dirigente delle Acli, una delle più popolari organizzazioni cattoliche, che a suo tempo fu nominata referente regionale di Libera. Scelta che non fu condivisa da noi del Centro Impastato, da alcuni del Centro sociale San Saverio dell’Albergheria e da qualche altro, che pure non aveva fama di estremista, e sulla base di argomentazioni non peregrine. Le Acli in Sicilia avevano avuto un ruolo nel movimento per la pace dei primi anni ’80, avevano fatto parte del Coordinamento antimafia, costituitosi a Palermo nel 1984 su proposta del Centro Impastato, ma il loro impegno doveva fare i conti con la compartecipazione al potere democristiano (per cui in privato si poteva dire tutto il male possibile di Salvo Lima, ma in pubblico bisognava tenere la lingua a posto) e con le compatibilità del sistema clientelare. Osservazioni che caddero nel vuoto.
Allora, in nome di scelte discutibili, si produssero lacerazioni che non hanno certo giovato al movimento antimafia. Ora chi predicava l’educazione alla legalità ha pensato bene di traslocare in condomini più accoglienti, porta a porta con personaggi sotto processo per mafia (ma si può scommettere sulla loro assoluzione, dopo il diritto all’impunità proclamato da un voto che, anche per effetto di un sistema elettorale aberrante, somiglia a un plebiscito). Queste vicende, in un quadro in cui la lotta antimafia rischia di essere archiviata e le istituzioni sono in mani certamente poco affidabili, saranno un’occasione per riflettere o si dirà che sono soltanto un incidente di percorso?

Pubblicato, con il titolo La mafia è male, però…, su “Narcomafie”, luglio-agosto 2001, pp. 48-53