La fabbrica dei diavoli
Umberto Santino
La fabbrica dei diavoli
A lezione dalla Cia: fondamentalismo e droga in Afghanistan
Dopo gli attentati di Washington e di New York il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha dichiarato che gli americani risponderanno con la massima decisione agli attacchi dei terroristi e libereranno il mondo dal “diavolo”.
Il diavolo ha il volto, ormai notissimo, di Osama Bin Laden e quello, in gran parte da scoprire, di tutti coloro che sostengono o favoriscono l’azione dei gruppi terroristici. E si è subito parlato del ruolo dei taleban afghani.
Sarà bene risalire un po’ indietro nel tempo per ricostruire le vicende che hanno portato alla nascita del diavolo o dei diavoli. Com’è noto l’Afghanistan è il primo produttore mondiale di oppio, un primato che è stato detenuto in passato dalla Birmania-Myanmar (che nei primi anni ’90 ne produceva da 2.600 a 2.800 tonnellate) ma che in seguito è passato nelle mani degli afghani, che già nel 1994 producevano 3.200 tonnellate e negli ultimi anni hanno fatto registrare produzioni record come quella del 1999: 4.600 tonnellate su una superficie di 91.000 ettari (Ogd 2000, p. 44). Secondo i dati dell’Undcp (United Nations Drug Control Programme) nel 2000 la siccità avrebbe comportato una flessione: si sarebbero prodotte “soltanto” 3.300 tonnellate, ancora la quantità più alta del mondo. Nel 1999 l’oppio afghano era il 79% della produzione illecita mondiale, nel 2000 il 70% (Odccp 2001, pp. 30, 35).
L’accrescimento delle coltivazioni è avvenuto soprattutto nell’est del paese, la provincia di Nangarhar, e ci sono zone (Sokrud, Khoughianil, Shinwar, Chinwa) in cui il papavero è coltivato nel 60% della superficie. Coltivazioni ci sono pure in terre di proprietà statale, assegnate a taleban-agricoltori. Al momento delle semine i contadini seminano insieme grano e papavero e successivamente distruggono il grano in erba e lasciano crescere il papavero (Ogd 2000, pp. 44 sg.).
Nel novembre del 1997 l’Undcp ha lanciato un progetto-pilota che stanzia 16,4 milioni di dollari in dieci anni per le campagne di eradicazione e sostituzione con coltivazioni alternative. I taleban allora dichiararono che non occorreva attendere tanto tempo, ma se alcuni contadini hanno seguito le indicazioni la maggioranza ha continuato a coltivare il papavero.
I taleban hanno scelto per le campagne di eradicazione la provincia di Kandahar, di cui sono originari il leader mullah Omar e altri capi, dove pensavano di incontrare minori resistenze, mentre in quella di Nangarhar la coltivazione di oppio è la principale fonte di reddito per i contadini della tribù Pashtun, la stessa etnia dei taleban che però hanno problemi con il loro gruppo etnico: nel 1999 ci sono stati scontri per il tentativo di impedire i pellegrinaggi legati al culto dei santi che gli “studenti di teologia” disapprovano ma che viene diffusamente praticato.
I taleban si dichiarano impegnati nella “guerra alla droga” e hanno anche condotto e pubblicizzato operazioni di eradicazione e contro i laboratori di eroina, ma in realtà ricavano dall’oppio grossi proventi. Essi applicano alla produzione agricola il cosiddetto ochor: un sistema di tassazione in natura che prevede la redistribuzione della terza parte del ricavato ai più poveri, mentre le altre due parti rimangono nelle casse dello Stato. Per l’oppio la tassa in natura è del 12,5% e in questo caso l’oppio confiscato non viene redistribuito ma venduto interamente ai laboratori di eroina. Abbiamo i dati relativi al 1997: nella provincia di Nangarhar sono state prodotte 634 tonnellate di oppio, di cui 79 tonnellate, per un valore di circa 5 milioni di dollari, sarebbero state rivendute dai taleban. C’è anche un’imposta sui laboratori, di 70 dollari per chilo d’eroina, con un profitto di 5,53 milioni di dollari. I taleban autorizzano il trasporto dell’eroina con un balzello di 250 dollari per chilo, rilasciando un lasciapassare e intascando qualcosa come 15,8 milioni di dollari solo per la provincia di Nangarhar. Il totale dei prelievi effettuati dai taleban ammonterebbe quindi a più di 25 milioni di dollari. Secondo l’Ogd (Observatoire géopolitique des drogues) se si vuole tentare di valutare i proventi dell’oppio afghano bisogna moltiplicare questa cifra per tre (Ogd 2000, p. 45). E siamo a 75 milioni di dollari. Pe il 1999, anno della produzione record, si calcola che si sia toccata la cifra di 251 milioni di dollari (Migliavacca 2001). Sono da ritenere esagerate le stime secondo cui il fatturato complessivo dell’eroina proveniente dal Golden Crescent (Mezzaluna d’oro), comprendente Afghanistan, Iran e Pakistan, sarebbe tra 100 e 200 miliardi di dollari su un totale mondiale dei proventi del mercato delle droghe di 500 miliardi; gli osservatori più attenti riducono drasticamente queste cifre: il totale annuale sarebbe tra 100 e 200 miliardi e per la Mezzaluna d’oro non si andrebbe oltre i 50 miliardi. In ogni caso si tratta di somme favolose per un bilancio come quello dell’Afghanistan che è uno dei paesi più poveri del mondo: secondo le classifiche dell’Undp (United Nations Development Programme) è al 169° posto su 174 paesi, con una speranza di vita di meno di 44 anni e un reddito pro capite di 800 dollari (Undp 1996, p. 153).
La Jihad e l’eroina
Gli impegni antidroga assunti dai taleban con l’Undcp e di fronte all’opinione pubblica internazionale vanno valutati alla luce di questi dati. Nel febbraio del 1999 è stato annunciato che erano stati bruciali 34 piccoli laboratori (l’Ogd parla di “cucine mobili”) in zone di frontiera con il Pakistan. Per pubblicizzare questi risultati della “campagna antidroga” furono inviati in Afghanistan giornalisti e rappresentanti dell’Undcp che visitarono alcuni dei laboratori distrutti e a cui furono mostrati qualche sacco d’oppio e delle bottiglie d’anidride acetica, proveniente da Germania, Russia, India, Pakistan e Iran. Tutto qui. Non era stato confiscato neppure un grammo d’eroina e non era stato arrestato neppure un trafficante.
Il capo supremo dei taleban, il mullah Omar, aveva dichiarato che l’eroina era “antislamica” e costituiva un “crimine contro l’umanità” e nel dicembre del ’98 aveva dato il via alle operazioni. In realtà furono distrutti soltanto dal 10 al 20% dei laboratori operanti nel Nangarhar e i trafficanti erano stati avvertiti e avevano smantellato le installazioni. I taleban negano di praticare una tassa sui laboratori ma informatori affidabili riferiscono che essa c’è stata e continua ad esserci, anzi è aumentata (da 2.500 rupie, equivalenti a 50 dollari, a 3.700 rupie, 70 dollari), in previsione della flessione dei guadagni conseguente all’avvio delle operazioni. I trafficanti si sono rifatti sugli acquisti di oppio, facendone ribassare il prezzo, da 120 a 80 dollari per chilo, ma già avevano comprato gran parte della produzione record del ’99, pagando ai contadini in media 50 dollari al chilo. Anche l’anidride acetica, un precursore necessario per la produzione di eroina, è ribassata: da 64 a 48 dollari il bidone (Ogd 2000, p. 46).
Nel luglio del 2000 un decreto del leader dei taleban ha messo al bando le coltivazioni di oppio e, stando alle informazioni più recenti, negli ultimi mesi le coltivazioni si sarebbero drasticamente ridotte: nelle provincie di Helmand e di Nangarhar e nelle altre regioni controllate dai taleban si sarebbe passati da 71.000 ettari a soli 27 ettari (Undcp 2001), ma i depositi di oppio non sarebbero stati distrutti.
Ci si può chiedere come mai i taleban, custodi dell’interpretazione più rigida del testo coranico e altrettanto rigidi osservanti della legge tribale dei Pashtun, possano tollerare la produzione di eroina e intascarne gli utili. Studiosi della questione afghana hanno scritto o dichiarato che i fondamentalisti islamici sono dei pragmatici che usano tutti i mezzi per condurre la loro guerra santa per la liberazione dei territori dagli “infedeli” (la Jihad) e la droga è un mezzo come un altro, anzi più conveniente di tutti gli altri, per il finanziamento della loro attività (Labrousse 1991, pp. 110 sg.).
Negli anni ’80 il comandante del Fronte nazionale islamico, Amad Akbar, che controllava la regione dell’Helmand, dove i campi di papavero erano ben visibili e occupavano più della metà della superficie, assicurava che quando si sarebbe costituito lo Stato islamico sarebbe stato vietato coltivare oppio e cannabis, ma come abbiamo visto la produzione non solo è continuata ma è cresciuta. I taleban sono scrupolosissimi nell’applicazione della “legge islamica”, hanno proibito l’ascolto della musica, vietato alle donne la frequentazione delle scuole e l’esercizio delle professioni, hanno distrutto a cannonate le statue rupestri di Buddha, condannano a morte chi ha libri proibiti o si converte ad altra religione, ma si sono dimostrati alquanto “permissivi” nei confronti del business della droga.
Non è da escludere che oltre al fattore economico giochino altri fattori, come per esempio il desiderio di intossicare l’Occidente, verso cui fluisce gran parte dell’eroina, ma il consumo di eroina si è espanso anche nel mondo islamico, in particolare nel Pakistan, che conta attualmente più di un milione e mezzo di tossicodipendenti, più dell’intero mercato europeo e statunitense.
Da angeli a diavoli
Se Satana e gli altri demoni nella teologia ebraico-cristiana sono degli angeli caduti, altrettanto si potrebbe dire dei taleban e di tutti gli altri che oggi vengono indicati come terroristi o loro complici. Prima di diventare agli occhi dell’Occidente i diavoli del terrorismo internazionale sono stati gli angeli della guerra santa contro il comunismo.
I taleban sono andati al potere nel settembre del 1996, quando hanno conquistato la capitale Kabul e hanno instaurato l’Emirato islamico dell’Afghanistan, e il loro governo è stato riconosciuto solo da tre Stati: il Pakistan, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, mentre l’Onu riconosce l’Alleanza del Nord, che controlla solo una piccola parte del paese, al confine con il Tagikistan, il cui leader Amad Shah Massud è stato ucciso con un attentato avvenuto due giorni prima degli attentati negli Stati Uniti.
La conquista del potere da parte dei taleban viene dopo una lunga vicenda di tentativi di modernizzazione, resistenze di forze tradizionaliste, assassinii, colpi di stato, guerre civili, invasioni, che potrebbe avere come data d’inizio il 1919, quando il paese si liberò dal protettorato inglese. Il leader del movimento per l’indipendenza Amanullah Khan, nel suo proposito di modernizzazione si scontrò con la reazione tradizionalista tribale che nel 1929 riuscì a detronizzarlo, ponendo sul trono Mohamed Nadir Shah che adottò una nuova costituzione che riconosceva l’autonomia dei vari capi locali. Il tentativo di modernizzazione doveva riprendere nel 1953 con il primo ministro Mohamed Daoud Khan, veniva interrotto nel 1963, con il predominio delle forze tradizionaliste, ma nel 1973 la monarchia veniva rovesciata, Daoud, cognato del re, diventava presidente della nuova repubblica, mentre il re Zahir Shah andava in esilio in Italia. Nell’aprile del 1977, in seguito all’assassinio del leader del Partito popolare democratico, che aveva avuto un ruolo decisivo nel crollo del regime monarchico, Daoud fu deposto dai militari che lo sostituirono con Nur Mohamed Tarachi. Furono nominati vice primi ministri Hafizullah Amin e Babrak Karmal. Nell’aprile del 1979 la lotta tra i due si risolse in favore del primo, che depose e assassinò Tarachi, che pure era stato suo alleato. Amin cominciò a introdurre cambiamenti radicali (obbligo di alfabetizzazione, abolizione della dote matrimoniale, riforma agraria), suscitando l’opposizione dei signori tribali, dei capi religiosi e di vasti settori del mondo contadino, a cui Amin rispose intensificando la repressione. Nella sollevazione dei militari del 25 dicembre 1979 Amin fu ucciso e andò al potere Kabral, sotto il cui governo i sovietici invasero in pochi giorni il paese.
Contro i sovietici e il governo Kabral entrarono in azione i mujaheddin (letteralmente: quelli della Jihad) che fecero ricorso anche ad attentati nelle principali città. Nel 1986 Kabral fu sostituito da Najibullah e tre anni dopo le truppe sovietiche si ritiravano. Nell’aprile del 1992 crollava il regime comunista e Kabul veniva conquistata dai gruppi guerriglieri, tra cui i più importanti erano l’Jamat-i-Islami, diretto dal tagiko Massud, e l’Hezb-i-Islami, di pashtun fondamentalisti, diretto da Gulbuddin Hekmatyar. Il nuovo regime, che vedeva alla presidenza Burhanuddin Rabbani, considerato l’attuale legittimo presidente dell’Afghanistan, Hekmatyar a capo del governo, Massud al ministero della difesa, introdusse la Sharia, la legge islamica, impose alle donne il velo integrale con la grata per gli occhi (burqa) e vietò cinema e televisione. Ma i vari gruppi si scontrarono violentemente e in questo scontro si inserirono i taleban, addestrati nei campi profughi gestiti dall’Isi (Inter Services Intelligence), il servizio segreto pakistano, che nel settembre del 1996 conquistarono Kabul. Da allora Massud, con l’esercito del Nord formato da tagiki, uzbeki e sciiti iranici, ha capeggiato la resistenza ai taleban, da lui definiti “fanatici bestemmiatori di Allah, calpestatori dei modi di vita tolleranti e misericordiosi indicati dal profeta Maometto”, ha invano chiesto aiuti (l’anno scorso era venuto a Strasburgo per chiedere l’appoggio degli europei e aveva dichiarato: “Come fare a non capire che se io lotto per fermare l’integralismo dei taleban, lotto anche per voi? E per l’avvenire di tutti?”: Mo 2001) ed è stato assassinato da falsi giornalisti algerini con una finta cinepresa. Anche nelle zone controllate dall’Alleanza del Nord si coltiva l’oppio (si parla di 3000 ettari) e, come sottolineano le donne aderenti a Rawa, l’organizzazione femminista afghana, anche i Jehadi di Massud si sono macchiati di crimini e hanno calpestato i diritti umani e delle donne (Rawa 2001).
L’ascesa al potere dei taleban si spiega con l’appoggio del Pakistan e il sostegno della Cia e il traffico di droga ha avuto un peso rilevante nella lotta contro il regime comunista e nello scontro tra i vari gruppi guerriglieri (McCoy 1991, pp. 445-460). In particolare il gruppo fondamentalista diretto da Hekmatyar ha assunto un ruolo di primo piano nel controllo del traffico di droga. La Cia, interessata a favorire la guerriglia contro i sovietici, ha intrecciato rapporti con l’Isi, che ha fatto da tramite con il gruppo di Hekmatyar, che grazie a questi rapporti divenne il capo del gruppo più potente della guerriglia afghana, utilizzando il narcotraffico come fonte di finanziamento, riunendo la duplice funzione di signore della guerra e signore della droga. Hekmatyar controllava i laboratori di eroina lungo il confine con il Pakistan (nella provincia di Khyber alla fine degli anni ’80 ce n’erano da 100 a 200) ma i campi di papavero erano sotto l’egida del mullah Nazim Akhunzada che ordinò ai contadini di coltivare il papavero in metà delle loro terre. Chi disobbediva veniva ucciso o castrato. I camion dell’esercito pakistano andavano in Afghanistan portando armi e tornavano carichi di eroina. Interessante notare che mentre la Cia favoriva questi traffici, la Dea (l’agenzia antidroga degli Stati Uniti), presente in Pakistan con 17 agenti, avrebbe dovuto contrastarli ma lasciava correre. Ed erano gli anni in cui gli Stati Uniti avevano lanciato la crociata mondiale contro la droga, “flagello del nostro tempo”.
Non era la prima volta che la Cia si serviva del narcotraffico per le sue operazioni anticomuniste. Lo aveva fatto nel Sud-Est asiatico, negli anni ’50, dopo la vittoria della rivoluzione cinese, appoggiando il Kmt (l’esercito nazionalista cinese) che praticava su larga scala il narcotraffico per finanziarsi; lo aveva rifatto in Laos, dal 1961 al 1974, appoggiando le tribù meo in una guerra segreta contro i guerriglieri del Pathet-Lao, e la guerra era finanziata dall’oppio; lo rifarà appoggiando prima gli anticastristi e poi i contras antisandinisti, legati ai trafficanti di cocaina (Santino -La Fiura 1993, pp. 235-239).
Per portare a buon fine la guerra contro l’Unione Sovietica, la Cia e l’Isi hanno chiamato a raccolta non solo gli afghani ma i musulmani integralisti di 40 paesi (si parla di 35.000 persone impegnate accanto agli afghani in azioni di guerra) e altre decine di migliaia sono andate a studiare nelle scuole coraniche del Pakistan, dove si sono formate le leve dell’integralismo islamico. L’intermediazione dell’Isi serviva da copertura: molti guerrieri islamici non si rendevano conto di stare combattendo per conto dello Zio Sam (Chossudovsky 2001).
Si può dire che la Cia in questi intrecci con altri servizi segreti, con guerriglieri, narcotrafficanti, abbia dato il meglio di sé, mentre non pare che abbia dimostrato grandi capacità nell’ostacolare l’attività degli stessi gruppi quando, dopo l’implosione del “socialismo reale”, hanno rivolto la loro mira nei confronti degli Stati Uniti, trasformandosi da benemeriti angeli dell’anticomunismo in feroci diavoli del terrorismo transnazionale.
La Cia non si è limitata a ordire complotti, promuovere colpi di stato e condurre guerre più o meno segrete, ha fatto da maestra prodigando consigli e ammaestramenti ad alunni vogliosi di apprendere. Nei manuali che il servizio segreto americano distribuiva ai guerriglieri antisovietici afghani si insegnava come usare i missili terra-aria Stinger, come preparare lettere esplosive, come adoperare un temperino in un involucro di porcellana come arma mortale, come utilizzare un taglierino per recidere i contatti su un aereo passeggeri per farlo scomparire dai radar (Man 2001); quei manuali erano un vademecum del perfetto terrorista che gli esecutori degli attentati dell’11 settembre hanno seguito per filo e per segno, dimostrando di essere ottimi allievi di ottimi maestri.
Il “capo dei capi”: Osama Bin Laden
Il capo di questo esercito internazionale di demoni islamici, una sorta di capo dei capi del terrorismo mondiale, sarebbe Osama Bin Laden. Nato in Arabia Saudita, forse a Gedda, nel 1957, settimo figlio del miliardario di origine yemenita Mohammad Bin Laden, con 11 mogli e 54 figli, prima operaio edile, poi costruttore e fondatore del gruppo Bin Laden Construction che ha condotto una notevole attività e a cui il governo saudita ha affidato i lavori di ampliamento alla Mecca e a Medina. Ha costruito anche la base americana “Prince Sultan US Air Force” in Arabia Saudita.
Il giovane Osama studia architettura e anche lui fa il costruttore e, contrariamente ai dettami coranici, non disdegna la vita mondana. La sua “conversione” avviene con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Raccoglie fondi, arruola mujaheddin, combatte in prima persona. Viene contattato dalla Cia che gli offre assistenza tecnica e fondi. Ma ben presto Osama diventa antiamericano. In Afghanistan fonda il movimento Al-Qaeda, la Base, e in seguito darà vita alla Shabka, la Rete, una struttura di collegamento dei movimenti di liberazione in lotta contro gli Stati Uniti e i loro “lacchè sionisti”, colpevoli di occupare i luoghi sacri dell’Islam. Fanno parte della Rete gli afghani addestrati dalla Cia alle tecniche di guerriglia e molti di essi dopo il ritiro dell’Urss dall’Afghanistan andranno in Algeria a compiere le stragi volute dalla Gia, e tanti altri reclutati un po’ dovunque: dai disoccupati ai piloti, ai tecnici di informatica, ai traduttori, tutti accomunati dallo spirito della Jihad.
Nel 1988 Bin Laden ritorna in Arabia Saudita: le sue attività sono note e i servizi segreti lo tengono d’occhio. Con la guerra del Golfo l’attività di Bin Laden si intensifica. Si oppone alla decisione di far entrare truppe americane nel paese, che vi si stanzieranno nel 1990, e l’anno successivo viene arrestato ed espulso. Va in Sudan, retto da un regime islamico. Nel febbraio del 1993 c’è l’attentato al World Trade Center di New York con 6 morti e più di 1000 feriti e gli americani dicono che c’è un collegamento tra gli esecutori dell’attentato e Bin Laden. La serie di attentati è destinata a continuare. Nel 1994 viene attaccato un aereo di linea delle Filippine, con un morto e 10 feriti. L’anno successivo fallisce un attentato contro il presidente egiziano Mubarak in visita in Etiopia. Nel giugno del 1996 è la volta della caserma militare di Dhaharan, in Arabia Saudita, con 19 soldati americani morti. Su pressione degli americani Bin Laden viene espulso dal Sudan e si rifugia in Afghanistan dove installa campi di addestramento e dove è rimasto fino ad oggi.
Nell’agosto del 1998 ci sono gli attentati alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salam, con 224 morti. Gli Stati Uniti con raid aerei distruggono una fabbrica di medicinali in Sudan sostenendo che produceva armi chimiche (un morto e 9 feriti) e attaccano sei installazioni sul territorio afghano, causando 26 morti e 53 feriti, ma non riescono a colpire Bin Laden. In un attentato in risposta al raid americano viene ferito l’ufficiale italiano Carmine Calò, morto successivamente. Il giornale “Boston Globe” del 17 settembre scorso ha rivelato che il presidente Clinton allora diede un ordine segreto alla Cia perché alcuni agenti a contratto del servizio segreto statunitense, ma non di nazionalità americana, uccidessero Bin Laden, ma l’attentato fallì. Clinton, per aggirare la legge introdotta da Ford che vietava agli agenti segreti americani di compiere omicidi, invocò “l’eccezione di autodifesa”. Dopo gli attentati di Washington e New York è stata ripristinata la “licenza d’uccidere” per gli agenti della Cia. Per gli attentati alle ambasciate sono stati processati quattro arabi, ma vi erano coinvolti altri 9 arabi arrestati negli Stati Uniti e 13 latitanti, tra cui lo stesso Bin Laden (Dalla Zonca 2001).
Per completare il quadro degli attentati va ricordato l’attacco al cacciatorpediniere americano “Cole” ormeggiato ad Aden, nello Yemen, avvenuto nell’ottobre del 2000, con 39 morti (Allam 2001). Quindici giorni prima degli attentati dell’11 settembre Bin Laden aveva annunciato, in una videocassetta, una “sorpresa” per gli Stati Uniti ma dopo ha negato ogni responsabilità, sostenendo che il mullah Omar, il capo dei taleban autoproclamatosi “comandante dei credenti”, che lo ospita “non permette di partecipare a simili attività”.
Se nei campi di addestramento afghani accorrono guerriglieri provenienti da vari paesi, dalla Cina alla Cecenia, dal Sudan al Kashmir, dal Daghestan all’Algeria, la rete che fa capo a Bin Laden si estenderebbe in più di 50 paesi per quanto riguarda la struttura finanziaria-industriale ma arriverebbe a 90 paesi per la raccolta di fondi e per le possibilità di collaborazione.
L’impero finanziario-industriale di Osama e dei suoi fratelli
Bin Laden non deciderebbe tutto lui. Agirebbe come un “venture capitalist” che riceve proposte e progetti di azione, li esamina e se gli vanno a genio provvede al loro finanziamento e contribuisce alla messa in opera (Zecchinelli 2001). Avrebbe a sua disposizione un capitale stimato sui 250-300 milioni di dollari investito in varie parti del mondo.
Un rapporto dei servizi segreti americani, europei e sauditi ha ricostruito la struttura dell’impero economico che farebbe capo direttamente a Osama Bin Laden. Il network di imprese industriali e società finanziarie che costituiscono i pilastri di Al-Qaeda ha come centro il Sudan: qui hanno sede la holding Wadi Al Aquiq, con filiali in Kenya e Yemen, che ha il controllo di aziende elettriche, agroalimentari ed editoriali; le banche Al Shamal Islamic e Tadamon Islamic Bank, la Taba Investment Company per investimenti agricoli, la Ladin International, società di investimenti, le società Al Hijrah for Construction and Development, la Gum Arabic Company, la società agricola Al Themar Al Mubaraka, la società di trasporti Al Quqdarat.
A Gedda, in Arabia Saudita, ha sede la National Commercial Bank, in cui ha consistenti partecipazioni Khaled Bin Mahfuz, a cui si attribuisce un ruolo di primissimo piano negli affari di Bin Laden. Noto per la vicenda dello scandalo della Bcci (Bank of Credit and Commerce International), la banca di origine pakistana con sede a Londra che copriva le operazioni in Iran e Iraq, in Nicaragua e in Afghanistan, accusata di riciclaggio del denaro sporco e sciolta nel 1991 (Santino – La Fiura 1993, pp. 223-229), Mahfuz è a capo di una famiglia saudita che avrebbe un patrimonio valutato in 2,4 miliardi di dollari. Osama ha sposato una figlia di Mahfuz e assieme gestiscono, oltre alla banca di Gedda, la Saudi Sudanese Bank, e gestivano l’Al Shifa, la fabbrica bombardata nel 1998 perché sospettata di produrre armi chimiche. Fanno parte del network imprese sparse in altre parti del mondo: l’Al Haq Trading Company in Oman, la People Bank in Tanzania, la Nada Management (ex Al Taqwa) in Svizzera e alle Bahamas, l’Azzam Publication a Oxford (Radice 2001a).
Parte dei capitali di Bin Laden è investita nei paradisi fiscali: si parla in particolare di Cipro, di Panama, delle isole Cayman, della Malesia, delle Filippine, della Svizzera, del Liechtenstein e del Lussemburgo. Sospettata di aver gestito i fondi di Bin Laden è la società finanziaria di Lugano Al Taqwa, ma la società ha respinto ogni accusa e ha querelato il “Corriere della sera” che nell’ottobre del ’97 scriveva che essa era in realtà un collettore di fondi destinati ai movimenti estremisti che si muovono in Nord Africa e in Medio Oriente” (Olimpio 2001). Mentre il capo dei servizi segreti svizzeri ha dichiarato che la polizia si interessa da tempo alla società ma non è riuscita a stabilire un legame con le centrali del terrorismo, i servizi di sicurezza italiani e americani ritengono che la società abbia finanziato vari gruppi come la Jamaa egiziana e la “nebulosa” che si riconoscerebbe nell’attività di Bin Laden. I vertici della società conterebbero amicizie “altolocate”, come un ex segretario delle Nazioni Unite e uomini d’affari molto noti. I rapporti con la Jamaa egiziana risulterebbero dalle frequenti visite a Lugano di Anwaar Shabaan, guida spirituale della comunità egiziana di Milano, durante la guerra in Bosnia leader del Battaglione Mujaheddin, assassinato a un posto di blocco. Avrebbe avuto collegamenti con un nucleo di egiziani residenti nel New Jersey, una base per la pianificazione dell’attentato al World Trade Center del febbraio 1993. Quanto ai rapporti con Bin Laden, secondo la “France Presse” un membro del consiglio di amministrazione della Al Taqwa ha ammesso di aver incontrato alcuni membri della sua organizzazione, durante un conferenza di gruppi islamici svoltasi a Beirut. Ha dichiarato: “Sono persone intelligenti e a modo” (ivi).
Ultimamente il Ministero del Tesoro degli Stati Uniti ha reso noti i nomi di 27 persone e organizzazioni i cui beni sono stati bloccati perché sospettate di avere rapporti con Bin Laden. Sono sotto osservazione alcune banche che hanno avuto rapporti con l’Afghan National Credit and Finance. Sono: la National Westminster Bank e l’Hsbc di Londra, l’American Express Bank, la Bank of New York, la Chase Manatthan Bank e la Citybank di New York, la Dresdner, la Kleinworth, la Benson, la Bnp, la Paribas, la Société générale, la Sico (Saudi Investment Company, con sede a Ginevra e filiali in Europa, Usa, Bahamas, Emirati Arabi, Curaçao, gestita dal fratello di Osama, Yeslam), la Al-Shamal et Tadamon con sede a Khartoum (“la Repubblica”, 25 settembre 2001, p. 7). Come si vede, ci sono i nomi del Gotha della finanza internazionale e l’elenco, se si comincia a scavare, è destinato ad allungarsi. Già si è fatto il nome della Deutsche Bank, che avrebbe prestato i suoi buoni uffici per un investimento di 314 milioni di dollari (Coen 2001), effettuato dalla famiglia Bin Laden, ma siamo solo all’inizio di una storia infinita.
Ufficialmente i familiari di Osama Bin Laden hanno rotto con lui quando gli venne tolta la cittadinanza saudita durante la guerra del Golfo e un fratello, un banchiere che lavora in Svizzera, ha condannato gli attentati in America. Gli interessi economici della famiglia sono concentrati in Arabia Saudita e in Gran Bretagna. I fratelli di Osama gestiscono il Binladin Group International, una grande società di costruzioni, con quartier generale europeo a Londra e uffici in tutto il mondo. Al gruppo fanno capo anche imprese operanti in Gran Bretagna che si occupano di abbigliamento, libri per bambini e navigazione. Qualche anno fa le cose sono andate male per il gruppo Binladin: nello scandalo della Bcci avrebbe perso cifre considerevoli (Zecchinelli 2001).
I familiari di Osama hanno messo piede anche negli Stati Uniti. Già negli anni ’60 il patriarca, lo sceicco Muhammad Bin Laden, aveva interessi nel Texas; nel 1968 muore in un misterioso incidente aereo e il suo posto viene preso dal figlio Salem che costituirà nel 1973 la compagnia aerea Bin Laden Aviation e avvierà un ottimo rapporto con George Bush, che sarà capo della Cia nel 1976, poi vice di Reagan nell’81 e infine presidente degli Stati Uniti dall’88 al ’92. Le due famiglie hanno affari in comune in campo petrolifero e finanziario. In questo rapporto ha avuto un ruolo significativo James Bath, informatore della Cia, intermediario nella Bcci, uomo di fiducia dei Bin Laden e dell’Arabia Saudita, finanziatore di un società Arbusto Energy, fondata nel 1978 dal giovane George W. Bush, che si trasformerà in Bush Exploration Oil e poi in Harken Energy, con finanziamenti provenienti da paesi arabi e da personaggi del giro Bcci. Salem Bin Laden muore nel 1988, anche lui in Texas, anche lui precipitando con un aereo. I rapporti tra i Bush e le famiglie saudite proseguono nei primi anni ’90, poi non se ne sa più niente (Radice 2001b) e oggi i rampolli delle famiglie Bush e Bin Laden sono i protagonisti della “guerra santa” del 2000.
Affari in Borsa
Dopo gli attentati dell’11 settembre James Woolsey, direttore della Cia dal 1993 al 1995, ha dichiarato: “Bin Laden uccide con la mano destra e con la sinistra specula a breve termine” (“la Repubblica”, 18 settembre 2001, pp. 14 sg.). Il riferimento è alle operazioni sospette che sono avvenute in Borsa prima delle stragi. La Sec (Securities Exchange Commission), l’organo di vigilanza di Wall Street, ha chiesto alla Consob e alle autorità nazionali collegate di indagare sulle operazioni effettuate nei mercati azionari a cavallo degli attentati. Le azioni di tre società assicurative, la francese Axa, la tedesca Munich Re e la svizzera Swiss Re, hanno avuto un calo dal 13 al 15% nella settimana prima degli attentati, inspiegabile data l’ottima salute delle compagnie. Le autorità di Borsa della Gran Bretagna, della Germania e del Giappone hanno comunicato di aver avviato i controlli per sapere se ci sono state vendite allo scoperto. In particolare le autorità tedesche hanno chiesto alla Fbi e alla Sec di indagare sulla compravendita di futures collegati alla compagnia di assicurazioni di Monaco che ha interessi nel World Trade Center. Questo tipo di speculazioni produce grossi guadagni se un titolo crolla in seguito a improvvise brutte notizie. Gli speculatori vendono titoli che non possiedono a prezzi molto alti e li ricomprano successivamente a prezzi stracciati. Qualche esempio: chi ha venduto i futures sull’indice di Francoforte, ricomprandoli il giorno dopo, ha guadagnato il 125%, a Wall Street il guadagno è stato del 60% e a Milano del 105%. Potrebbero avere effettuato le speculazioni intermediari legati ad Al-Qaeda, l’organizzazione di Bin Laden. Il comparto assicurativo ha subito le perdite più rilevanti e il conto dei risarcimenti per il crollo delle torri gemelle è di 40 miliardi di dollari, 85.000 miliardi di lire. Le indagini in corso riguardano anche i titoli di compagnie aeree precipitati dopo gli attentati. Per esempio, l’olandese Klm ha comunicato che grosse transazioni sui derivati dei suoi titoli hanno avuto luogo nei giorni immediatamente precedenti gli attentati. Il volume delle opzioni ha raggiunto livelli dieci volte superiori rispetto alla settimana precedente. Le autorità indagano soprattutto sugli hedge funds, che però vengono trattati da vari brokers, per cui è difficile individuare i “reprobi” (Niada 2001).
La verità è che fino ad oggi non si è fatto nulla di serio per scoperchiare i santuari della finanza dove si nascondono e si riciclano i capitali degli evasori fiscali, delle mafie, delle organizzazioni terroristiche e di altri, abolendo i paradisi fiscali e il segreto bancario, e si sono lasciate proliferare le cosiddette “innovazioni finanziarie”, riducendo il sistema finanziario mondiale a un vero e proprio casinò. La selva delle Shell companies (gusci vuoti) si è infittita, swaps, futures, derivati, opzioni ecc. ecc. sono pane quotidiano per tantissimi gnomi della speculazione e ogni giorno su un movimento di capitali di 2.000 miliardi di dollari solo una frazione minima riguarda l’economia reale, produttrice di beni e servizi. Tutto il resto è un’immensa bolla speculativa.
Negli ultimi tempi si è parlato di “Stati-canaglia”, cioè di Stati che allevano, ospitano, favoriscono gruppi terroristici (Iran, Iraq, Libia, Siria, Sudan, Corea del Nord, Cuba), ignorando che essi spesso hanno buoni rapporti con i paesi occidentali. Per esempio, nonostante gli embarghi, il contrabbando di petrolio è prosperato e si stima che Saddam Hussein intaschi annualmente due miliardi di dollari. Per non andare lontani, l’Italia è il più importante partner economico della Libia e uno dei principali dell’Iran (Bonazzi 2001). Ma se gli “Stati-canaglia” sono un numero limitato, le “canaglie” del mondo finanziario sono senza numero: bisognerebbe dichiarare una guerra senza quartiere all’opacità del sistema finanziario, sorella gemella della globalizzazione neoliberista, e non pare che sia in agenda una guerra del genere. Per intanto Bush ha chiesto al Senato americano di ratificare la Convenzione dell’Onu contro i finanziamenti al terrorismo, Prodi ha annunciato che l’Europa farà la sua parte, anche il ministro Tremonti ha dato qualche consiglio mentre il governo Berlusconi abolisce il reato di falso in bilancio e fa approvare con procedura d’urgenza la legge che rende inutilizzabili gran parte delle rogatorie internazionali. Qualcuno dice che questo provvedimento è “nell’interesse pubblico”, certamente è nell’interesse del cavaliere e dei suoi amici, impegnati nella loro guerra santa contro le “toghe rosse”, dei mafiosi ormai esperti nell’export di capitali, degli affaristi senza scrupoli e dei terroristi in cerca di nuovi “paradisi” (Sylos Labini 2001).
La new war, ovvero: il terrorismo di guerra
America’s new war: questa era la didascalia dei servizi della Cnn qualche giorno dopo gli attentati dell’11 settembre. Cosa sarebbe questa “nuova guerra”?
Fino ad ora si era parlato di “nuova guerra” con riferimento a tre aspetti: un nemico che si comporta in modo non convenzionale, ricorrendo anche ad atti terroristici, l’impiego di armi particolarmente sofisticate, una forte giustificazione morale che spinge all’azione (Rusconi 2001).
Dopo gli attentati di New York e di Washington si dice che viene esaltato il terzo aspetto: gli americani piangono migliaia di vittime, vengono colpiti per la prima volta nel loro territorio e nei loro simboli più prestigiosi e sono pertanto prontissimi all’azione, anche se bisogna vedere a quale codice morale appartiene una volontà di reazione che nei limiti di una richiesta di giustizia, con l’individuazione e la punizione dei responsabili di un gravissimo atto criminale, è pienamente condivisibile, mentre una risposta bellica si inscrive in un codice di vendetta e di ritorsione incompatibile con un’etica cristiana, e tanto gli americani che gli occidentali si proclamano difensori della civiltà cristiana, e non condivisibile da un’etica laica del nostro tempo.
Di sicuro vengono scrollati gli altri due aspetti: chi è il nemico e quale tecnologia militare dev’essere impiegata. Già con la caduta del “socialismo reale” era venuto a mancare il Nemico a cui si riferivano le strategie elaborate nei documenti redatti negli anni ’80 (l’Air-Land Battle 2000, comprensiva anche dell’uso di armi atomiche: Centro Impastato 1985); nelle guerre e negli interventi militari degli anni ’90, dalla guerra del Golfo agli interventi in Somalia e in Bosnia, alla guerra aerea contro la Serbia, il nemico era perfettamente individuato e così pure il teatro d’azione. Nelle azioni precedenti la schiacciante superiorità tecnologica garantiva il successo sul piano militare (ma Saddam è rimasto al suo posto e la questione kosovara non è ancora risolta) e gli americani hanno avuto pochissime perdite. In quei contesti di guerra le azioni terroristiche, le pulizie etniche, avevano un orizzonte territoriale limitato, anche se non sono mancate le minacce di esportarle altrove. Ora invece il nemico è senza volto, non ha una base territoriale delimitata, non si conoscono le sue reali potenzialità, non sono prevedibili le sue reazioni, anche se il campionario delle possibilità è quanto mai ampio e decisamente preoccupante: userà armi atomiche, ordigni chimici, inquinerà le acque, avvelenerà i prodotti alimentari, impiegherà altri kamikaze in luoghi pubblici, nei mercati, negli stadi, nelle chiese, sugli autobus? Ovviamente, lo farà senza preavviso.
Lo scenario prossimo venturo vede uno Stato, gli Stati Uniti, e una coalizione militare, la Nato, con altri alleati, impegnati con modalità atipiche contro il più atipico dei nemici. Avremo a che fare con due fenomeni che tendono ad assimilarsi: un terrorismo che per complessità e spettacolarità delle azioni e per il sacrificio di vite umane somiglia ad atti di guerra e una guerra che per l’imprevedibilità delle azioni e dei luoghi in cui vengono inscenate somiglia al terrorismo. Si può parlare di “terrorismo di guerra” nel senso che tendono a prevalere modalità proprie del terrorismo e inusuali per la guerra così come si è configurata fino ad oggi.
Questo tipo di “nuova guerra” può diventare endemico, cioè non avere fine, perché una cosa è certa: se non si affrontano e non si avviano a soluzione i problemi che sono all’origine del terrorismo, a cominciare dalla questione palestinese, quest’ultimo non potrà essere estirpato. Si potranno eliminare i terroristi di oggi ma si può essere certi che saranno rimpiazzati da nuove leve.
“Terrorismo di guerra” vuol dire anche che i soggetti che occupano la scena hanno entrambi una cultura che si può definire fondamentalista per l’enfasi posta su aspetti identitari, vuoi di tipo religioso o storico-culturale. I fondamentalisti islamici parlano di Jihad, Bush e altri parlano di “guerra del Bene contro il Male”. Gli sproloqui di Berlusconi sulla “superiorità” dell’Occidente hanno causato un vespaio per la loro rozzezza, e più d’uno ha avvertito che non bisogna andare a una guerra contro l’Islam, che il “fronte antiterrorista” dev’essere il più largo possibile e comprendere i paesi islamici “moderati”, ma bisogna vedere se e fino a che punto stiano a cuore valori come la democrazia, il pluralismo, i diritti umani, la dignità delle donne (che vengono indicati come prerogative dell’Occidente civilizzato, ma a proposito di donne: la loro condizione nell’Afghanistan dei taleban è semplicemente intollerabile, quelle in età fertile sono considerate un oggetto sessuale talmente “provocante” da doversi nascondere da capo a piedi; nei paesi occidentali le donne hanno conquistato diritti fondamentali e anche se la strada della parità rimane in salita le due realtà sono imparagonabili, ma la mercificazione della nudità, il business della pornografia e della prostituzione sono un’altra versione dell’oggettualità del corpo femminile) o se la principale preoccupazione sia cercare alleati, anche tra regimi tirannici e dittature militari, per una guerra che viene definita nuova, atipica, asimmetrica, invisibile ecc. ecc. ma che i meno fantasiosi si limitano a definire sporca, per gli effetti che non potrà non avere sulle popolazioni civili.
Le esternazioni di Berlusconi intralciano la cucitura delle alleanze (e l’autorevole “Washington Post” le ha giudicate “estremamente pericolose”) ma tutto sommato esprimono, certo in forma congeniale alla qualità del personaggio, quello che molti pensano: questa è la guerra della civiltà contro la barbarie. Le citazioni del libro di Huntington si sprecano e le reazioni, in gran parte entusiastiche, all’inno di guerra intonato dalla rediviva Oriana Fallaci, che si propone come attempata Giovanna d’Arco della riscossa dell’Occidente contro gli “sporchi invasori”, danno a vedere con quanta facilità si diffonde l’idea che l’Occidente per salvaguardare la sua identità e affermare il suo primato debba ricorrere al più convincente degli argomenti: l’uso delle armi.
Non sono solo i fondamentalisti islamici a chiamare Dio dalla loro parte. Alla ripresa di Wall Street una poliziotta in divisa ha intonato il God bless America. Wall Street è il santuario del capitalismo, anche Bin Laden specula in borsa ma il Dio del Capitale, reincarnazione del “Dio degli eserciti” biblico e del Gott mit uns di meno stagionata memoria, sta con l’Occidente e sa che la “nuova guerra” può essere un’occasione per risollevare le sue sorti, svincolarsi da una recessione già all’orizzonte, aggravata dal contraccolpo degli attentati, tanto che l’ultraliberista Bush ha dovuto ricorrere, violando i comandamenti del libero mercato, a massicce iniezioni di intervento pubblico, risuscitando un certo Keynes che si dava per morto e sepolto. L’inno più adatto a questo clima di guerra è God bless America o God bless Money? Quel che è certo è che se l’umanità non vuole avere un futuro da incubo, con gli orrori del passato ingigantiti dalla modernizzazione tecnologica, deve detronizzare gli dei che tuonano: “morte agli infedeli”.
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