Il Ponte e le mafie
Umberto Santino
Il Ponte e le mafie: uno spaccato di capitalismo reale
Durante la campagna per le elezioni politiche e regionali del 13 e 14 aprile 2008 il fantasma del Ponte sullo Stretto di Messina è tornato a materializzarsi assumendo un ruolo centrale sia nei programmi di Berlusconi che in quelli di Lombardo, candidato alla presidenza della Regione siciliana dopo le dimissioni di Cuffaro. Con il trionfo di entrambi si parla di affrettare i tempi per la posa della prima pietra. Ci sono già le date: nel 2010 dovrebbero iniziare i lavori, e dovrebbero essere ultimati nel 2016. Rischiano così di essere spazzate via tutte le osservazioni che sono state mosse alla costruzione della megaopera: il Ponte è inutile, è dannoso, si inserisce in un’area tra le più sismiche del pianeta, è una voragine di soldi che potrebbero essere spesi per promuovere un reale sviluppo della Sicilia e della Calabria. Il Ponte vogliono farlo, sia Berlusconi che Lombardo, perché sarebbe qualcosa come le piramidi per i faraoni, un monumento con cui consegnarsi alla storia. E, tenendo conto di come sono fatti tali personaggi, l’immagine delle piramidi sembra fatta su misura per loro. Ma è un’immagine che può andare benissimo non solo per la grandiosità del progetto ma soprattutto perché esso è una summa ancora più grande di interessi.
Solo pizzi e dintorni?
Sul ruolo che la mafia, le mafie, potrebbero avere nella costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina sono apparsi in questi ultimi anni articoli, resoconti di ricerche e di inchieste, considerazioni all’interno delle relazioni della Direzione investigativa antimafia. Eppure il quadro che emerge da gran parte di queste prese di posizione può considerarsi inadeguato. Poiché inadeguata è l’idea di mafia che sta alle loro spalle. Una mafia che al più potrebbe esercitare la vecchia pratica dell’estorsione-protezione, rispolverata da analisi di successo, nonostante la loro evidente infondatezza o parzialità; potrebbe accaparrarsi subappalti, fornire materiali, reclutare manodopera, lucrare in mille modi ma comunque limitarsi a un ruolo parassitario-predatorio. Questo libro, sulla base di una documentazione rigorosa, dà un’immagine diversa, poiché parte da un’idea di mafia molto più complessa. Non solo e non tanto la cosiddetta “mafia imprenditrice” di cui si è parlato a partire dagli anni ’80, in base a un’analisi frettolosa e superficiale, ma una mafia finanziaria, forte di un’accumulazione illegale sviluppatasi esponenzialmente e quindi in grado di giocare un ruolo da protagonista e non da parente povero dei grandi gruppi imprenditoriali. La stampa ha parlato di personaggi come l’anziano ingegnere Zappia, ma scorrendo le pagine di questo libro si incontrano gruppi e figure che non lasciano dubbi sulla loro natura e sulle loro intenzioni. In primo luogo la mafia siculo-canadese, dagli storici Caruana e Cuntrera a Vito Rizzuto, poi i signori del petrolio, tutti personaggi indicati con nomi e cognomi e sulle cui disponibilità finanziarie non si possono nutrire dubbi. E questo campionario non è il frutto di una sorta di chiamata di correo general-generica ma poggia sulla base di relazioni ricostruite con puntigliosa precisione attraverso una documentazione che privilegia le fonti giudiziarie, anche se non definitive.
L’inchiesta Brooklyn e il contesto mondiale
La fonte più significativa è l’inchiesta Brooklyn, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, al cui centro è un’operazione orchestrata dalla mafia siculo-canadese per investire 5 miliardi di euro provenienti dal traffico di droga. Giuseppe Zappia e la sua cordata nel 2004 sono stati esclusi dalla gara preliminare per il general contractor e l’ingegnoso professionista si è affrettato a indicare una fonte finanziaria insospettabile: una società in mano alla famiglia reale dell’Arabia Saudita che prenderebbe i soldi dal business del petrolio. Il quadro che emerge dall’inchiesta è uno spaccato significativo del capitalismo reale contemporaneo, in cui l’accumulazione illegale convive con quella legale, accomunate da processi di finanziarizzazione speculativa per cui diventa sempre più difficile distinguere i due flussi. È una prospettiva indicata da tempo da chi scrive, per anni in sostanziale isolamento, e che a lungo andare si è presentata come la più adeguata per capire l’evoluzione dei fenomeni criminali e la permeabilità del contesto economico, politico e istituzionale. Il quadro si amplia ulteriormente se si considerano le vicende belliche recenti e in corso, che hanno fatto degli ultimi anni una micidiale mistura di violenze che consegnano un tragico testimone al nuovo millennio. Se il Novecento è stato il secolo, tutt’altro che breve per chi l’ha vissuto, che ha visto rivoluzioni abortite e totalitarismi tra i più feroci, ma pure tra i più legittimati dal consenso delle folle, della storia dell’umanità, il Duemila nasce all’insegna della contrapposizione tra guerra e terrorismo, entrambi elevati a religione identitaria, in un duello barbarico che impropriamente si definisce “scontro di civiltà” mentre sarebbe più congruo parlare di morte delle civiltà. Cosa c’entra tutto questo con il Ponte? Nelle pagine del libro troviamo vecchi e nuovi personaggi, alcuni notissimi, altri meno, che all’interno del mondo finanziario si incontrano e danno vita a un carosello che sembra fatto per confondere le acque ma in cui tutto sommato è possibile seguire il filo degli interessi e ricostruire il gioco delle parti. I dignitari arabi chiamati in causa da Zappia sarebbero personaggi che direttamente o indirettamente sono legati agli strateghi del terrorismo internazionale. Qualche esempio: risulta che il Saudi Binladin Group opera congiuntamente con Goldman & Sachs che ha una partecipazione del 2,84 % in Impregilo, la società che si è assicurata la costruzione del Ponte, mentre un altro gruppo, l’ABN Amro, sempre in collegamento con la società della Famiglia Bin Laden, ha il 3%. Si dirà: i familiari di Osama non sono direttamente coinvolti nel terrorismo islamico, ma i movimenti islamisti radicali che si ispirano al wahhabismo contribuiscono a costruire e diffondere un credo identitario che costituisce il contesto ospitale per scelte che portano in quella direzione. E gli affari sono affari per tutti, anche se ci si trova ad operare in schieramenti contrapposti. Al di là di credi religiosi, di fedi politiche, il business è una sorta di dio unico di un monoteismo devotamente praticato da chi ha capitali da investire e interessi da far valere. Le grandi opere sono uno dei terreni principali in cui si cementano i blocchi sociali e si formano e consolidano le borghesie mafiose. Non è una novità. Tra le grandi opere spicca per la sua emblematica esemplarità l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, un vero e proprio crocevia in cui si incontrano tutti: grandi imprese, famiglie mafiose, storiche ed emergenti, politici e amministratori di varia estrazione, ormai tutti, o quasi tutti, accomunati dal credo del business a portata di mano. E anche in questi casi non si tratta solo di pagare pizzi, “rispettare” competenze territoriali, ma di cointeressenze, proficue per tutti. Più che di accoppiamenti forzati si deve parlare di matrimoni consensuali. Tutto questo si consuma in un contesto, come quello in cui viviamo, in cui l’illegalità è una risorsa, la sua legalizzazione è un programma, l’impunità è una bandiera e uno status symbol. E il consenso non manca. Un’opera come il Ponte, nonostante le voci contrarie, coniuga perfettamente interessi mirati e diffusi. Fa da collante per una formazione sociale che ha radici storiche e ottime prospettive di futuro. Il libro di Mazzeo delinea questo percorso e rilancia l’allarme. Come tale si inserisce in un dibattito che ha conosciuto momenti significativi ma che da qualche tempo si è assopito. Ed è assente, o quasi, proprio ora che ci si prepara alla liturgia della prima pietra. Quel che mi sembra vada sottolineato è che non si tratta di sposare una visione secondo cui qualsiasi opera, grande o piccola che sia, vada esorcizzata, in nome di un fondamentalismo ambientale che vuole, riuscendoci o meno, sbarrare il passo a qualsiasi intervento umano su una natura che da millenni è ben lontana dall’essere incontaminata. L’ambientalismo non può essere ridotto a una sequela di no, ma dovrebbe essere capace di porsi come alternativa, praticabile e concreta. Ed è proprio questa alternativa che, dopo il crollo delle grandi narrazioni, è venuta a mancare, anche se non mancano proposte credibili. Ma è il quadro generale che non c’è. E non vuol dire neppure bloccare i lavori non appena si sente odore di mafia. Un’opera pubblica, piccola o grande che sia, se è utile, se è necessaria, va fatta e se la mafia cerca di metterci le mani bisogna fare di tutto per tagliargliele. Se c’è la volontà di farlo, è possibile: dovrebbe essere chiaro che non esiste nessuna Piovra, inconoscibile e imbattibile. Ci sono mafie, con uomini in carne e ossa, che è possibile individuare, combattere e sconfiggere. Non certo inviando eserciti, che servono soltanto a simulare un controllo del territorio meramente simbolico e spettacolare. Le mafie si sconfiggono solo se si spezzano i legami che le hanno fatto e le fanno forti. E l’inchiesta in corso di svolgimento sugli interessi mafiosi legati al Ponte può andare a segno solo se non è un fatto isolato, frutto di un atto pilatesco che delega ancora una volta ad alcuni magistrati quello che dovrebbe essere l’impegno di uno schieramento più ampio. C’è da chiedersi se il cantiere per costruire un ponte culturale, sociale e politico, lanciato verso un futuro diverso, sia aperto e operante o faccia parte di un desiderio destinato a rimanere tale.
Prefazione al libro di Antonio Mazzeo, I padrini del Ponte.