Borghesia mafiosa
Umberto Santino
Borghesia mafiosa
Com’è noto, Franchetti nella sua inchiesta del 1876 aveva parlato di “facinorosi della classe media” (Franchetti 1993, p. 101) i quali potevano considerarsi una “classe indipendente” che in seguito all’abolizione del sistema feudale e alla democratizzazione dell’uso della violenza si era venuta a trovare in una condizione speciale: essa “non ha nulla che fare con quella dei malfattori in altri paesi per quanto possano essere numerosi, intelligenti e bene organizzati, e si può quasi dire di essa che è addirittura un’istituzione sociale. Giacché, oltre ad essere un istrumento al servizio di forze sociali esistenti ab antiquo, essa è diventata, per le condizioni speciali portate dal nuovo ordine di cose, una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante” (ibidem, p. 95). Parlando più specificamente di mafia Franchetti annotava che “tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata”. Rispetto ai “facinorosi della classe infima”, gli esecutori dei delitti, il capo mafia svolge, nella pratica di quella che veniva definita “l’industria della violenza”, “la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore. Egli determina quell’unità nella direzione dei delitti, che dà alla mafia la sua apparenza di forza ineluttabile ed implacabile; regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina fra gli operai di questa industria, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere abbondanza e costanza di guadagni. A lui spetta il giudicare dalle circostanze se convenga sospendere per un momento le violenze, oppure moltiplicarle e dar loro un carattere più feroce, e il regolarsi sulle condizioni del mercato per scegliere le operazioni da farsi, le persone da sfruttare, la forma di violenza da usarsi per ottenere meglio il fine. E’ propria di lui quella finissima arte, che distingue quando convenga meglio uccidere addirittura la persona recalcitrante agli ordini della mafia oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, coll’uccisione di animali o la distruzione di sostanze, od anche semplicemente con una schioppettata di ammonizione. Un’accozzaglia od anche un’associazione di assassini volgari delle classi infime della società, non sarebbe capace di concepire siffatte delicatezze, e ricorrerebbe sempre semplicemente alla violenza brutale” (ibidem, pp. 102-103).
Veniva così delineata un’immagine di mafia come realtà composita, in cui si incontrano soggetti provenienti da varie classi sociali, dalle più infime alle più alte, che opera in base a scelte razionali e in cui la direzione strategica è nella mani di soggetti della classe dominante.
Il sistema relazionale
Più che sulla composizione sociale dei gruppi criminali il concetto di borghesia mafiosa si fonda sulla funzione che la mafia ha avuto nei processi di accumulazione e di formazione dei rapporti di dominio e subalternità (si pensi all’impiego della violenza nella repressione del movimento contadino) e sull’importanza decisiva che ha avuto e ha il sistema relazionale entro cui si muovono le organizzazioni criminali.
Quando all’inizio degli anni ’70 il dirigente della Nuova sinistra siciliana Mario Mineo parlava di borghesia mafiosa, più esattamente capitalistico-mafiosa, e proponeva un disegno di legge d’iniziativa popolare per l’espropriazione della proprietà mafiosa, non era per operare criminalizzazioni in blocco ma per individuare i soggetti che muovevano all’assalto dell’istituto autonomistico regionale pronti a cogliere le nuove occasioni e a invadere i nuovi campi (Mineo 1995, pp. 208-209), condizionando le decisioni e accaparrandosi quote rilevanti di denaro pubblico, in un periodo di transizione dall’economia agricola all’economia terziaria in cui la spesa pubblica diventa la risorsa più consistente.
L’accusa che allora venne mossa a questa analisi era di vedere dappertutto mafia. Accusa che è stata riproposta più recentemente. Ha scritto lo storico Paolo Pezzino: “un’eccessiva dilatazione del concetto di aggregato mafioso, arrivando a comprendervi intere classi sociali, mi sembra non fondata: se è vero che la mafia è la “borghesia mafiosa”, come sostengono fra gli altri Umberto Santino e Giuseppe Di Lello, allora non resterà che sperare in un futuro, ma per ora indefinito, cambiamento sociale e politico generale, che estrometta dal potere la borghesia mafiosa. Se viceversa la mafia è Cosa Nostra, cioè la struttura territoriale armata di uomini che prestano un giuramento di fedeltà per venirvi ammessi, allora tutto l’apparato repressivo andrà potenziato, anche con eventuali strumenti di indagine bancaria, nel tentativo di colpire uno dei due poli, indubbiamente il più debole, di quel pactum sceleris tra mafia e poteri legittimi che ha permesso alla prima di affermarsi”. L’economista Mario Centorrino usa quasi le stesse parole, accennando a uno “scambio scellerato tra mafia, istituzioni ed economia che ha permesso alla prima di affermarsi” (in Santino 1995, pp. 133-135).
Come si vede si dice chiaramente che l’affermazione della mafia si deve al patto scellerato con altri soggetti (economici, politici, istituzionali) ma l’attenzione è concentrata sulla “struttura territoriale armata”, cioè su Cosa Nostra, individuata come “il polo più debole” e quindi più facilmente aggredibile.
A queste obiezioni si può rispondere che la teorizzazione fondata sulla borghesia mafiosa non ignora l’esistenza di Cosa Nostra e di altre organizzazioni ad essa assimilabili, anzi le considera la base di partenza obbligata, ma vuole guardare anche al “patto scellerato” con altri soggetti, cercando di farlo uscire dalle nebbie indistinte in cui esso è avvolto. “Il pactum sceleris tra mafia e poteri legittimi, tra mafia, istituzioni ed economia “che ha permesso alla prima di affermarsi”, come può costituirsi ed operare senza il contributo di una serie di figure sociali che pur non essendo affiliate a Cosa Nostra sono con essa collegate? E tali collegamenti (…) sono da considerare eventuali, sporadici, congiunturali, marginali o costituiscono il contesto che spiega il radicamento e lo sviluppo del fenomeno mafioso nel suo complesso?” (ibidem, p. 136).
Parlare di borghesia mafiosa è soltanto cedere a una “suggestione” che “non aiuta nella necessaria distinzione tra i vari elementi costitutivi del network mafioso” (Lupo 1996, p. 36)? In realtà l’ipotesi definitoria formulata da chi scrive (“Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale”: Santino 1995, pp. 129-130) è abbastanza articolata da permettere di distinguere le varie componenti.
I gruppi mafiosi sono composti da uomini in carne e ossa ma altrettanto concrete sono le figure del sistema relazionale: professionisti, imprenditori, amministratori, politici. Studiando la rete di rapporti dell’imprenditore Francesco Vassallo, che dominò la scena palermitana negli anni ’50 e ’60, ricostruendola sulla base di tre elementi (parentela, amicizie, consociazioni e cointeressenze) risultava un quadro composito formato in primo luogo dai parenti mafiosi e poi da politici, tecnici, funzionari della pubblica amministrazione, liberi professionisti, direttori di banche che avevano in vari modi favorito l’ascesa di Vassallo da carrettiere a imprenditore (Santino-La Fiura, 1990, p. 129).
Il capomafia descritto da Franchetti è una sorta di regista e di demiurgo, ma i capi più noti di Cosa Nostra (da Riina a Provenzano) sono dei quasi analfabeti eppure gestiscono, tramite prestanomi, imprese che operano in vari settori. Come potrebbero svolgere queste attività senza l’apporto di tecnici, commercialisti, e senza gli agganci con uffici pubblici, centri decisionali?
Bernardo Provenzano, indicato come l’attuale capo dei capi, scrive i suoi bigliettini in un italiano stentato, ma risulta interessato in varie imprese di fornitura di apparecchiature sanitarie: la Scientisud, la Medisud, la Polilab, la Biotecnica. In una di queste imprese è stato socio Salvatore Provenzano, fratello del capomafia, emigrato in Germania, ma tutti gli altri soci sono insospettabili e il regista dell'”operazione sanità” sarebbe stato Pino Lipari, geometra dell’Anas, prima consulente di Badalamenti e poi di Provenzano, salito alla ribalta delle cronache per le sue dichiarazioni, ritenute depistanti, nel processo Andreotti. In un rapporto della Legione dei carabinieri di Palermo del 1984 si legge: “Ci si trova di fronte a una situazione di monopolio creato da società che cercano di accaparrarsi fette sempre più grandi di un mercato redditizio dato il costo elevato delle attrezzature scientifiche utilizzate presso i presidi ospedalieri” (Oliva-Palazzolo 2001, p. 89). Qual è stato il ruolo degli amministratori delle Usl? Un esposto di un sindacato dei medici, presentato al procuratore Caselli, parla di sfondamenti dei bilanci delle Usl anche di centinaia di miliardi di lire, nella certezza che a fine d’anno sarebbe arrivato il ripiano dei debiti, con i finanziamenti regionali (ibidem). Tutto questo non potrebbe avvenire senza il coinvolgimento di medici, amministratori, politici. Buscetta diceva che “attorno alle “famiglie” e agli “uomini d’onore” vi è una massa incredibile di persone che pur non essendo mafiose, collaborano con i mafiosi, talora inconsapevolmente, tutto ciò dipende da quel clima perdurante di “contiguità” rispetto alle organizzazioni mafiose che rende le stesse tanto potenti. Fino a quando la gente non comprenderà che i mafiosi vanno isolati ed arrestati, tale situazione si protrarrà” (Tribunale di Palermo, Corte di Assise,1987, p. 1211). Resta da vedere se e fino a che punto si tratti di collaborazione inconsapevole e se la situazione non sia perdurata anche dopo i colpi inferti a Cosa Nostra, con gli arresti e le condanne.
Libero Grassi e gli imprenditori di Palermo
Per quanto riguarda gli imprenditori, la vicenda di Libero Grassi è esemplare. Quando, nel gennaio del 1991, dichiara di avere ricevuto richieste di pizzo e che non intende pagare, scoppia una polemica con il presidente dell’Assindustria di Palermo, l’associazione degli industriali di cui fa parte, che di fronte all’accusa di Grassi di tenere la testa sotto la sabbia per non vedere quello che accade, replica: “ma cosa dovremmo fare secondo Libero Grassi? Ma cosa dovremmo dire ai nostri affiliati: rifiutatevi di pagare il pizzo? Dovremmo fare campagne continue in questo senso? Allora noi spogliamo la nostra associazione dei suoi compiti istituzionali e cambiamo mestiere. La nostra azione è diretta verso altri obiettivi: primo fra tutti, la promozione dello sviluppo produttivo. Non possiamo farci vessilliferi solo della lotta alla mafia. Abbiamo altri compiti, altri doveri” (in Santino 2000, p. 276). Nonostante alcune attestazioni di solidarietà, Grassi sarà lasciato solo e sarà ucciso nell’agosto dello stesso anno. Il suo esempio non sarà seguito. Già nel 1989, in seguito alla scoperta di un quadernetto con annotazioni sulla riscossione dei pizzi ad opera della famiglia mafiosa dei Madonia, erano stati interrogati più di 150 commercianti. Solo tre o quattro avevano ammesso di pagare il pizzo. Ci troviamo di fronte alla manifestazione di una cultura dell’omertà, dettata dalla paura ma pure da una pratica di convivenza spesso indotta da calcoli di convenienza.
Il concorso esterno
Giovanni Falcone si era posto, nella sentenza-ordinanza del cosiddetto maxi-ter “il problema dell’ipotizzabilità del delitto di associazione mafiosa anche nei confronti di coloro che non sono uomini d’onore, sulla base delle regole disciplinanti il concorso di persone nel reato” (Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione, 1987, p. 429). Successivamente si è utilizzata la fattispecie del concorso eventuale nel delitto di associazione di tipo mafioso per sanzionare i comportamenti collaborativi di soggetti della politica, dell’amministrazione, dell’imprenditoria, delle professioni, della stessa magistratura. Occorrerebbe uno spoglio sistematico del materiale giudiziario prodotto in questi anni per esprimere una valutazione adeguata sui risultati conseguiti attraverso l’uso della figura del concorso esterno.
Per limitarci ai casi più noti, i processi ai politici hanno avuto esiti diversi: Andreotti, accusato prima di concorso e poi di associazione, è stato assolto in primo e secondo grado per insufficienza di prove e prescrizione, mentre è stato condannato in secondo grado per l’omicidio Pecorelli; assolti il presidente della provincia Musotto e l’ex ministro Mannino; condannati l’ex senatore Inzerillo, per associazione, l’ex senatore Scalone e l’ex assessore regionale Gorgone per concorso.
Sul tema delle estorsioni suscitò particolare scalpore una sentenza del Tribunale di Catania del marzo 1991 in cui veniva dichiarata la non promovibilità dell’azione penale nei confronti di notissimi imprenditori indiziati di concorso in associazione mafiosa, ritenendo che il pizzo da essi corrisposto fosse una sorta di “contratto assicurativo in stato di necessità”. La sentenza venne giudicata da Libero Grassi, impegnato nella sua battaglia contro il racket, come una “legittimazione giuridica dei rapporti di convivenza-connivenza tra imprenditore e mafioso” (in Santino 2000, pp. 278-279).
Le valutazioni sull’uso della figura del concorso esterno sono discordanti e una recente sentenza della Cassazione ha dato un’interpretazione inquietante: lo spazio del concorso esterno “appare essere quello dell’emergenza nella vita dell’associazione o, quanto meno, non lo spazio della “normalità””. Il gruppo mafioso ricorrerebbe alle relazioni esterne “in un momento di fibrillazione del sodalizio”, quando si ravvisa una “situazione di pericolo per la vita dell’associazione” (in Sciarrone 2002, pp. 545-546). Giustamente è stato osservato che questa tesi “sottende una concezione della mafia molto lontana da ogni evidenza empirica e non tiene conto delle caratteristiche di un’organizzazione mafiosa. Intrecciare relazioni esterne non ha per quest’ultima alcun carattere di eccezionalità. Un gruppo mafioso ha assolutamente bisogno di rapporti di collusione e complicità per riprodursi nel tempo e nello spazio. Senza una fitta trama relazionale aperta all’esterno la mafia non avrebbe la forza che le viene riconosciuta. Tra le principali e quotidiane preoccupazioni dei mafiosi troviamo infatti proprio quelle indirizzate a salvaguardare e incrementare la rete di relazioni che si intrecciano a partire dal nucleo dell’organizzazione e ne costituiscono il suo capitale sociale” (ibidem).
Dove non arriva il diritto penale a colpire le varie figure che compongono l’universo della “borghesia mafiosa”, rimane uno spazio amplissimo che dovrebbe essere coperto dall’azione politica, sociale e culturale. Non si tratta di attendere la palingenesi universale ma di elaborare e diffondere una cultura della legalità che si leghi a una strategia di contenimento dell’area di contiguità e che incoraggi la fuoruscita da essa. E ciò vale sia per i soggetti borghesi come per gli strati popolari che costituiscono la massa più consistente di un sistema di rapporti che può considerarsi un “blocco sociale” a egemonia mafiosa, cementato dalla ramificazione degli interessi e dalla condivisione di codici culturali.
Riferimenti bibliografici
Franchetti Leopoldo, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Donzelli, Roma 1993 (ed. or. 1877).
Lupo Salvatore, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996.
Mineo Mario, Scritti sulla Sicilia, Flaccovio, Palermo 1995.
Oliva Ernesto – Palazzolo Salvo, L’altra mafia. Biografia di Bernardo Provenzano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.
Santino Umberto – La Fiura Giovanni, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1990.
Santino Umberto, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.
Sciarrone Rocco, Mafia e imprenditori in tempi di globalizzazione, in “Questione Giustizia”, 3, 2002, pp. 525-546.
Tribunale di Palermo, Corte di Assise, Sentenza contro Abbate Giovanni + 459, Palermo 1987.
Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione, giudice G. Falcone, Ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 162, Palermo 1987.
Da “Narcomafie, n. 12, dicembre 2003, Dizionario di mafia e di antimafia.
Nota
Con sentenza del 30 ottobre 2003 la Cassazione ha assolto Giulio Andreotti, nel processo per l’omicidio Pecorelli, “per non aver commesso il fatto”.
Il 5 marzo 2004 la Corte d’appello di Palermo ha assolto Filiberto Scalone dall’accusa di concorso esterno, ritenendolo responsabile di concorso in bancarotta.