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Il capostipite del Gattopardo

Il capostipite del Gattopardo era uno sciacallo

 

Alla fine del quarto capitolo del Gattopardo, il principe Fabrizio Salina, accomiatandosi dal piemontese Chevalley, che era venuto a proporgli di accettare la nomina a senatore del Regno d’Italia, espone sinteticamente la sua filosofia della storia: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. Don Fabrizio pensa a Calogero Sedara e ad altri come lui che con metodi più o meno ortodossi si sono arricchiti e si stanno imponendo come nuova classe dominante, scalzando un’aristocrazia imbolsita e impoverita. Nel romanzo non mancano riferimenti a una cultura della violenza diffusa e sedimentata, e di straforo compare un Vincenzino, “‘uomo d’onore’, uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage” (p. 238 dell’edizione del 1960). Questa è l’idea che il principe-scrittore ha della mafia. La dinastia dei Gattopardi non ha nulla da spartire con simili personaggi. Gli antenati di don Fabrizio e dello scrittore sono santi e beati, come il duca-santo Giulio, sposo di Rosalia Traina, baronessa di Falconeri e poi monacata con il nome di suor Maria Seppellita dopo aver generato otto figli, tra cui Francesca, suor Maria Serafica, Isabella, suor Maria Crocifissa della Concezione, la beata Corbera del romanzo, a cui il diavolo inviava lettere indecifrabili, Antonia, suor Maria Maddalena, Giuseppe, cardinale, santificato nel 1986, Ferdinando, detto il principe santo, Alipia, suor Maria Lanceata. Esempi di una spiritualità controriformistica, fatta di digiuni e cilici, come se avessero qualcosa da farsi perdonare. E andando indietro nel tempo, a radice dell’albero genealogico ricostruito in varie pubblicazioni, troviamo un Mario Tomasi, capitano d’arme, nato a Capua probabilmente nel 1558, sposo di Francesca Caro e Celestre, baronessa di Montechiaro e signora di Lampedusa.

Ma chi era questo capostipite? Per molti anni è stato un illustre sconosciuto ma nel 1995 il docente di Storia moderna nell’Università di Palermo Giovanni Marrone, nel libro Città, campagna e criminalità nella Sicilia moderna, ha pubblicato dei documenti che si conservano nell’Archivo Historico General de Simancas. Sono gli atti di un processo al capitan de armas Mario de Tomasi.

La sua attività è documentabile a partire dagli anni settanta del 1500 e un testimone così lo descrive: “Quando detto Mario de Tomasi venne in questo regno era poverissimo homo et portava li suoi vestiti vecchi, rati, spellati e cusì lo vitti per alcun spatio di tempo”. Fu nominato “capitano dei provvisionati a piedi”, che erano “scelti tra gli individui più miserabili e socialmente pericolosi”, “giente insolente e infame”, come recita un documento dell’epoca. Dopo qualche tempo Tomasi era diventato capitano d’arme e negli anni tra il 1576 e il 1584 è stato «autore di infiniti abusi e di crimini»: estorsioni, concussioni, furti, crudeltà assortite che provocarono la morte di parecchie persone, e ha accumulato un patrimonio di venti mila scudi. Come si era arricchito? Risulta che il capitano, con la scusa di ricercare i banditi, saccheggiava sistematicamente i luoghi in cui passava con i suoi uomini, più somiglianti a masnadieri che ad addetti alla sicurezza pubblica. Uno dei documenti dice esplicitamente che nella sua compagnia aveva arruolato banditi notori e che spesso mancava di pagare loro il soldo dovuto. Nel 1579 viene sequestrato un barone che per ottenere la libertà paga un riscatto, ma le prammatiche del tempo punivano il pagamento del riscatto come favoreggiamento. Il barone viene consegnato dal viceré Marco Antonio Colonna a Tomasi che lo tiene in ceppi e maltratta, con la palese intenzione di liberarlo dietro pagamento di una somma cospicua; quindi il malcapitato oltre al riscatto pagato ai banditi ora doveva pagarne un altro al capitano. Per piegare la resistenza del barone, disposto a sborsare solo una parte della somma richiesta, Tomasi ordina di incarcerare la moglie, costretta a pagare una salata cauzione. Un altro terreno su cui il capitano si è esercitato proficuamente è il “commercio delle teste”. Un bando medievale, risalente alla costituzione di Federico II, prevedeva che il bandito che avesse ucciso un altro bandito potesse godere dell’indulto o potesse indicare il nome di un delinquente da liberare. Si era creata una speculazione, imbastita e gestita dai capitani d’arme, e Tomasi lucrava sulla composizione monetaria dei reati (bastava versare una somma di denaro per farla franca) mascherandola come vendita di teste. E sono documentati altri misfatti, come il ritardo nella traduzione dei prigionieri alle corti di giustizia e la morte di molti di essi per le pessime condizioni delle prigioni in cui erano trattenuti arbitrariamente.

Un’ispezione dà luogo a un processo penale che si conclude con la condanna del capitano all’inabilitazione perpetua. Ma Tomasi è uomo dalle molte risorse e gode della protezione del viceré Colonna. Riesce a impalmare una ricca ereditiera, la baronessa Francesca Caro (per ingraziarsela, aveva favorito, con carte false, la nomina di un suo parente a comandante di un castello) e così diventa il fondatore di una dinastia che si fregiava di titoli che vanno dal ducato di Palma al principato dell’isola di Lampedusa.

Andrea Vitello, autore di una bella biografia di Tomasi di Lampedusa, si chiede: lo scrittore sapeva di questo suo antenato? E, richiamando Freud, che in casa Lampedusa era “di casa”, grazie alla moglie di Tomasi, la baronessa Alessandra Wolff di Stomersee, presidente della Società psicanalitica italiana, ipotizza che il silenzio del principe-scrittore possa essere interpretato come effetto di una tendenza alla rimozione. Per cancellare un avo così impresentabile non c’è strada migliore che rifugiarsi nel mito e inventarsi come fondatori della dinastia l’imperatore Tito e la regina Berenice o il principe bizantino Thomaso il Leopardo. E invece il primo esemplare di questo giardino zoologico, popolato di bestie feroci, è un ibrido: mezzo iena e mezzo sciacallo.

 

Pubblicato su Repubblica – Palermo il 22 aprile 2015, con il titolo: L’impresentabile masnadiero fondatore di casa Tomasi