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Antimafia, perché la risposta emotiva non funziona. L’analisi aggiornata di Umberto Santino

Antimafia, perché la risposta “emotiva” non funziona.
L’analisi aggiornata di Umberto Santino

Tano Grasso

Quelli che a vario titolo, per passione per studio, per militanza, si occupano di mafia e antimafia hanno tutti un debito con Umberto Santino e con i suoi scritti. Il fondatore del “Centro siciliano di documentazione” dedicato a Giuseppe Impastato, se è stato un precursore continua ad essere un decisivo punto di riferimento teorico. I suoi saggi sulla “borghesia mafiosa” hanno illuminato, già negli anni Ottanta, le consolidate relazioni della mafia con settori delle classi dirigenti, delle professioni e dell’impresa: relazioni che oggi più che mai rappresentano un assoluto punto di forza della mafia; ancora, resta di grande attualità la definizione di mafia, che ritroviamo anche nella Storia del movimento antimafia, un volume recentemente riproposto da Editori Riuniti in una nuova edizione aggiornata e integrata rispetto a quella del dicembre 2000: “La mafia è un insieme di organizzazioni criminali che agiscono all’interno di un contesto relazionale, un blocco sociale di natura transclassista, al cui interno il ruolo dominante è svolto dai soggetti illegali (i capimafia) e legali (politici e amministratori, imprenditori, professionisti) più ricchi e potenti (borghesia mafiosa)”.
Per quanto poi ci riguarda più direttamente, dobbiamo a Santino la più convincente analisi del movimento antiracket che “ha come caratteristica il connubio tra interessi e valori”: l’opposizione al racket se per un imprenditore è difesa del frutto del proprio lavoro, per regole di libertà, per eque opportunità di concorrenza, è allo stesso tempo, nel momento in cui il rifiuto del pizzo si esprime nella forma organizzata dell’associazionismo antiracket, affermazione di “valori”, espressione di un’idea di partecipazione diretta alle vita delle istituzioni. Questa sensibilità dello studioso palermitano non è per nulla casuale essendo stato uno dei pochissimi ad apprezzare l’intero valore della denuncia di Libero Grassi “in vita” e a coglierne il significato “eversivo” rispetto a quel rapporto tra mondo imprenditoriale e mafia intestato alla più pacifica “convivenza” (se non “connivenza”).

Da questa Storia emergono aspetti decisivi per comprendere le ragioni di una debolezza congenita ad un certo modo di “fare antimafia”. Le esperienze analizzate, sia quelle degli anni ottanta che quelle degli anni Novanta, quando sono il risultato di una sommatoria di sigle, “precarie, informali”, e nascono come risposta emotiva sono inevitabilmente condannate a vita effimera, a strumentalizzazioni politiche, a esasperati conflitti ideologici. Nel confronto con queste forme si comprende meglio il valore dell’associazionismo antiracket, una storia di venti anni (la prima associazione nacque nel 1990 a Capo d’Orlando) segnata da una attività costante, permanente, ma, soprattutto, di continua crescita ed espansione, anche se, come giustamente ricorda Santino, il movimento antiracket a differenza di quello contadino non ha acquisito “una reale dimensione di massa”. Limite radicale che purtroppo non è stato superato dalla nascita di nuove associazioni in realtà impermeabili dieci anni fa: a Napoli, a Gela, a Lamezia Tenne e, finalmente, a Palermo; in questa nuova edizione, ad esempio, si coglie il valore della specificità napoletana e come la nascita delle associazioni antiracket ha inciso direttamente sulla crescita del numero delle denunce. Al di là dei limiti, però, l’antiracket funziona per la specificità della questione e dei conseguenti approcci organizzativi. Ad esempio, gli imprenditori partecipano alle associazioni attraverso un’adesione individuale, e non potrebbe che essere cosi: se l’obiettivo è promuovere le denunce, non solo e indispensabile un atto di coraggio personale, ma la natura del rischio richiede la partecipazione alla gestione della propria sicurezza in un rapporto di intensa collaborazione con le forze dell’ordine. Le più importanti iniziative antiracket sono nate quasi tutte “a freddo”, attraverso un lento percorso di aggregazione e di formazione degli operatori economici: non sono state il risultato di una risposta emotiva e si sono sottratte alle oscillazioni del ciclo entusiasmo/riflusso che, invece, ha caratterizzato molte altre esperienze. A questa alternativa si sottraggono le iniziative costruite sulla attivazione concreta di interessi: un altro esempio Santino lo offre con le attività di Libera legate alla gestione dei beni confiscati.

Insomma, anche l’antimafia della società civile può seriamente incidere, ed è l’esempio più recente, come è avvenuto con i giovani di Addiopizzo che sono riusciti a far percepire, in un’ampia fetta di opinione pubblica palermitana, il pizzo (e l’acquiescenza degli imprenditori) come disvalore.

Recensione del volume di Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti University Press, Roma 2009. Pubblicata su: “Corriere del Mezzogiorno”, 26 marzo 2010.