La porta aperta di Felicia
Anna Puglisi
La porta aperta di Felicia
“Stai attento, perché gente dentro non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre. … Non faccio entrare nessuno”. Questo aveva preteso Felicia dal marito. Al contrario, dopo la morte del marito e l’uccisione di Peppino, Felicia aveva aperto la sua casa a quanti volevano conoscere suo figlio: “Perché mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: “Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa”. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise”. Per questo il giorno del suo funerale abbiamo voluto ricordarla con un manifesto con la fotografia di Gabriella Ebano, in cui lei, con il suo sorriso, apre la porta-finestra della sua casa. Una casa che negli ultimi anni si era riempita di giovani e meno giovani, rendendola felice e facendole dimenticare i tanti anni in cui a trovarla andavamo davvero in pochi e a starle vicino eravamo pochissimi. E ai giovani che le chiedevano cosa potessero fare per lottare contro la mafia diceva: “Tenete la testa alta e la schiena dritta” e, lei che aveva frequentato soltanto le elementari, aggiungeva: “Studiate, perché studiando si apre la testa e si capisce quello che è giusto e quello che non è giusto”.
Felicia aveva mostrato il suo carattere già da giovane, quando aveva preso una decisione non usuale a quei tempi nelle famiglie come la sua. Era stata fidanzata con un uomo scelto dal padre, mentre lei avrebbe voluto un giovane di un altro paese che le piaceva. Ma poco prima del matrimonio, quando già era tutto pronto, disse al padre che non voleva sposarsi e che non dovevano permettersi di prenderla con la forza (cioè, come si usava, non dovevano rapirla per la tradizionale fuitina). Poi sposa Luigi per amore, ma l’affiatamento con il marito dura molto poco. Racconta: “Appena mi sono sposata ci fu l’inferno”. Suo marito non le diceva cosa faceva e dove andava, e Felicia ricorda le incursioni in casa dei carabinieri nel periodo della banda Giuliano, e parla anche di una relazione con una donna sposata. Lei va via di casa e ci vuole il cognato Cesare Manzella, il capomafia, per mettere pace. Un inferno domestico che si aggrava quando Peppino, dopo l’uccisione di Manzella, prende coscienza su cosa sono la mafia e i mafiosi. Il padre è in piena guerra con il figlio e lo caccia da casa per la sua militanza in un partito di sinistra e per la sempre più aperta azione antimafia.
Per quindici anni, dall’inizio dell’attività di Peppino fino alla morte di Luigi, avvenuta otto mesi prima dell’assassinio del figlio, la vita di Felicia è una continua lotta. In quegli anni non ha più soltanto il problema delle amicizie del marito. Ora c’è da difendere il figlio che denuncia potenti locali e mafiosi, assieme a un gruppo di giovani che saranno con lui fino all’ultimo giorno. Felicia difende il figlio contro il marito, ma cerca anche di difendere Peppino da se stesso. Quando viene a sapere che Peppino ha scritto sul foglio ciclostilato “L’idea socialista” un articolo sulla “mafia montagna di merda” fa di tutto perché non venga pubblicato.
Io e Umberto abbiamo incontrato Felicia qualche giorno dopo il funerale di Peppino. Avevamo deciso di aiutare i compagni che si stavano adoperando per smantellare il depistaggio messo in atto dopo il suo assassinio. Ma il fatto nuovo è stata la decisione della madre di costituirsi parte civile. Felicia rompeva con la famiglia mafiosa del marito e veniva allo scoperto, perché “Peppino non rimanesse come un terrorista”. E ripeteva: “Io voglio giustizia, non vendetta”.
Ancora una volta ha dovuto fare una scelta radicale: rompere con i parenti del marito che le consigliavano di non rivolgersi alla giustizia, di non mettersi con i compagni di Peppino, con noi, di non parlare con i giornalisti. Già tre giorni dopo il funerale aveva stupito il paese decidendo di uscire da casa, contravvenendo all’usanza di chiudersi in casa nel periodo di lutto, per andare al seggio elettorale per dare il voto a suo figlio (si votava per il rinnovo del consiglio comunale e Peppino era candidato nella lista di Democrazia proletaria che aveva formato assieme ai suoi compagni).
Le delusioni ogni volta che l’inchiesta veniva chiusa e per il tempo che passava dando l’impressione che non si potesse ottenere nessun risultato, e gli acciacchi di un’età che andava avanzando, non l’hanno mai piegata. Al processo contro Badalamenti, venuto dopo 22 anni, con l’inchiesta chiusa e riaperta più volte grazie all’impegno suo, di Giovanni e di sua moglie, di alcuni compagni di Peppino e della tenacia di noi del Centro Impastato, ha voluto essere presente e con voce ferma ha accusato l’imputato di essere stato il mandante dell’assassinio.
Diceva che non voleva morire prima di avere ricevuto giustizia per Peppino e lo ha ottenuto: Badalamenti è stato condannato, ed è stato condannato il suo vice. Entrambi sono morti, e Felicia, a chi le chiedeva se avesse perdonato, rispondeva che delitti così efferati non possono perdonarsi e che avrebbe desiderato che Badalamenti non tornasse a Cinisi neppure da morto. E il giorno in cui i rappresentati della Commissione parlamentare antimafia le hanno consegnato la Relazione, in cui si dice a chiare lettere che ufficiali dei carabinieri e magistrati avevano depistato le indagini, esprime la sua soddisfazione: “Avete resuscitato mio figlio”. Una soddisfazione che sarebbe stata completa se avesse potuto vedere cosa è diventata la casa di Badalamenti, dove lei non voleva mettere piede, malgrado le insistenze del marito e le profferte di amicizia del capomafia e della moglie.
Voglio ricordare le parole di Umberto nel saluto laico al suo funerale: “Nel manifesto che questa notte abbiamo appeso sui muri di Cinisi abbiamo scritto: Ciao Felicia, non mamma Felicia come sarebbe stato più ovvio. Perché in questi anni non sei stata soltanto moglie (di un mafioso che, che a un certo punto ha cercato di difendere il figlio dalle mani degli assassini) e madre (di un rivoluzionario), ma donna per te, matura dentro te stessa, forte di una tua autonomia, di un tuo personale carisma che rendeva il colloquio con te, o anche un semplice saluto, un’esperienza preziosa e irripetibile”.
Felicia non c’è più da dieci anni, ma la sua forza, la sua ironia, che contraddiceva lo stereotipo della luttuosa mater mediterranea, la lucidità delle sue osservazioni rimangono nel ricordo di quanti le siamo stati amici, e il suo sorriso accoglie i visitatori della sua casa che, per sua volontà, è rimasta aperta ed è diventata Casa Memoria. Un santuario laico.
Le frasi tra virgolette sono tratte da: Felicia Bartolotta Impastato, La mafia in casa mia, intervista di Anna Puglisi e Umberto Santino, La Luna, Palermo 1986 e successive ristampe.
Pubblicato, con qualche taglio, su Repubblica Palermo del 5 dicembre 2014, con il titolo: Felicia Impastato, la mamma coraggio che sfidò i boss.