Mafia e impresa
JOURNEES D’ETUDE SUR LA MAFIA, Università Parigi I
Parigi, Maison des Sciences Economiques
5 et 6 luglio 2001
Umberto Santino
Mafia, impresa e sistema relazionale
L’impresa è uno dei terreni più significativi su cui si esercita e si afferma la signoria territoriale dei gruppi criminali di tipo mafioso, si riproduce e si sviluppa il loro sistema di relazioni e si realizza la penetrazione nel tessuto dell’economia legale.
A queste conclusioni si può pervenire attraverso lo studio di alcuni casi emblematici, collocati in un arco di tempo che va dagli anni ’50 ai nostri giorni.
1. Il costruttore Francesco Vassallo: modello di mafioso-imprenditore degli anni ’50 e ’60
Il primo caso è quello dell’imprenditore Francesco Vassallo ed è stato studiato da chi scrive all’interno della ricerca pubblicata nel volume L’impresa mafiosa.
Vassallo non fu mai condannato e non gli furono applicate misure di prevenzione ma era un indiziato mafioso ed era legato da vincoli di parentela con mafiosi notori: aveva sposato Rosalia Messina, figlia del capomafia Giuseppe Messina e sorella di Salvatore e Pietro Messina, uccisi nel 1961 e nel 1962 all’interno del conflitto tra le famiglie mafiose della borgata palermitana di Tommaso Natale.
Figlio di un carrettiere e inizialmente carrettiere anche lui, il matrimonio con una ragazza appartenente a una famiglia mafiosa gli permette di avviare un’attività imprenditoriale all’inizio limitata all’area della borgata. Nel 1947 fu costituita la cooperativa Co.pro.la (Cooperativa produzione latticini), di cui era presidente, i soci erano il padre e sei fratelli e i cognati Salvatore, Pietro e Antonino Messina. I Messina erano ufficialmente dei pastori che durante la guerra e nell’immediato dopoguerra avevano saputo cogliere le occasioni offerte dal mercato nero dei prodotti alimentari e avevano in tal modo rafforzato ed esteso il dominio territoriale del loro gruppo mafioso. Questa composizione sociale, cementata dal vincolo parentale, assicura alla cooperativa un ruolo monopolistico nella vendita delle carni macellate e dei prodotto agricoli.
Su questa base inizia la scalata che porterà Vassallo ai vertici dell’imprenditoria palermitana. Si comincia con un piccolo appalto per la costruzione della rete fognaria in due borgate, ottenuto con trattativa privata grazie alla consociazione con l’imprenditore Giulio Schiera, al rapporto di amicizia e d’affari instaurato con un imprenditore molto noto a Palermo, Enrico Ferruzza, e ai rapporti che Vassallo comincia ad avviare all’interno di ambienti politici e amministrativi. Si pongono così le basi per la costruzione di un sistema relazionale e di un sistema economico. Il sistema relazionale poggia su tre pilastri: parentela, amicizie, consociazioni e cointeressenze; anche il sistema economico ha un’articolazione trinitaria: imprese, finanziamenti, appalti di opere pubbliche e contratti con la pubblica amministrazione.
L’intreccio tra i due sistemi porta Vassallo alla conquista della città negli anni ’50 e ’60. Le nuove imprese (la Edil Palermo, la Leonardo da Vinci, la San Francesco residenziale Piraineto) partecipano alla speculazione edilizia che è passata alla storia come “sacco di Palermo” e molti degli immobili che vengono costruiti saranno affittati alle pubbliche amministrazioni per installarvi delle scuole, mentre non vengono utilizzati i fondi per la costruzione di edifici scolatici. Nel 1969 risultava che ben 15 istituti scolastici erano ubicati in immobili di proprietà di Vassallo, affittati al comune e alla provincia di Palermo, mentre in quegli anni la Sicilia risultava ultima nella graduatoria per regioni delle opere ultimate, appaltate e in corso di appalto. C’è una vera e propria “industria dell’affitto” che comporta vantaggi notevoli per imprenditori come Vassallo e oneri altrettanto consistenti per le casse pubbliche. Alla fine degli anni ’60 il comune di Palermo spendeva in canoni d’affitto per le scuole lire 606.154.000 all’anno, e la provincia 308.514.000 lire. Ancora agli inizi degli anni ’90 la provincia di Palermo risultava affittuaria di immobili degli eredi di Vassallo per uso scolastico (Santino-La Fiura, 1990, p. 142). A dire della Commissione parlamentare antimafia, “il Vassallo ha potuto attuare un vero e proprio piano regolatore di edilizia scolastica, valendosi di un potere extralegale, esercitato addirittura tramite la provincia e il comune di Palermo” (ivi, p.140).
Il costruttore Vassallo per anni è stato l’interlocutore privilegiato del nuovo gruppo dirigente del partito di maggioranza relativa (tra cui figuravano nomi che diventeranno notissimi, come Giovanni Gioia, Salvo Lima, Vito Ciancimino), che esercitava un potere decisionale quasi assoluto; aveva ottimi rapporti con le banche che gli concederanno prestiti consistenti, indispensabili per la sua attività imprenditoriale; in compenso praticava prezzi scontati per l’acquisto di appartamenti da parte dei suoi protettori. Il suo patrimonio veniva valutato in 17 milioni nel 1947, passa a più di tre miliardi nel 1960.
Nella ricerca già citata ho registrato le linee di credito di cui ha goduto Vassallo, a cominciare dal 1947, e osservato un andamento che procede in parallelo con le carriere di uomini politici. Nel 1958 egli ottiene vari mutui dal Banco di Sicilia per circa 400 milioni, nel 1959 per circa 500 milioni e nel 1960 per 250 milioni. Il 1959 è l’anno in cui Salvo Lima viene eletto sindaco di Palermo. Anche alla Cassa di risparmio, presieduta da Gaspare Cusenza, suocero di Giovanni Gioia,Vassallo godeva di notevole “credito”: ottiene 117 milioni nel 1960, 137 milioni nel 1961 e 676 milioni nel 1962.
Gli anni 1964-66 sarebbero stati anni di stasi economica per il costruttore, che però sarebbe riuscito a superare la crisi grazie a un mutuo di 560 milioni ottenuto dal Banco di Sicilia. “Anche per tale crisi passeggera s’è visto un legame con la carriera politica di Lima, non più sindaco, e con l’inchiesta sul comune di Palermo condotta dal prefetto Bevivino” (ivi, pp. 139 sg.).
L’inchiesta del prefetto, avviata nel novembre del 1963, partiva da una situazione di fatto emblematica: l’80 per cento delle licenze edilizie veniva rilasciato a cinque “costruttori per conto terzi”, cioè a dei prestanomi, uno dei quali era un muri-fabbro, un altro un venditore di carbone, e riscontrerà varie violazioni alle disposizioni del Piano regolatore compiute da Vassallo. Per anni il mercato edilizio era stato contrassegnato da una vera e propria anomia e il Piano regolatore, adottato dal consiglio comunale nel dicembre del 1959, era venuto a legittimare una speculazione che aveva distrutto buona parte del patrimonio monumentale della città e cementificato la “conca d’oro”, cioè la piana di Palermo una volta coltivata ad agrumi.
In questo periodo il mafioso-imprenditore conduce gran parte della sua attività grazie al denaro pubblico e ai rapporti che instaura con la pubblica amministrazione e con il ceto politico e si impone come la figura più dinamica di una borghesia di Stato, in gran parte parassitaria, dato che lo strato più consistente è formato dalla burocrazia degli Enti pubblici, in particolare della Regione siciliana a statuto speciale.
2. Gaetano Badalamenti e Rosario Spatola: impresa mafiosa e accumulazione illegale negli anni ’70-’80
Il secondo caso riguarda le imprese che, stando a rapporti della Guardia di finanza e a misure di prevenzione adottate dal Tribunale di Palermo, fanno capo al capomafia Gaetano Badalamenti. Si tratta di una decina di imprese, in parte cogestite con la famiglia dei D’Anna, imparentati con Badalamenti, il cui interesse ai fini di un’analisi del ruolo dell’impresa mafiosa negli anni ’70 e ’80 è dato dagli incrementi del capitale sociale registrati alla fine degli anni ’70.
La SIFAC spa (Siciliana Industria Frantumazione Asfalti Conglomerati), costituita nel 1972, assieme ad affiliati del clan Badalamenti, aveva un capitale sociale iniziale di 35 milioni, ma nel 1978 esso viene elevato a 200 milioni. Stesso discorso si può fare per la Sicula calcestruzzi, costituita nel 1974, con un capitale iniziale di 15 milioni, elevato nel 1978 a 200 milioni, per la SAZOI (Società agricola Zootecnica Industriale), costituita anch’essa nel 1974, con un capitale di 20 milioni, che nel 1978 si trasforma in Copacabana spa, con un oggetto sociale molto ambizioso (acquisto terreni edificabili, costruzioni, assunzione di appalti pubblici, commercializzazione di prodotti per l’edilizia ecc.) e ha un capitale sociale di 200 milioni.
Si tratta di imprese che hanno svolto attività molto limitate, mentre la Copacabana, che sulla carta voleva rappresentare un salto di qualità nell’attività imprenditoriale del gruppo Badalamenti, non ha svolto nessuna attività.
Come si spiega il lievitare del capitale sociale negli ultimi anni ’70? Nel giugno del 1979 all’aeroporto di Palermo, collocato a Punta Raisi, nel territorio di Cinisi, madrepatria della famiglia Badalamenti, vengono scoperte due valigie con 498 mila dollari. In quegli anni nelle vicinanze dell’aeroporto operavano delle raffinerie di eroina e all’aeroporto di Punta Raisi venivano imbarcati carichi di eroina con destinazione Stati Uniti. Buona parte dei proventi di tale traffico sono stati impiegati in imprese che non hanno avuto altra funzione che quella del riciclaggio del denaro sporco.
Da notare che tra i soci della SIFAC figura il ragioniere commercialista Giuseppe Mandalari, che svolgeva attività di consulenza per vari capimafia, tra cui Badalamenti e Riina, a cui nel 1976 è stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con divieto di soggiorno quale appartenente all’organizzazione mafiosa. Mandalari ha una carriera giudiziaria alquanto movimentata e da intercettazioni telefoniche risulta che alle elezioni del 1994 si è prodigato nella campagna elettorale per Forza Italia (Santino, 1997, pp. 167, 227 sgg.)
Sempre negli anni ’70 e ’80 si colloca l’attività dell’imprenditore di Palermo Rosario Spatola, il cui fratello Vincenzo è salito agli onori della cronaca come “postino” di Michele Sindona ai tempi del suo simulato rapimento.
Stando alla sentenza di Giovanni Falcone contro Rosario Spatola, del 1982, risulta che quest’ultimo faceva parte “della consorteria mafiosa facente capo a Salvatore Inzerillo e che si è avvalso ampiamente di questa sua qualità, sia per raggiungere in breve tempo risultati notevoli nel settore dell’edilizia, sia per investire in tale settore i proventi delle illecite attività commesse dagli altri appartenenti al clan” (Tribunale di Palermo, giudice istruttore G. Falcone, 1982, p. 676).
L’ascesa imprenditoriale di Rosario Spatola è certamente sorprendente; se si pensa che nel 1969 realizzava opere per poche decine di milioni e nel 1978 otteneva la cessione di un appalto per la costruzione di alloggi popolari per 10 miliardi e mezzo e nell’anno successivo, quando è stato arrestato, stava realizzando immobili per civile abitazione per un costo superiore ai 10 miliardi (Santino-La Fiura, 1990, p. 208).
Significativa la vicenda che porta Spatola a sostituire una grande impresa, la Delta, nell’appalto di alloggi popolari nel quartiere palermitano dello Sperone: la Delta attraversava difficoltà finanziarie, doveva essere sostituita da un’altra grande impresa, la Tosi, che però subisce degli attentati; lo IACP, nella cui commissione sedeva Vito Ciancimino, affida l’appalto a Spatola. Da un appunto di quest’ultimo risulta un versamento al consiglio di amministrazione dello IACP di 30 milioni.
Che lo Spatola abbia utilizzato capitale di provenienza illegale risulta dalle indagini bancarie effettuate da Giovanni Falcone, nella prima inchiesta in cui veniva utilizzato tale strumento d’indagine. In tre anni Spatola ha cambiato non meno di 60 mila dollari, ma è possibile che abbia cambiato valuta estera in quantità superiore, avvalendosi di complicità all’interno delle banche (Ivi, p. 209).
3. Il sistema imprenditoriale di Bernardo Provenzano negli anni ’80-’90
Bernardo Provenzano, che viene indicato come il capo dei capi di Cosa nostra, dopo l’arresto di Totò Riina e l’archiviazione della stagione delle stragi degli anni ’80 e ’90, sarebbe al centro di una serie di attività imprenditoriali che vanno dalle costruzioni alla raccolta di rifiuti e alle forniture sanitarie.
Imprese facenti capo a Bernardo Provenzano
Medisud srl
Scientisud srl
Polilab srl
Biotecnica srl
IM.A spa
Arezzo costruzioni srl
Residence Capo San Vito srl
Italcostruzioni srl
Soci di queste imprese sono parenti di Provenzano, come il fratello Salvatore, e parenti di Giuseppe Lipari, un geometra legato a vari capimafia, da Badalamenti a Provenzano, condannato nel maxiprocesso di Palermo.
Il dato più significativo è che le imprese di forniture sanitarie hanno operato, secondo un rapporto della Legione dei carabinieri del 1984, in regime di monopolio, essendosi accaparrate gran parte delle forniture di attrezzature scientifiche ai presidi ospedalieri. La cosa è davvero sorprendente, se si considera che Bernardo Provenzano è un semianalfabeta, come si evince chiaramente dalle lettere ritrovate in vari posti (la sua latitanza è la più lunga, essendo cominciata nel 1963, un vero e proprio record: 38 anni).
Provenzano ha avuto, direttamente o tramite altri, rapporti con vari personaggi, come il già ricordato geometra Lipari, mentre la sua convivente, Saveria Palazzolo, una camiciaia ufficialmente nullatenente, per qualche piccolo investimento ha fatto ricorso alla competenza di Giuseppe Provenzano, docente universitario di Tecnica bancaria, arrestato nel 1984 con l’accusa di essere l’amministratore dei beni della moglie del boss, assolto, e recentemente impegnato nell’attività politica: nel 1996 è stato eletto all’Assemblea regionale come capolista di Forza Italia, è diventato presidente della Regione e dopo assessore regionale alla Sanità.
Stando alle dichiarazioni di Angelo Siino, noto come “il ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano sarebbe stato pure in buoni rapporti con ambienti di sinistra, in base a una “politica di alleanze” aperta e flessibile, in contrapposizione a Totò Riina, le cui frequentazioni erano circoscritte all’ambito delle forze governative, e in particolare alla Democrazia cristiana. I magistrati hanno ritenuto attendibili le “propalazioni” di Siino e in un provvedimento del 1998, con cui hanno incriminato l’imprenditore laziale Romano Tronci, scrivono che quest’ultimo “rappresentava “i comunisti” e, pertanto, offriva un’ottima copertura essendo in grado di far passare, senza particolare opposizione, le delibere relative agli appalti nelle sedi competenti” (Tribunale di Palermo, Ordinanza R. Grillo, 1998). L’affermazione si riferisce a una fase storica in cui il PCI aveva sposato una politica di compromesso e di cogestione, abbandonando il suo ruolo storico di oppositore e di protagonista delle lotte contro la mafia (Santino, 1997).
All’interno del mondo imprenditoriale, Provenzano, direttamente o tramite mafiosi a lui legati, avrebbe avuto rapporti con rappresentanti di grandi gruppi. Al tavolo in cui si sarebbero decisi gli appalti di opere pubbliche, che si sarebbe costituito per iniziativa di Provenzano (i condizionali sono d’obbligo), sedevano, accanto ai rappresentanti di Cosa nostra Antonino e Salvatore Buscemi, l’imprenditore agrigentino Filippo Salamone e il rappresentante del gruppo Ferruzzi in Sicilia Giovanni Bini. Le avventure siciliane del gruppo Ferruzzi-Gardini erano cominciate da tempo, con l’acquisto, nel 1982, da parte della società Calcestruzzi di Ravenna, del 40 % del capitale sociale dell’impresa “Cava Occhio” di Antonino Buscemi (Palazzolo-Oliva, 2001) e delle villette costruite dall’impresa Notaro, il cui titolare era marito di Rosa Greco, sorella di Michele (il cosiddetto “papa della mafia”), sul pendio di Pizzo Sella, una delle ferite più vistose inferte dalla speculazione edilizia al paesaggio palermitano, con il pieno avallo dell’amministrazione comunale (Santino-La Fiura, 1990, pp. 266 sg.). Secondo le dichiarazioni del medico-mafioso Gioacchino Pennino, avrebbe avuto rapporti con il clan Provenzano anche la Fininvest.
4. Il costruttore Giovanni Ienna
Il caso più recente riguarda il costruttore Giovanni Ienna ed è stato possibile ricostruire attività e legami attraverso le dichiarazioni di collaboratori di giustizia (Gaspare Mutolo, Giuseppe Msrchese, Salvatore Cancemi e altri).
Ienna negli anni ’60 svolgeva l’attività di carpentiere presso un’impresa edile, la GIVA costruzioni, e percepiva uno stipendio mensile di lire settantamila. Nel 1966 ha iniziato, assieme ad altri, un’autonoma attività di costruttore edile:
“Nell’ambito di tale attività i soggetti in questione hanno costruito, come si deduce dalle trascrizioni effettuate presso la conservatoria dei registri immobiliari, numerosi edifici la cui realizzazione ha ragionevolmente richiesto l’impiego di ingenti somme di denaro; il tutto partendo da posizioni finanziarie estremamente modeste e non facendo ricorso al sistema bancario, non essendo i predetti soggetti in grado di offrire garanzie sufficienti ad ottenere credito” (Tribunale Palermo, 1995, p. 37).
Successivamente Ienna ha continuato la sua attività diventando titolare di un gruppo di cinque società, con un cospicuo patrimonio immobiliare, e divenendo così un o degli imprenditori più in vista di Palermo. Il salto di qualità avviene tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80: in quel periodo avviene il passaggio dall’impresa individuale e dalla società di fatto a un soggetto imprenditoriale complesso cui fanno capo diverse società di capitale.
Si pone il problema della provenienza dei capitali impiegati e le dichiarazioni dei mafiosi collaboratori di giustizia chiariscono che l’imprenditore, pur non essendo formalmente affiliato a Cosa nostra, di fatto “appartiene” all’organizzazione criminale, avendo un rapporto continuativo con capimafia notori, come i Savoca e i Graviano, incontrastati domini territoriali; reimpiega nell’attività imprenditoriale capitali accumulati dalle famiglie mafiose ma, in osservanza delle regole di Cosa nostra, deve pagare il pizzo ai suddetti capimafia. La circostanza è stata richiamata dalla difesa per sostenere che il costruttore sarebbe stato non socio d’affari ma vittima dei mafiosi, ma la tesi difensiva non ha convinto i magistrati di Palermo, che invece hanno ritenuto l’imprenditore appartenente a Cosa nostra. A loro giudizio, se un soggetto utilizza dei proventi di attività illecita in maniera sistematica e continuativa “può senz’altro considerarsi affiliato all’organizzazione in quanto la sua condotta si inserisce nella struttura del sodalizio ed interagisce con le condotte di altra natura al fine di perseguire i tipici fini illeciti dell’associazione mafiosa ” (ivi, p. 18).
Che gran parte del capitale impiegato derivi da fonti illecite si evince dal fatto che Ienna nel periodo 1962-1968 non ha fatto ricorso al credito bancario e nel periodo 1968-1972 ha ottenuto mutui per poco più di un miliardo di lire, mentre ha svolto attività per importi superiori, dell’ordine di svariati miliardi. Anche successivamente, i crediti ottenuti da varie banche (Sicilcassa, Banco di Sicilia, Banca del Sud) sono inferiori ai capitali impiegati.
La sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nel 1995 ha ordinato la confisca dei beni, tra cui un grande albergo. Si pongono ora i soliti problemi dell’uso dei beni confiscati, per di più complicati dalla richiesta degli istituti di credito di ottenere la tutela giuridica dei loro diritti.
Imprese Ienna
Moderna edilizia ditta individuale
Moderna edilizia srl
San Paolo immobiliare srl
Gianni Ienna srl
Sea beach immobiliare srl
Società turistica anglo-sicula srl
5. Mafia e borghesia mafiosa, tra continuità e trasformazione
I casi esaminati ci consentono di affermare che l’impresa mafiosa registra una sostanziale continuità, per quanto riguarda alcuni aspetti essenziali per comprendere il fenomeno mafioso: la sua capacità di adattamento, l’articolazione del sistema relazionale senza di cui sarebbero impossibili la costituzione dell’impresa e la sua attività.
Dagli anni ’70 la lievitazione dell’accumulazione illegale assicura una notevole dotazione finanziaria e le attività imprenditoriali spesso assumono la funzione di riciclaggio del capitale illegale. Risulta dalla ricerca pubblicata nel volume L’impresa mafiosa che molte imprese esistono solo sulla carta, sono soltanto un paravento dell’accumulazione illegale.
Risulta sempre fondamentale il ruolo delle banche, come erogatrici di credito e da un certo punto in poi soprattutto per le operazioni di riciclaggio, e degli appalti di opere pubbliche.
Il sistema relazionale è formato da collegamenti, quasi sempre duraturi nel tempo e spesso formalizzati attraverso il coinvolgimento nell’attività d’impresa o sotto forma di consulenza, con imprenditori, professionisti (in particolare geometri, ingegneri, architetti, commercialisti), con amministratori pubblici e politici.
Questo insieme di soggetti in rapporti collaborativi con capimafia si pone come frazione di classe dominante, classificabile come “borghesia mafiosa” sulla base di due ordini di ragioni: il primo è la comunanza di interessi, il secondo la condivisione di codici culturali.
L’evoluzione della mafia e dei rapporti con i soggetti che formano il sistema relazionale intreccia continuità e trasformazione, in base a una cultura fondata sull’elasticità, in apparente contraddizione con rigidità formali ritualmente esibite. Lo studio dell’impresa è interessante anche da un punto di vista di genere. Spesso nelle società troviamo nomi di donne, familiari di mafiosi o di imprenditori. Resta da vedere se esse hanno avuto soltanto un ruolo di prestanomi o una funzione attiva. Questo rimanda più in generale al ruolo delle donne nell’associazione mafiosa, formalmente monosessuale ma in realtà dotata di un notevole grado di elasticità anche sotto questo profilo, come può evincersi da un sempre più abbondante materiale giudiziario e giornalistico (Puglisi, 1999).
6. Impresa mafiosa e mercato
Nella ricerca pubblicata nel volume L’impresa mafiosa, analizzando i rapporti tra mafia e mercato, invitavo ad avviare una riflessione su fenomeni fino ad allora inediti, o marginali, per l’economia ufficiale, come quelli registrati come “economia sommersa” o “economia criminale”. In seguito gli economisti hanno dedicato una certa attenzione a questi fenomeni, ma ancora oggi le valutazioni correnti si limitano a iterare giudizi stereotipati, del tipo: la mafia altera le leggi di mercato, con il ricorso alla violenza e la violazione delle regole della concorrenza. Ovviamente, non si può non essere d’accordo nell’individuare la specificità dell’agire mafioso nell’uso della violenza privata e nel non riconoscimento del monopolio statale della forza (la mafia usa l’omicidio come una pena di morte per chi non osserva i suoi codici comportamentali o ostacola le sue attività) il che non può non avere pesanti ripercussioni sul piano della lotta concorrenziale, ma questo non può esimerci da una riconsiderazione dei paradigmi economici, astrattamente appiattiti su una immagine ideale del mercato, troppo spesso non coincidente con il mercato reale.
La retorica culturale dei nostri giorni snocciola certezze consacrate dal “pensiero unico”: la competitività (come se si trattasse di una gara ad armi pari, in cui non può che vincere il migliore), la trasparenza (l’aspirazione a una fantomatica “casa di vetro”), la flessibilità (che significa l’azzeramento di diritti conquistati a durissimo prezzo e la precarizzazione di tutti i rapporti di lavoro), la sicurezza, che ribadisce statuti identitari e commina esclusioni (gli immigrati benvenuti come lavoratori a basso costo, ma non come cittadini, ed etichettati in blocco come seminatori di microcriminalità e ambasciatori di nuove mafie).
In realtà quelli che vengono definiti gli “spiriti vitali del capitalismo” (la cultura d’impresa, la sana competitività, il rispetto delle regole e della legalità) convivono con i suoi “spiriti animali” votati allo sfruttamento di tutte le opportunità, comprese quelle illegali e criminali. Lo scenario attuale, all’interno dei processi di globalizzazione, mostra abbastanza spesso una convivenza e reciproca funzionalizzazione di aspetti legali e illegali. Tra mafia, e più in generale tra crimine organizzato, e imprenditoria ufficiale c’è spesso un rapporto di scambio di beni e servizi che si configura come mutua promozione dell’attività d’impresa (Santino, 1995; Ruggiero, 1996, 1999).
Questo vale ancora di più per i grandi flussi di capitale finanziario in circuitazione permanente alla ricerca di sbocchi speculativi, al cui interno è sempre più difficile distinguere, per l’opacità del sistema finanziario, capitali di provenienza legale e illegale.
Comunque la tipologia dei rapporti tra crimine di tipo mafioso e impresa non è univoca. Sempre nel volume L’impresa mafiosa individuavo almeno tre tipi di rapporti: contiguità e compenetrazione, convivenza, scontro, e una parte della ricerca era dedicata agli imprenditori uccisi, alcuni dei quali non avevano soddisfatto la richiesta degli estorsori. Successivamente si sono registrati altri casi di imprenditori uccisi per questa ragione, il più noto di essi è Libero Grassi, che si era pubblicamente rifiutato di pagare il pizzo ai mafiosi e aveva attaccato l’associazione degli industriali che non l’aveva appoggiato.
Significativa la reazione della Confindustria all’omicidio di Grassi, con la pubblicazione sul quotidiano “Il sole-24 ore” di un appello: L’impresa dichiari guerra alla mafia e l’adozione di un codice etico a garanzia della moralità degli associati, in risposta alle accuse rivolte da Grassi agli industriali siciliani. La Confindustria decideva di costituirsi parte civile nei processi contro il racket e si impegnava a costituire un ufficio per assistere gli imprenditori che denunciavano le richieste estorsive. Non so se questi impegni sono stati realizzati o se sono rimasti sulla carta. Quel che è certo è che prima e dopo la morte di Libero Grassi si sono costituite varie associazioni antiracket (fino ad oggi in tutto una quarantina, molte in Sicilia, alcune nelle regioni meridionali, una sola in Lombardia) che raccolgono soltanto piccoli imprenditori e commercianti (Santino, 2000).
Non pare che si sia ispirata ai dettami di un codice etico la Confindustria nell’appoggiare la scalata al potere del leader della “Casa delle libertà”, l’imprenditore Silvio Berlusconi, soggetto a vari procedimenti per corruzione, finanziamento illecito ai partiti, falso in bilancio ecc., alcuni dei quali chiusi per prescrizione del reato. Candidati ed eletti nelle liste della coalizione capeggiata da Berlusconi erano personaggi sotto processo per mafia (esempi: Marcello Dell’Utri, eletto in Lombardia; Gaspare Giudice, eletto in Sicilia) e subito dopo l’elezione il neoeletto deputato di Forza Italia Gian Stefano Frigerio è stato arrestato per una condanna definitiva per corruzione, concussione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento dei partiti, reati compiuti quando era segretario regionale della Dc lombarda. Tra le aziende che avevano pagato tangenti c’era la Edilnord di Paolo Berlusconi, fratello dell’attuale capo del Governo italiano. Non pare che l’Italia possa definirsi un Paese in cui trionfi la legalità.
Negli ultimi anni, dopo i grandi delitti e le stragi, c’è stata una reazione delle istituzioni, con la legislazione antimafia, gli arresti e le condanne dei capimafia, più in un’ottica d’emergenza, cioè di risposta alla sfida mafiosa, che in base a un progetto organico. Da qualche anno, di fronte a una mafia che ha rinunciato alla violenza eclatante, si è fatta strada la convinzione che la mafia sia alle corde e che si possa chiudere la stagione dell’emergenza. In questo contesto siamo indotti a pensare che, una volta arrestati e condannati ufficiali e soldati dell’ala militare, i rapporti tra mafia e imprenditoria e soprattutto quelli tra mafia e politica torneranno a far parte dei misteri nazionali.
Riferimenti bibliografici
Legione Carabinieri di Palermo, Nucleo operativo, 1a sezione, Rapporto giudiziario di denuncia di Gariffo Carmelo + 29, 10 aprile 1984.
Palazzolo Salvo – Oliva Ernesto, L’altra mafia. Biografia di Bernardo Provenzano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.
Puglisi Anna, Donne, mafia e antimafia, Centro Impastato, Palermo 1999.
Ruggiero Vincenzo, Economie sporche. L’impresa criminale in Europa, Bollati Boringhieri, Torino 1996; Delitti dei deboli e dei potenti. Esercizi di anticriminologia, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
Santino Umberto, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai nostri giorni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1997; Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.
Santino Umberto – La Fiura Giovanni, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano, 1990.
Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione, giudice Giovanni Falcone, Sentenza contro Rosario Spatola + 120, Palermo 1982.
Tribunale di Palermo, Sezione misure di prevenzione, Decreto relativo a Ienna Giovanni, giugno 1995. Tribunale di Palermo, gip Renato Grillo, Ordinanza di custodia nei confronti di Buscemi Antonino + 30, luglio 1998.