Confiteor per Palermo
Umberto Santino
Confiteor per Palermo
Se Parigi val bene una messa, Palermo meriterebbe almeno un confiteor. Dovrebbero recitarlo tutti coloro che in questi anni hanno creduto, illudendosi e volendosi illudere, che la città avesse finalmente imboccato la strada del cambiamento, lasciandosi alle spalle i suoi annosi problemi, dalla mafia alla disoccupazione, dal clientelismo al risanamento del centro storico e al degrado delle periferie, e si fossero spalancate le porte dorate del Rinascimento.
Il demiurgo di questa resurrezione socio-antropologica sarebbe stato lui: Leoluca Orlando, che dal lontano 1985, con una interruzione tra il 1990 e il 1993, è stato sindaco della città, prima alla testa delle “giunte di primavera” e poi eletto direttamente in base alla nuova legge.
Orlando, dopo aver perso alle elezioni regionali, è andato in giro per il mondo a ritirare premi e a presentare un suo libro in inglese, un’autocelebrazione che reca in copertina la sua immagine a mezzo busto con l’indice puntato verso lontani orizzonti, come un Napoleone che scambia le nuvole di Sant’Elena per l’Arco di trionfo, e ha disertato la campagna elettorale per le amministrative, lasciando orfani quanti si aspettavano, comprensibilmente, un suo impegno per una battaglia che si presentava difficile se non impossibile.
I demiurghi e i santi-miracolatori preferiscono gli osanna delle vittorie e non amano perdere. Così Orlando, dopo essersi affiancato a Santa Rosalia rilanciando a suon di miliardi il festino barocco in memoria di un fatto mai avvenuto (la liberazione dalla peste per intercessione dell’eremita normanna, mentre la peste del 1624 finì due anni dopo il ritrovamento di reliquie che per di più non sono mai state analizzate), aveva proclamato Palermo “capitale mondiale della cultura della legalità”, con la benedizione della signora Clinton che essendo un’avvocatessa di legalità se ne intende, e la sponsorizzazione di alcuni professori statunitensi che di Palermo e della Sicilia ne sanno quanto un talebano del vangelo. Nel dicembre del 2000 aveva presieduto il convegno delle Nazioni unite sul crimine transnazionale, in cui si era proclamata la morte o l’avanzata agonia della mafia, poi si era dimesso da sindaco (e al comune è stato nominato un commissario che ha aperto la strada alle destre) per candidarsi alla presidenza della Regione siciliana, pensando di essere ancora sulla cresta dell’onda ma invece è andato a picco.
Dimettersi da una carica elettiva per andare più in su è un atto di immoralità politica (non so trovare un’altra espressione per la rottura di un patto con gli elettori) ma l’hanno fatto tanti altri personaggi illustri: eletti per la seconda volta primi cittadini di grandi città, dal giorno dopo l’elezione si sono messi a pensare cosa avrebbero fatto da grandi. Qualcuno è riuscito a vincere la gara di salto in alto, altri no. Orlando tra questi. La cosa gli deve essere sembrata un delitto di lesa maestà e da allora ha snobbato l’Assemblea regionale in cui dovrebbe fare il capo dell’opposizione (un abituccio troppo stretto) e poi, a poche settimane dalle elezioni comunali, ha dichiarato: “voto Crescimanno (il candidato del centro sinistra, scelto con grande ritardo, dopo mesi di litigate) ma non farò campagna elettorale, quelli del centrosinistra sono dei pigmei che non valgono niente”.
Per intanto alcuni suoi ex fedelissimi dicevano esplicitamente che avrebbero votato Musotto, il presidente della provincia assolto per tre volte dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (mentre è stato condannato il fratello, per aver ospitato il gotha dei latitanti mafiosi nella casa di campagna), che dopo una lite con il suo partito, Forza Italia, al quale deve molto (la difesa a spada tratta dopo l’arresto, la rielezione alla provincia, l’elezione al Parlamento europeo), si è candidato con una lista civica. Così, con l’intento di sparigliare le carte, una rissa in famiglia è stata scambiata per una rivoluzione. E ci sono cascati anche intellettuali prestigiosi, i fiori all’occhiello di una città che preferisce i rifiuti alla botanica.
Il risultato è ben noto: Cammarata, parlamentare nazionale, ma quasi sconosciuto, candidato a sindaco da Forza Italia, eletto al primo turno con il 56 per cento, Crescimanno ha salvato la faccia con un 23 per cento e Musotto ha perso la sua con un 18 per cento.
E ora? Miccichè, leader di Forza Italia in Sicilia, che in età puberale aveva praticato Lotta continua (peccati di gioventù che si perdonano a tutti, soprattutto quando gli ex rivoluzionari, avanzando negli anni, si sono volti ad altre sponde), poi si era dedicato alla vendita di pubblicità per la Fininvest e infine è approdato da attor giovane al teatro della politica, canta vittoria. E ne ha tutte le ragioni. Alle politiche ha incassato il 61 (seggi) a 0, alle regionali ha stravinto, anche se Cuffaro era e rimane democristiano e gli scudocrociati sono testa a testa con gli azzurri, alle comunali ha fatto il tris, pur correndo qualche pericolo. La levata di scudi di Musotto era rivolta contro di lui, per il piglio da padroncino con cui dirige l’azienda-partito, e si era arrivati alle brutte, ma ora le cose si sono rimesse a posto: chi comanda è Miccichè, anche se a livello nazionale non gli sono stati dati i galloni (la gestione del partito o qualcosa di più di un sottosegretariato che non si nega a nessuno) che si attendeva.
Orlando ha fatto una conferenza stampa in cui ha ribadito l’alta considerazione che ha di se stesso e il disprezzo per gli odiati pigmei: bisogna creare il Partito democratico, ovviamente con lui segretario nazionale, basta con questa Margherita spampanata! Gli ex assessori di Orlando, che in extremis si sono dati da fare per Crescimanno, hanno annunciato che non si metteranno in pensione. Crescimanno, da quel galantuomo schivo e spiritoso che è (tutto il contrario del leader carismatico), ha detto che può dare una mano per organizzare la “resistenza” allo strapotere beerlusconianio in versione panormita. I dirigenti del centrosinistra tacciono. Alcune associazioni della società civile organizzano qualche dibattito. Ma non mi pare che ci sia in giro una gran voglia di riflettere seriamente.
La prima cosa su cui bisognerebbe riflettere è: cosa è accaduto in questi anni? C’era un reale cambiamento o un inizio di cambiamento dietro i plebisciti per Orlando? Votavano per lui ampi settori della borghesia e degli strati popolari, per una serie di ragioni. Perché era un democristiano, un ricco borghese ma con linguaggio e modi populisti (mezzo patrizio e mezzo plebeo), perché in una città insanguinata dai delitti mafiosi tuonava contro la mafia e contro Lima (anche se nelle prime giunte conviveva con i limiani e c’era pure un Vincenzo Inzerillo successivamente condannato per associazione mafiosa) e contro Andreotti, perché era un “trasversalista” e tanti erano stomacati dalla “vecchia politica” e pensavano che il trasversalismo fosse il nuovo verbo, perché riverniciava l’immagine della città sul proscenio nazionale e mondiale e questo non poteva non fare piacere un po’ a tutti: la città era alla ricerca di un riscatto e lui dava volto e voce a questo desiderio.
I gesuiti gli hanno dato la loro benedizione, considerandolo un loro allievo, ma avrebbero preso le distanze quando lui si sarebbe messo in proprio. La sinistra era già in crisi e ha accolto Orlando come un salvatore e un cavallo di Troia; il Pci gli ha offerto il palcoscenico delle feste dell’Unità e della terza rete televisiva, i partitini (Verdi, ex Dp, Città per l’Uomo) si sono sentiti promossi in serie A e tutti insieme si sono dissanguati per lui: un vero e proprio suicidio, materializzatosi nelle elezioni comunali del 1990, quando Orlando, alla testa della Dc, con un limiano numero 2, portò la balena bianca al suo massimo storico e i partiti alleati furono tagliati a metà. In quegli anni a Palermo regnava una sorta di fondamentalismo: bisognava stare con Orlando a occhi chiusi e chi si permetteva di fare qualche osservazione veniva ostracizzato. Ricordo la vicenda del Cocipa (Comitato cittadino per l’informazione e la partecipazione): nato per sostenere Orlando, ospitato in una sala del palazzo comunale, si è messo a spulciare le carte degli appalti (e si è visto che gli appalti più consistenti erano stati affidati a prestanome di Ciancimino) e a studiare i bilanci, ha fatto dei dossier e un libro con delle proposte ma c’erano pure molte critiche, e Orlando ha tolto il saluto e chiuso le porte del Palazzo. Allora chi scrive e qualche altro hanno rischiato il linciaggio. Un mio articolo dei primi mesi del 1989, in cui dicevo cose che sarebbero puntualmente accadute, è stato rifiutato dal “manifesto”, e due suoi collaboratori avrebbero scritto un libro-mondadori con Orlando che stava tra il peana e l’atto d’adorazione.
Lasciata la Dc che, nonostante il gran successo, non l’ha voluto come sindaco, sarebbe cominciata l’avventura della Rete, sfiorita ben presto perché Orlando vuole essere l’unico gallo del pollaio, e poi i successi come sindaco-pigliatutto anche dopo che era sceso in campo il Cavaliere. Palermo una settimana votava Orlando e quella successiva votava Berlusconi e già questo avrebbe dovuto dar da pensare. L’antimafia e il rinnovamento non c’entravano nulla: moltissimi palermitani votavano per due uomini di potere, per vedere da chi si poteva avere di più.
Nonostante i proclami su cambiamenti profondi e irreversibili, la città reale non era cambiata. Anche se venivano restaurati i ruderi dello Spasimo e riapriva dopo 23 anni il teatro Massimo con il concerto dei Berliner diretti da Abbado, Palermo rimaneva inchiodata ai dati statistici. Ne riporto qualcuno dal censimento del ’91: 700.000 abitanti, popolazione attiva 262.336 persone, tasso di disoccupazione da record europeo: 34,8 per cento, disoccupazione giovanile tra capoluogo e provincia oltre il 70 per cento. Tanto lavoro nero e sommerso, che l’Istat non rileva. E le graduatorie del “Sole-24 ore”, discutibili quanto si vuole, ma con qualche fondamento, mettevano la città in fondo alla classifica per una serie di indicatori: dall’occupazione alla qualità della vita (nel 2001 ha “conquistato” l’ultimo posto).
A dire il vero, le giunte Orlando qualcosa hanno fatto: la costruzione di alcuni edifici scolastici, l’avvio del restauro del centro storico, a quasi 60 anni dalla fine della guerra, qualche intervento nelle periferie degradate, ma il Piano regolatore, con tante buone intenzioni ma pure molte scelte discutibili, è rimasto sulla carta. Qualche miglioramento nei servizi di trasporto pubblici, ma abbiamo dovuto assistere a una disputa “teologica”: il tram, voluto da Orlando, sarebbe “di sinistra”, la metropolitana, voluta da Musotto, “di destra”; nessuno ha fatto notare che in una città moderna sarebbe bene pensare a un sistema integrato. Appropriandosi di proposte e attività della società civile, le giunte orlandiane hanno rilanciato la campagna “Palermo apre le porte”, con migliaia di studenti a fare da ciceroni, ma solo una settimana l’anno e i monumenti in gran parte rimasti in pessime condizioni (difficilissimo visitare gli oratori del Serpotta, il grande stuccatore barocco). Gran parlare di legalità, ma pure i lavori per la nuova pretura sono finiti in mano a Cosa nostra e anche le opere pubbliche fatte in gran fretta per la conferenza sul crimine transnazionale sono state segnate dallo spreco e dall’illegalità.
Dopo gli effetti boomerang delle stragi del ’92 e del ’93 la mafia non ha più ucciso personaggi importanti, è diventata “invisibile” e quindi “non esiste più”. I processi ai politici sono in gran parte finiti con assoluzioni, ripristinando la vecchia “insufficienza di prove”, e anche la bandiera antimafiosa di Orlando (levata pure contro Falcone, quand’era vivo, per poi santificarlo da morto) si è afflosciata, sono finite le manifestazioni e molte associazioni hanno chiuso i battenti. La borghesia che conta ha pensato che con i nuovi potenti si possono fare buoni affari: sono in arrivo i soldi dei fondi europei e mafiosi di “nuovo corso” (si fa per dire, se alla testa c’è sempre il vecchio Provenzano, già killer e stragista e ora mediatore e controllore della violenza) e speculatori vecchi e nuovi se li sentono già in tasca. Qualche padre gesuita dopo aver fatto il Pigmalione di Orlando si è convertito al verbo berlusconiano. Anche il successore di don Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso nel 1993, fa il consulente di Totò Cuffaro. Gli strati popolari, cronicamente precari o disoccupati, hanno bisogno di un padre, e Orlando nel frattempo è diventato nonno. Meglio Miccichè e Cuffaro, che sono giovani e promettono di rimanere al potere a lungo. E se Cuffaro è l’allievo dell’ex ministro Mannino, recentemente assolto nel processo per concorso in associazione mafiosa, e Miccichè di Dell’Utri, attualmente sotto processo con la medesima accusa, tanto meglio. La migliore delle tradizioni si sposa con la più promettente delle innovazioni.
In questo quadro, con un blocco sociale che si è ricomposto attorno a Forza Italia, il centro-sinistra, orfano di Orlando, è ridotto al lumicino: in tutto 10 consiglieri, e i Ds quasi non ci sono più (assieme allo Sdi e ai cossuttiani hanno preso il 6 per cento). Rifondazione, da sempre subalterna a Orlando, è felice del suo mezzo punto in più (dal 3 al 3,5 per cento). Gli ex devoti di Orlando vorrebbero mettere su un osservatorio sulla nuova giunta, qualcosa come il Cocipa: gli diremo come abbiamo fatto. Ma la giunta Cammarata ha già chi pensa ad assicurarne la “trasparenza”: assessore al ramo sarà Michele Costa, figlio del procuratore ucciso nel 1980, che si professa “comunista” ma ha accolto di buon grado l’invito a far parte della “squadra”, solo da “tecnico”: una precisazione che ha deliziato i cultori di amenità locali.
La società civile è un arcipelago di isolette. Con il seminario internazionale sui “Crimini della globalizzazione” e altre iniziative nel dicembre del 2000 si tentò di mettere insieme antimafia e antiglobalizzazione neoliberista, ma il tentativo non è andato avanti. Libera, l’associazione nazionale delle associazioni, fa un buon lavoro ma deve stare attenta a chi si mette dentro (la referente della Sicilia occidentale si è candidata alle regionali con Forza Italia). Per l’uso di alcuni beni confiscati ai mafiosi si sono costituite cooperative di giovani, ma siamo appena all’inizio. Non si parte da zero ma bisogna riqualificare il lavoro nelle scuole e la presenza sul territorio. Non si può fare educazione alla legalità e antimafia se non si parla chiaro sul nodo mafia-politica, prima e adesso, ma si corre il rischio di ritrovarsi meno di prima se non si affronta il problema dell’occupazione e del controllo dell’uso delle risorse. Il blocco forzaitalico punta alle grandi opere pubbliche, da fare in gran fretta, abolendo o riducendo i controlli di legalità. Cosa proporremo di alternativo?
Alcune associazioni hanno avviato una campagna per la libertà di stampa nella lotta alla mafia e ora propongono una serie di iniziative di riflessione e mobilitazione che portino a una manifestazione nazionale. Bisogna costruire un’antimafia capace di confrontarsi con i problemi che abbiamo davanti ma bisogna sapere che ormai nel nostro paese è in gioco la democrazia. Già dopo i primi cento giorni del governo Berlusconi il quadro non lascia dubbi. L’estate scorsa il ministro Lunardi aveva dichiarato che bisogna “convivere con la mafia”, ma nel frattempo si è andati ben oltre: siamo alla legalizzazione dell’illegalità e all’interesse privato in atti legislativi. Le leggi sul falso in bilancio, sulle rogatorie, sul rientro dei capitali dall’estero sono in primo luogo regali che Berlusconi fa a se stesso e ai suoi amici. E l’attacco alle “toghe rosse” serve a preparare le carte per cancellare o ridurre drasticamente l’indipendenza della magistratura. A questo progetto non basta contrapporre un’opposizione di routine e una versione moderata del neoliberismo con qualche spruzzata di solidarietà. Per fortuna, non ci sono più santi-miracolatori e forse si è capito che non bisogna delegare niente a nessuno. Se ci si incammina sulla strada dell’impegno di ciascuno, si può ancora sperare che non tutto sia perduto. Altrimenti potremo intonare il De profundis, non solo per Palermo.