Subcultura
Umberto Santino
Subcultura
Nel linguaggio corrente il termine “subcultura” è usato con una connotazione negativa, indicando una scarsa o inadeguata dotazione di mezzi culturali. Nel vocabolario antropologico il termine designa un
sottoinsieme di elementi culturali sia immateriali che materiali – valori, conoscenze, linguaggi, norme di comportamento, stili di vita, strumenti di lavoro – elaborato o utilizzato tipicamente da un dato settore o segmento o strato di una società: una classe, una comunità regionale, una minoranza etnica, un’associazione politica, religiosa, sportiva, una categoria professionale, un’organizzazione come la burocrazia, l’esercito, una grande azienda, oppure una comunità deviante come la malavita di una metropoli o la mafia (Gallino 1983, p. 703).
Entro l’insieme della cultura dominante tale sottoinsieme può caratterizzarsi o come una “variante differenziata o specializzata” o come “una forma di deviazione o di opposizione, reale o apparente” (ivi).
Nel primo caso il concetto di subcultura applicato al fenomeno mafioso è troppo poco determinato (esso significherebbe soltanto che la mafia, come qualsiasi altro soggetto sociale, ha un suo codice comportamentale, cioè una sua propria cultura). Nel secondo caso è fuorviante, poiché registra il fenomeno mafioso come devianza e opposizione, ignorandone gli aspetti che si fondano sull’interazione con il contesto sociale e istituzionale.
Le subculture criminali
Nell’accezione specifica di “subcultura criminale” la letteratura che si è sedimentata negli ultimi decenni è abbastanza nutrita (Santino 1991, pp. 372 ss.; Williams, McShane 1999). Le formulazioni più significative sono le seguenti:
1) gli studi sulla delinquenza a Chicago, in particolare sulla delinquenza giovanile, e di Sutherland sulla criminalità dei “colletti bianchi”, hanno messo in luce soprattutto i meccanismi dell’apprendimento e della comunicazione del comportamento criminale;
2) l’individuazione dei modelli di comportamento, nell’analisi di Albert Cohen sulla delinquenza giovanile;
3) la teoria dell’anomia (Merton);
4) la teoria integrata della subcultura, che combina aspetti sociologici e psicologici (Wolfgang e Ferracuti) e l’approccio interdisciplinare negli studi più recenti, orientati verso la produzione di un nuovo paradigma;
5) con riferimento al fenomeno mafioso l’antropologo tedesco Henner Hess ha parlato di una subcultura condivisa dalla popolazione della Sicilia occidentale (Hess 1973).
La Scuola di Chicago ha avuto il merito di legare l’analisi dei fenomeni criminali allo studio del contesto sociale e il criminologo americano Edwin Sutherland ha studiato in particolare i crimini di soggetti delle classi dirigenti, andando incontro a censure vistose, come la mancata pubblicazione dei nomi delle imprese coinvolte in attività criminose che solo dopo 34 anni sono stati pubblicati (il libro Withe Collar Crime fu pubblicato nel 1949 ed è stato ripubblicato integralmente nel 1983). Sutherland fonda la sua teoria generale del comportamento criminale su due ipotesi: l’associazione differenziale e la disorganizzazione sociale. Respingendo le teorie criminologiche basate sui condizionamenti economici e sulle patologie, individua l’elemento comune a tutte le forme di crimine nell’apprendimento, cioè nella trasmissione di comportamenti criminali dovuta alla frequenza di rapporti con i “maestri del crimine” e sottolinea il ruolo della società che in contraddizione con il diritto formale favorisce i comportamenti illegali. L’attenzione è soprattutto puntata sul mondo degli affari: una vera e propria rivoluzione rispetto allo stereotipo che guardava unicamente alla criminalità dei poveri e degli emarginati. Indirettamente, un contributo notevole a un’analisi dei rapporti tra mafia, attività economiche e centri di potere.
Cohen analizza le subculture come modalità di adattamento e soluzioni a problemi di status, cioè di collocazione sociale. Merton considera l’anomia come prodotto della “crisi della struttura culturale che si verifica specialmente allorché vi è una forte discrepanza tra norme e scopi culturali da una parte e le possibilità strutturate socialmente di agire in conformità a quelli” (in Santino 1991, p. 374). I tipi o modelli di adeguamento alle sollecitazioni derivanti dal combinarsi di fini culturali e mezzi istituzionali sarebbero cinque: conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia, ribellione. Il comportamento criminale corrisponderebbe al modello dell’innovazione, che consiste nell’adesione ai fini culturali senza il rispetto dei mezzi istituzionali.
I criminologi Wolfgang e Ferracuti partono dalla considerazione che il termine “subcultura” così com’è usato da antropologi e sociologi è molto ambiguo, propongono un modello composito, polimorfico ed escludono esplicitamente che la mafia contemporanea possa interpretarsi come un fenomeno subculturale. Essa è diventata “un sistema di delitti organizzati”, ricorre a una “violenza progettata”, come “arma di controllo sociale ed economico, non dissimile dalla pena di morte nella società organizzata” (ivi, pp. 374 ss.).
Gli studi più recenti propendono per un approccio ai fenomeni di criminalità, in particolare di criminalità organizzata, sulla base di modelli teorici complessi, interdisciplinari (ivi, p. 372).
Nell’analisi di Hess l’uso del concetto di subcultura per lo studio della mafia ha comportato le seguenti implicazioni: 1) il coinvolgimento della popolazione delle quattro province della Sicilia occidentale nella subcultura mafiosa; la mafia viene considerata come istituzione di autosoccorso, è esclusa l’esistenza di una struttura organizzativa, vengono ignorate le lotte sviluppatesi in quel territorio, che non hanno raggiunto i risultati sperati per ragioni sociali e politiche da ricercare nel contesto locale e nazionale, in cui la mafia era inserita come parte delle classi dominanti; 2) la distinzione tra una cultura di Stato e una subcultura mafiosa extrastatuale ignora i rapporti tra mafia e istituzioni, costitutivi del fenomeno mafioso nella sua concreta funzionalità ed evoluzione.
La cultura mafiosa come transcultura
Per uscire dalle secche in cui finisce con l’approdare il concetto di subcultura, ho proposto la sua sostituzione con il concetto di “transcultura”, intesa come “percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui possono convivere ed alimentarsi reciprocamente aspetti arcaici come la signoria territoriale e aspetti modernissimi come le attività finanziarie, aspetti subculturali derivanti da codici associazionistici ed altri aspetti “postindustriali”. Un concetto dinamico, aperto a nuovi apporti anche se agganciato a vecchi “valori”, contraddittorio eppure con una sua capacità di equilibrio, complesso per quanto riguarda la collocazione della mafia nel contesto, comprendendo un ampio ventaglio di possibilità, che vanno dalla compenetrazione alla complicità, dalla concorrenza al conflitto” (ivi, p. 378).
La definizione di un paradigma adeguato, fondato sul concetto di transcultura, dovrebbe passare attraverso l’approfondimento di vari aspetti:
1) l’apprendimento, cioè la trasmissione dei modelli dell’agire mafioso, dall’uso della violenza alle pratiche di interazione con il contesto sociale;
2) l’articolazione concreta della transcultura, frutto della combinazione di molteplici componenti: la visione gerarchica della struttura associativa e della società; l’accettazione dei fini sociali (arricchimento, potere, successo) e non dei mezzi, accessibili a pochi; la personalizzazione del conflitto e la sua risoluzione compromissoria o violenta; il ruolo dell’aggressività all’esterno, con l’induzione alla passività e all’omertà; l’omertà oggi, con la sua crisi in seguito al coinvolgimento di esterni nelle attività mafiose e al fenomeno del “pentitismo”; lo stato attuale delle ritualizzazioni, dalle cerimonie di iniziazione al linguaggio; le distorsioni nella vita quotidiana prodotte dalla presenza della mafia; il ruolo delle ideologie e delle prassi politiche, in particolare del meridionalismo e del sicilianismo patriottico, riverniciato anche recentemente, e il ruolo degli intellettuali e dei mass media;
3) gli effetti sul fenomeno mafioso delle attività repressive e delle attività antimafia della società civile, produttive di reazioni all’insegna della sommersione, con la sospensione della violenza eclatante, o del camuffamento, con l’adozioni di slogan e di linguaggi antimafiosi a copertura di pratiche collusive mai accantonate (“La mafia fa schifo”, si leggeva recentemente su dei manifesti fatti affiggere dal Presidente della Regione siciliana, sotto processo per favoreggiamento di mafiosi).
Cultura siciliana e cultura mafiosa
Il riferimento al sicilianismo ci porta ad analizzare, anche se schematicamente, il rapporto tra la cultura o transcultura mafiosa e la “cultura siciliana” nelle sue varianti, antropologico-letteraria (sicilianità-sicilitudine) e ideologico-politica (sicilianismo).
C’è un’immagine che si è tramandata per secoli, che poggia su una fantomatica “natura dei siciliani”, rappresentati come ineluttabilmente vocati all’egoismo, all’asocialità, al familismo chiuso e diffidente, al crimine, per cui la mafia è, e non può che essere, inscritta nel loro Dna. Uno schema che ignora la storia reale, vede la Sicilia come isola sequestrata dal mondo o come terra di colonizzazione e di conquista e i siciliani perennemente calpestati dagli stranieri, inchiodati alla passività e alla rassegnazione. Su questa base si fondano visioni come sicilianità e sicilitudine, sinonimi di insularità e di irredimibilità. Storicamente e culturalmente la Sicilia più che un’isola è stata un crocevia, il succedersi delle colonizzazioni si spiega con il fatto che essa era al centro del Mediterraneo, che per secoli ha rappresentato il cuore della civiltà occidentale e i siciliani non sono gli eredi degli abitanti primigeni ma il frutto di una mescolanza di etnie e di culture. Tali visioni richiamano modelli esistenziali e comportamentali diffusi, fondati sull’immodificabilità dello stato di cose esistenti. Si potrebbe parlare di una sorta di sindrome depressiva di massa, all’insegna dell’alterità e dell’inferiorità (“sicilianite”), facilmente diagnosticabile; capita di sentire quotidianamente affermazioni come: “i siciliani siamo fatti così”, che sottintendono che tutto quello che accade altrove è positivo, in ogni caso “normale”, in Sicilia tutto è negativo e “anormale”.
Si appaia allo stereotipo sicilianità-sicilitudine, lo stereotipo sicilianista, una vera e propria ideologia mafiosa o filomafiosa, secondo cui la Sicilia deve tutti i suoi mali all’esterno, allo Stato centrale e tutti i siciliani dovrebbero unirsi nella richiesta di aiuti, a riparazione di torti storici e attuali, in varie forme, dai fondi speciali alla concessione di poteri speciali. Sotto questa bandiera si è sviluppato in Sicilia il separatismo, fortemente intriso di interessi mafiosi, ispirato a un interclassismo che strumentalizzando disagi e bisogni diffusi si è sempre risolto a vantaggio dei soggetti dominanti. Storicamente questo schema, falsamente liberatorio, è stato incrinato e accantonato dalle mobilitazioni popolari quando, per esempio con le lotte contadine, hanno assunto programmi e moduli organizzativi fondati sull’autonomia e non sulla dipendenza dagli interessi consolidati. Se si vuole parlare di cultura siciliana, si deve necessariamente riscontrare al suo interno la presenza dei codici comportamentali mafiosi ma pure quella di idee e pratiche antimafiose, senza ricorrere nell’un caso e nell’altro a mitizzazioni. Nella storia della Sicilia c’è stata e c’è la mafia e c’è stata e c’è l’antimafia. La realizzazione di un’alternativa concreta deve partire da questa consapevolezza, al di là di illazioni generalizzanti e di pessimismi o ottimismi infondati.
Riferimenti bibliografici
Gallino Luciano, voce Subcultura, in Dizionario di Sociologia, UTET, Torino 1983, pp. 703-705.
Hess Henner, Mafia, Laterza, Roma-Bari 1973.
Santino Umberto, L’omicidio mafioso, in Chinnici Giorgio – Santino Umberto, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni ’60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1991, pp. 189-410.
Sutherland Edwin, Withe Collar Crime, Yale University Press, New Haven – London 1983; trad. italiana: Il crimine dei colletti bianchi, Giuffrè, Milano 1987.
Williams Frank, McShane Marylin, Devianza e criminalità, il Mulino, Bologna 1999.
Pubblicato su “Narcomafie”, n. 21, febbraio 2006.