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Il ’68 in Sicilia, 40 anni dopo…

Umberto Santino

Il ’68 in Sicilia, 40 anni dopo…

Nelle cronologie sugli avvenimenti del ’68 la Sicilia figura per due eventi: il terremoto del Belice del gennaio e, il 2 dicembre, l’uccisione da parte delle forze dell’ordine di due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, ad Avola, durante uno sciopero. In seguito a quell’eccidio saranno abolite le gabbie salariali che condannavano i lavoratori meridionali a un trattamento diverso da quello per i lavoratori del resto del Paese. Sembra che tra i morti del terremoto e i morti di Avola non ci sia stato niente di significativo, a riprova che in terra di Sicilia non possa accadere altro che non sia uno sconvolgimento naturale e un massacro, l’ennesimo, di manifestanti per diritti che non sono mai arrivati.
Eppure, anche in Sicilia, e in particolare a Palermo, c’è stato il ’68, ci sono state cioè manifestazioni, occupazioni di scuole e di facoltà universitarie, assemblee, controcorsi autogestiti, contestazioni, c’è stato insomma quell’insieme di atti, gesti, riti collettivi, vissuti che si definisce “il ’68”. Si potrebbe dire, né più né meno di quanto sia accaduto a Parigi, a Berkley, a Roma, a Milano e in tante altre città che sono state teatro dell’evento ’68. Anzi, se ci si attiene al dato cronologico, possiamo dire che il ’68 è cominciato, o almeno è stato preannunciato, a Palermo, con le agitazioni degli studenti medi, anche se la data di nascita è il febbraio del ’68 con l’occupazione della Facoltà di Lettere, che viene qualche mese dopo le occupazioni di Torino, Pisa e Trento. E come del resto in tutta l’Italia il ’68 siciliano apre una fase storica che si concluderà con il ’77.

 

Le specificità del ’68 siciliano

Nel ’68 siciliano ritroviamo i temi standard del ’68 nazionale e internazionale: la lotta contro l’autoritarismo, il “potere studentesco”, i riferimenti e i miti che lo hanno generato e accompagnato, dal Vietnam al Che, le letture che lo hanno alimentato, da Marcuse a Fanon, le assemblee permanenti e la formazione dei gruppi della “sinistra rivoluzionaria”, ma troviamo alcuni aspetti specifici, ignorati o sottovalutati.
In Sicilia il dopobelice innescò una nuova ondata migratoria ma pure la volontà di progettare una ricostruzione che voleva coniugare urbanistica e partecipazione, fondare un nuovo modello di economia e di socialità. Le mobilitazioni che si susseguirono in quegli anni sono il ’68 del popolo terremotato che conseguì qualche risultato, anche se il nuovo modello di vita comunitaria non è nato, dato che, non solo nel Belice, non c’erano le condizioni per farlo nascere.
A Palermo il dopoterremoto portò la lotta per la casa, con l’abbandono del centro storico, l’occupazione dei quartieri di edilizia popolare che sorgevano nelle periferie e la formazione di comitati che gestirono le mobilitazioni e costituirono gli spazi aggregativi in un contesto di caseggiati-dormitori, senza servizi. Con questi bisogni primari si misurarono i vari gruppi, riuscendo a trovare momenti unitari ma spesso rifugiandosi in pratiche settarie. Quei bisogni ancora oggi sono vivi e insoddisfatti.
Tra le cose che hanno resistito al vaglio del tempo ci sono le riflessioni sul fenomeno mafioso, all’inizio condotte all’interno del gruppo del Manifesto di Palermo e che a un certo punto incrociarono, non per caso, la figura di Peppino Impastato.
Oggi tutti o moltissimi parlano di mafia, a proposito o a sproposito, ma quasi nessuno ricorda che l’analisi della mafia come “borghesia mafiosa” e l’individuazione dei caratteri fondamentali dell’evoluzione del fenomeno mafioso ha il suo atto di nascita nel documento Per la costituzione del Centro di iniziativa comunista della Sicilia, del 1971, elaborato da Mario Mineo, una delle figure più significative di quegli anni e della sinistra non solo siciliana. In quegli anni operava la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, istituita nel 1963, al cui interno si scontravano due tesi: la prima, di maggioranza, secondo cui la mafia ormai aveva chiuso il suo ciclo e si era trasformata in gangsterismo urbano, senza regole e senza radici; la seconda, sostenuta da una minoranza di esponenti dei partiti di sinistra, secondo cui la mafia non era morta con la fine del feudo ma si era adattata ai mutamenti del contesto, prendendo parte alla speculazione edilizia, avventurandosi nei traffici internazionali di sigarette e di droga, legandosi ai “giovani turchi” fanfaniani che sostituivano alla direzione della Democrazia cristiana i vecchi notabili, accaparrandosi notevole fette di denaro pubblico e rigenerandosi come “borghesia di stato”. Ma l’analisi della “borghesia mafiosa, con la proposta di espropriare la proprietà mafiosa, più di dieci anni prima della legge antimafia, restò isolata, non fu neppure accolta dal gruppo del Manifesto, al cui interno quel documento era stato elaborato.
A Palermo lo slogan di buona parte del movimento studentesco era: “Sicilia rossa mafia nella fossa” e a Cinisi Peppino Impastato conduceva la sua guerra alla mafia, a partire dalla sua famiglia, coniugando analisi e controinformazione, denuncia e irrisione, mobilitazione sociale e impegno politico. I mafiosi non gli hanno perdonato la ribellione contro il suo stesso sangue, e molti dirigenti e militanti di allora non gli hanno perdonato la radicalità. Tanti compagni della sinistra che si autodefiniva rivoluzionaria non hanno capito la sua insistenza nel contrastare un fenomeno che ignoravano o consideravano un genere d’antiquariato locale.
Ricordo che, dopo la sua morte, andando in giro per l’Italia per preparare la manifestazione nazionale del 9 maggio 1979, primo anniversario dell’assassinio, molti non riuscivano a pensare che la mafia fosse straripata oltre lo Stretto. A Milano morivano Fausto e Iaio per vicende connesse anche con il traffico di droga, ma la mafia cosa c’entrava?
Per capire cos’è la mafia (non solo l’organizzazione criminale ma soprattutto il suo sistema di rapporti) ci sono voluti i grandi delitti e le stragi degli anni ’80 e ’90, ma la linea d’analisi e le prassi avviate nel decennio che si apre nel ’68 avevano già indicato un percorso che purtroppo è stato a lungo ignorato. E per avere giustizia per il delitto Impastato abbiamo dovuto attendere più di vent’anni e se è arrivata si deve certo all’attività di alcuni magistrati ma soprattutto all’infaticabile impegno del fratello Giovanni e della madre Felicia, di alcuni compagni di Peppino e del Centro di Palermo a lui dedicato, quando in tanti pensavano che fosse un terrorista e un suicida.

Pubblicato su “Carta settimanale”, 2-8 maggio 2008.