loading...

Dopo il 23 maggio

Umberto Santino

Dopo il 23 maggio

 

L’anniversario della strage di Capaci è stato l’occasione per alcune iniziative che vanno ricordate e ha dato luogo ad alcune riflessioni che meritano di essere riprese.

Al palazzo di giustizia, per iniziativa dell’Associazione nazionale magistrati, si è inaugurato un museo dedicato a Falcone e Borsellino nelle minuscole stanze che venivano indicate come il “bunkerino”. Prima l’ufficio istruzione era al pianterreno e ricordo di aver visitato più volte Rocco Chinnici e indicato con preoccupazione quella vetrata sulla strada, una vetrina per un lavoro che avrebbe avuto bisogno di non essere esposto a occhi estranei. Chinnici, per giunta, osservava che non sapeva se il vetro era a prova di proiettile. Poi si pensò a quelle stanzette che somigliano a un sottoscala. Lì si è svolto un lavoro che fa parte della storia dell’Italia migliore e il procuratore Scarpinato ha definito quei pochi metri quadri un “luogo dell’anima”. A me è sembrato un minireclusorio, una sorta di Lilliput per emarginati.

Nel corso della cerimonia nell’aula magna del palazzo di giustizia si è detto che il 23 maggio dovrebbe servire non solo a organizzare le iniziative con i ragazzi che vengono da tutta l’Italia per una festa della legalità, ma pure, o soprattutto, come un giorno in cui fare il punto sulla mafia e sull’antimafia. Non solo slogan, ma riflessioni, bilanci e proposte.

Cos’è la mafia oggi? È la stessa di quella sui banchi del maxiprocesso? Allora si processò una Cosa nostra piramidale e verticistica, con la cupola che decideva i grandi delitti e al vertice il capo dei capi. Era la mafia delle rivelazioni di Buscetta, che già allora era datata. La dittatura dei corleonesi aveva decimato i rappresentanti della cupola e instaurato una sorta di monarchia assoluta. Dopo c’è stato lo smantellamento del pool, ci sono stati gli attentati di Capaci e di via d’Amelio, di Roma, Firenze e Milano e la legislazione sviluppatasi sull’onda dell’emergenza, come risposta all’escalation della violenza mafiosa, si ampliò con il carcere duro, la legislazione premiale per i collaboratori di giustizia e sullo scambio elettorale politico-mafioso, con una fattispecie che lo limitava, inverosimilmente, allo scambio voti contro denaro. Hanno cominciato a funzionare la Procura nazionale antimafia (il procuratore nazionale sarebbe stato Falcone, se fosse rimasto vivo? Lui mi ha detto che era sicuro ma io non lo ero) e la Dia, si sono svolti altri processi, con un infortunio colossale come la fiducia accordata a un falso pentito, di cui ancora si piangono le conseguenze. Si è parlato di “metodo Falcone”, di indagini così accurate da dar luogo a processi con esiti positivi e questa insistenza potrebbe suonare criticamente alle orecchie di allievi di Falcone e Borsellino, il cui lavoro è vanificato da processi con esiti diversi da quelli che si attendevano. Comunque Cosa nostra ha ricevuto colpi che non aveva mai avuto, con capi e gregari in carcere con pesanti condanne. Per colmare i vuoti ha dovuto ricorrere alle seconde e terze file, per rilanciarsi nel traffico di droghe ha dovuto convivere con gruppi etnici nuovi, Palermo è diventata, o sta diventando, qualcosa di simile al melting pot americano. Il consenso è stato ridimensionato con l’azione antiracket, ma rimane intatto in buona parte della città: le persone che ostacolano la polizia e difendono il malvivente non è detto che siano affiliate ma certamente vivono di illegalità in un contesto in cui l’economia legale non c’è o è troppo esile, e si riconoscono nell’arrestato, considerandolo vittima della persecuzione di uno Stato considerato estraneo e nemico.

Non è un caso che in città un esempio di denuncia di gruppo venga dai bengalesi, grazie all’azione di Addiopizzo, uno dei pochi esempi di antimafia sociale, assieme alle case confiscate ai mafiosi assegnate ai senza casa e all’uso sociale dei beni confiscati, con i problemi ben noti sul destino di molte imprese condannate al fallimento.

Possiamo dire: una mafia in crisi, scavalcata da altre mafie, che si sono esposte meno, che riprende le armi quando si vede toccata nei suoi interessi, come la sempiterna mafia dei pascoli, e un’antimafia gracile, afflitta da esibizionismi e da camuffamenti, che vanno dagli imprenditori collusi alle variazioni sul tema dell’antimafia gridata, trampolino di lancio per vanità ostentate.

Una riflessione seria non può non partire dal calvario che hanno vissuto Chinnici, Falcone e Borsellino, prima della crocifissione. Ancora oggi c’è chi li ha osteggiati e denigrati e ricorre a sofismi per giustificare posizioni indifendibili. Al palazzo di giustizia si è detto che il piccolo museo deve ampliarsi, documentare adeguatamente ostacoli, invidie, emarginazioni che hanno accompagnato l’opera dei giudici migliori. Il problema è come legare questa iniziativa benemerita alle altre realtà, come il giardino della memoria e il progetto del Memoriale che dovrebbe sorgere a palazzo Gulì. Vinceranno le solite prassi della sconoscenza del lavoro altrui e del cominciare da zero o si riuscirà a creare una collaborazione che dia un’anima a una città in cui troppo spesso ci si contenta di riti e di devozioni?

 

Pubblicato su Repubblica Palermo del 28 maggio 2016, con il titolo: Il museo dell’innocenza dimenticata.