Mafia e religiosità popolare
Umberto Santino
Mafia e religiosità popolare
A Palermo l’aggressione alla regista del festino di santa Rosalia, a Oppido Mamertino la processione che sosta davanti alla casa del vecchio boss della ‘ndrangheta, in provincia di Campobasso i carcerati che disertano la messa: sono fatti nuovi, e scollegati tra loro, o le repliche di un copione già andato in scena o prevedibile e hanno qualche filo in comune?
A Palermo molti ricordano che per la Pasqua del 1983, i detenuti nel carcere dell’Ucciardone si rifiutarono di partecipare alla messa celebrata dal cardinale Pappalardo, responsabile ai loro occhi di aver condannato nelle sue omelie la delittuosità mafiosa. Molti hanno considerato le uccisioni di don Puglisi e di don Diana e gli attentati romani alla chiesa di san Giorgio in Velabro e al palazzo del Laterano una risposta all’anatema scagliato dal papa Giovanni Paolo II nella valle dei templi di Agrigento il 9 maggio 1993. Più di vent’anni dopo l’appello del papa polacco: “mafiosi convertitevi”, con il preannuncio della sanzione divina (“una volta verrà il giudizio di Dio”), un altro pontefice non italiano, venuto dalla “fine del mondo” e ribattezzattosi Francesco, ha detto che i mafiosi sono scomunicati. E la reazione non si è fatta attendere: i mafiosi chiedono spiegazioni e inscenano una sorta di “sciopero religioso” e c’è chi avverte che potrebbe essere il preludio di qualcosa di grave.
Alla regista del festino 2014 l’aggressore, con il Rolex al polso, ha comunicato, con accompagnamento di calci e pugni, il decreto di espulsione: “vattene da Palermo”, come a dire: “il festino è cosa nostra”. Eppure la regista non è la prima volta che viene a Palermo: sono suoi i megaspettacoli degli anni ’90 con cui il festino è stato rilanciato alla grande ed è diventato, a suo modo, uno show contro la mafia, peste del nostro tempo e ora, come ha sottolineato il sindaco Orlando, contro la mafiosità.
A mio parere questi sono episodi che dovrebbero rimandare a una riflessione su quella che è stata, nel corso bimillenario di quello che si potrebbe definire il “cristianesimo reale”, o almeno il “cattolicesimo praticato”, la religiosità popolare, costruita, avallata, o anche soltanto tollerata, dalle gerarchie ecclesiastiche, dai vertici romani al parroco di provincia. Ed è questo il filo che li accomuna. Si è tramandata una religiosità fatta di processioni, riti pubblici e privati come forma di ringraziamento per grazia ricevuta o di patteggiamento per grazia da domandare. Un do ut des al centro dello scambio tra devoti e santi, con un vangelo usato da buona parte degli stessi sacerdoti più come retorica di legittimazione che vademecum della vita quotidiana, e liturgie che segnano i momenti peculiari di ogni vita umana (il battesimo, il matrimonio, il funerale in chiesa) come rituali abitudinari, passivamente accettati.
Qualche studioso ha collegato pratiche mafiose e prassi devozionali (la confessione come perdono assicurato per ogni genere di delitto o peccato, i santi come mediatori alla cui raccomandazione si ricorre perché intercedano preso un Dio altrimenti inaccessibile) e c’è chi ha visto nelle rappresentazioni del divino iconografie che ricordano i più terreni padrini. Questo collegamento era stato in qualche modo evocato dalla lettera che, dopo la strage di Ciaculli del 1963, monsignor Dell’Acqua, della segreteria di Stato, per indicazione di papa Montini, indirizzò al cardinale Ruffini. Che altro voleva dire l’alto prelato vaticano quando chiedeva se non era il caso di promuovere azioni appropriate per “dissociare la mentalità della cosiddetta ‘mafia’ da quella religiosa”? La lettera veniva dopo il manifesto del pastore valdese Panascia che terminava con un cubitale “Non uccidere” ed è nota la reazione furente del cardinale: supporre un’associazione tra la mentalità mafiosa e quella religiosa era cosa da socialcomunisti, loro sì scomunicati con tanto di decreto pontificio già nel 1949. C’è da chiedersi: la religiosità dei mafiosi è solo una forma di camuffamento, fa parte di una strategia di ricerca di legittimazione e di consenso, o si identifica, o ha molto da spartire, con la religiosità praticata dalla maggioranza della popolazione che si dice ed è considerata cattolica? Troppo spesso la ritualità sostituisce l’etica e la devozione pubblica copre la sostanziale anomia privata e, nel caso dei mafiosi e di quanti condividono con loro interessi e codici culturali (la mafiosità), l’adesione a comandamenti che non coincidono con quelli dei Sinai.
Con questi problemi, sedimentati nel tempo, intrisi di quotidiane convivenze in contesti profondamente segnati, in cui le mafie continuano a essere una “costituzione sociale”, come osservava Franchetti già nel 1876, cioè sono una forma di socializzazione “naturale” come la famiglia o la chiesa, ben più della scuola che trova già il terreno seminato, bisognerebbe fare i conti, correndo i rischi che non possono non esserci quando si vuole cambiare. un mondo che si è contribuito a generare.
Riguardo al festino, quest’anno i fondi sono limitati, ci sono state esclusioni che hanno innescato lamentele, anche la Cgil ha raccolto le proteste delle maestranze locali, ma l’aggressione ha matrice diversa dalle prassi sindacali. Le feste patronali sono state sempre appannaggio di confraternite con qualche padrino dentro. A Palermo da tempo le cose non starebbero più così e si vuole dare un avvertimento? Il festino rappresenta a Palermo la forma più spettacolare di religiosità popolare, in cui un presunto miracolo (la peste del 1624 in realtà finì due anni dopo il ritrovamento delle reliquie che si dissero di santa Rosalia, ma non sono mai state analizzate, e processioni e riti pubblici rinfocolarono e diffusero un male che l’epidemiologo Ingrassia già per la peste del 1575 aveva diagnosticato che si diffondeva per contagio) viene celebrato come un atto liberatorio da tutti i mali. Anche in questo caso una chiesa che voglia riformarsi non dovrebbe avvertire che una ragazza, di cui si sa molto poco e che si isola dalla società e vive in una grotta, è l’esempio meno adatto per indicare un percorso di liberazione? Non sarebbe preferibile una persona, schiva, aliena da ogni retorica, come don Puglisi, possibilmente senza portare in giro una costola dentro un reliquiario?
Pubblicato su Repubblica Palermo dell’11 luglio 2014, con il titolo: Il cristianesimo delle processioni che fa comodo agli uomini di Cosa nostra.