Umberto Santino: Peppino Impastato: alle radici dell'”antimafia difficile”
Umberto Santino
Peppino Impastato: alle radici dell'”antimafia difficile”
Gli anniversari sono sempre rischiosi. La memoria è selettiva e si dà il caso che sia anche strumentale. Rievocando un personaggio, un evento, siamo facilmente portati a ricordare quello che più ci rassicura, o ci assomiglia, e a dimenticare il resto. Così il 25 aprile, ricorrenza della liberazione dal nazifascismo, è diventato, o si vuol farlo diventare, la festa della pacificazione nazionale, come se si potessero pacificare fascismo e antifascismo, dittatura e democrazia. Forse Peppino Impastato è al sicuro da queste manipolazioni, perché è un personaggio talmente fuori dagli schemi che è più facile ignorarlo e dimenticarlo che annetterlo alle liturgie ufficiali come un morto addomesticato.
Ho conosciuto Peppino solo occasionalmente, il mio dialogo con lui comincia il giorno della morte. Sono andato ai funerali come uno dei tanti compagni che non potevano mancare a quell’appuntamento. Il giorno dopo alcuni compagni mi hanno chiesto di parlare in un comizio già programmato per la campagna elettorale. C’era una lunga fila di finestre chiuse e decisi di parlare a chi ascoltava dietro le imposte: «Voi sapete che Peppino Impastato è stato ucciso dai mafiosi e sapete benissimo chi sono e chi è il loro capo: Gaetano Badalamenti». Da lì è cominciata la mia scoperta di Peppino. La sua rottura con il padre quand’era appena un ragazzo, il suo impegno multiforme, le sue crisi laceranti fino alla disperazione e alla volontà di suicidio, le sue riprese in cui gli entusiasmi si incrociavano con le delusioni.
Peppino non si spiega senza il ’68 ma soprattutto non si spiega senza la sua vicenda personale. Figlio e parente di mafiosi, matura una ribellione che è insieme personale e culturale, esistenziale e politica. Credo che la cosa migliore sia dare la parola a lui, rileggendo un testo in cui si è raccontato, con impietosa sincerità.
«Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto con connotati ideologici tipici di una società tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai nel PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuol rompere tutto e cerca protezione».
Un bambino a spasso con il padre…
Luigi Impastato, padre di Peppino, nel periodo fascista è stato confinato ad Ustica come indiziato mafioso, nel dopoguerra ha fatto, come tanti altri, il mercato nero. Non risulta affiliato alla mafia, ma era fiero delle sue parentele e amicizie mafiose. Suo cognato era il capomafia Cesare Manzella che nel 1963 viene ucciso con la prima giulietta al tritolo.
Grande amico di Luigi era Gaetano Badalamenti, successore di Manzella alla testa della cosca di Cinisi e per qualche tempo al vertice di Cosa nostra.
Molte fotografie mostrano Peppino bambino portato per mano dal padre in manifestazioni pubbliche, come la festa della santa patrona, in cui compaiono in prima fila i mafiosi di Cinisi. È una forma di socializzazione: Luigi, da buon amico degli amici, presenta il suo primogenito ai maggiorenti del paese. Il bambino si presta docilmente a queste frequentazioni ma ben presto comincia a capire.
Peppino cresce tra un padre che orbita nel sistema mafioso e la madre, Felicia, che non proviene da famiglia mafiosa, ma ha sposato Luigi e fa la sua parte di donna di casa, spesso morde il freno e qualche volta esplode. Quando Peppino sfiderà apertamente il padre e sarà cacciato di casa, Felicia sarà accanto al figlio ma non riuscirà a rompere con il marito. Solo dopo la morte di Peppino spezzerà ogni legame con la parentela mafiosa.
Questa guerra domestica di Peppino con il padre e con i parenti mafiosi rende la sua figura unica nella storia del movimento antimafia. In Sicilia i militanti uccisi per il loro impegno di lotta contro la mafia sono molti, ma, che io sappia, Impastato è il solo che abbia fatto questa lotta a partire dalla sua famiglia. Non nascondo che la decisione di dedicargli il Centro siciliano di documentazione, nato un anno prima della sua morte, più che dalla condivisione di un patrimonio culturale e politico nasce da questa radicalità emblematica che assume la sua esperienza, inestricabilmente legata alla sua vicenda personale.
Il Partito protettore-tiranno
Peppino lo scrive chiaramente: cerca nella militanza politica, nel partito, la protezione che non ha avuto in famiglia e di cui ha bisogno. Leggiamo ancora le sue parole: «Lasciai il PSIUP due anni dopo, quando d’autorità fu sciolta la Federazione Giovanile (erano i tempi della Rivoluzione Culturale e della morte del “Che”)… Il ’68 mi prese quasi alla sprovvista.
Partecipai disordinatamente alle lotte studentesche ed alle prime occupazioni. Poi l’adesione ancora una volta su un piano più emozionale che politico alle tesi di uno dei tanti gruppi marxisti-leninisti (la Lega). Le lotte di Punta Raisi e lo straordinario movimento di massa che si è riusciti a costruirvi attorno. È stato anche il periodo delle dispute sul Partito e sulla concezione e costruzione del Partito; un momento di straordinario ed affascinante processo di approfondimento teorico. Alla fine di quell’anno l’adesione ad uno dei due tronconi, quello maggioritario, del P.C.d’I. (m-l): il bisogno di un minimo di struttura organizzativa alle spalle (bisogno di protezione) è stato molto forte».
La sua esistenza è lacerata dalla vicenda familiare e il Partito è un altro padre-tiranno che gli chiede una dedizione assoluta. Cominciano così le trasmigrazioni politiche di Peppino, che lo porteranno alla campagna elettorale per il Manifesto nel ’72 e poi a Lotta continua. Qui gli sembra di avere trovato un clima più adatto. Conosce Mauro Rostagno: «rappresenta per me un compagno che mi da garanzia e sicurezza, comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista». Poi ci sarà la crisi dei gruppi di Nuova sinistra, la creazione di Radio Aut e del circolo Musica e cultura e infine le elezioni comunali con la lista di Democrazia proletaria.
La politica e la vita
Se la militanza politica è travagliata, ancora di più lo è la sua vita affettiva: innamoramenti taciuti o manifesti, rapporti trascinati a lungo che più che dargli serenità approfondiscono le lacerazioni. Peppino ha pensato più volte al suicidio e un suo scritto in cui esprime la volontà di abbandonare la politica e la vita (ma in un’altra versione parla solo di abbandono della politica), proclamando il suo fallimento «come uomo e come rivoluzionario», è stato usato per avallare, quel 9 maggio del ’78, la tesi del terrorista-suicida. Era uno scritto che rimontava a parecchi mesi prima e nel frattempo era ritornato ancora una volta a vivere e a fare politica (la politica come vita, anche se spesso invade e mortifica la vita), conducendo Onda pazza a Radio Aut, irridendo ferocemente mafiosi e potenti locali, e quando hanno deciso di ucciderlo, riducendo in briciole il suo corpo, era impegnato a fondo nella campagna elettorale. E se le delusioni lo sprofondavano nella solitudine, è riuscito sempre, fino all’ultimo, a trovare la strada che lo portava agli altri. Così lo troviamo in prima linea nelle lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto, lo ritroviamo a fianco degli edili disoccupati, lo vediamo in piazza montare la mostra “Mafia e territorio” o mimare la morte atomica sulle orme del Living Theatre, ed è sempre lui al centro delle iniziative che tentavano di scuotere Cinisi-Mafiopoli: concerti, cineforum, feste di carnevale.
La radicalità di Peppino
Peppino Impastato è questo, con le sue depressioni e i suoi entusiasmi, ma sempre con la sua radicalità. La radicalità delle sue scelte di vita si proiettava nell’analisi e nell’azione. Leggiamo questo suo giudizio sulla Democrazia cristiana: «Il gruppo dirigente democristiano nello scacchiere politico locale, come su quello nazionale, si pone come un’associazione di tipo mafioso, non solo e non tanto per la convergenza di mafia e di clientele parassitarie che è riuscito a suscitare e ad aggregare attorno a sé, quanto per il modo stesso banditesco e truffaldino, di concepire ed esercitare il potere nell’amministrazione della cosa pubblica». Allora poteva sembrare la forzatura propagandistica di un estremista; ora, dopo le inchieste giudiziarie degli ultimi anni, non si può negare la fondatezza di quell’analisi. E ugualmente spietato era Peppino nel denunciare i compromessi del Pci, che in quel contesto significavano intrecciare rapporti con uomini più o meno collusi con la mafia.
L’isolamento di Peppino negli ultimi anni nasce in questo quadro, come del resto eravamo isolati a Palermo noi del Manifesto, con le nostre analisi sulla borghesia mafiosa, e com’è stato isolato il Centro con i dossier su Lima.
Tra antimafia storica e nuova antimafia
Gli anni ’60 e ’70 nella storia della lotta alla mafia sono un periodo di transizione, tra la grande stagione di lotte che aveva come protagonisti il movimento contadino e i partiti storici della sinistra e la nuova fase, di impegno civile, che si aprirà negli anni ’80. Peppino eredita dal movimento antimafia storico la centralità dei problemi sociali e la tensione organizzativa, anticipa la nuova fase con le mille iniziative che portano il suo nome, ma mentre lui viveva l’azione antimafia come impegno quotidiano, complessivo, troppo spesso l’attuale antimafia vive di emozioni e di occasionalità.
Non possiamo non chiederci: che senso ha la sua radicalità in un mondo in cui tutto è appiattito, le ideologie si danno per tramontate, dominano i trasversalismi e i disincanti? Per chi pensa che non ci sia niente da fare, che i giochi siano fatti per chissà quanto tempo, Peppino è solo uno dei tanti sconfitti di una stagione archiviata. Ha ancora molto da dire a chi pensa che la storia non sia finita, che con la mafia non si possa convivere, che la lotta contro di essa non sia un problema da addetti ai lavori e non possa limitarsi a qualche manifestazione ma debba esser parte di un progetto di trasformazione della società mafiogena.
Badalamenti e non solo
Qualche parola sull’inchiesta. Dopo vent’anni la madre e il fratello Giovanni, i compagni rimasti sulla breccia, noi del Centro, i militanti di DP, la cui eredità è stata raccolta da Rifondazione, siamo riusciti ad ottenere quello che abbiamo chiesto fin dal primo momento: l’incriminazione di Badalamenti come mandante dell’omicidio. Ma non ci si può fermare qui.
Bisogna colpire anche gli altri mafiosi e i depistatori che dall’interno delle istituzioni hanno coperto il capomafia e gettato fango sull'”estremista”. Fare luce su quel periodo significa capire tante cose che sono successe dopo.
I magistrati hanno avuto parole di apprezzamento per l’impegno di Peppino ma non hanno speso neppure una parola per i pochi che in tutti questi anni non si sono rassegnati all’ennesima impunità per un delitto di mafia, presentando esposti, pubblicando dossier e libri, dando indicazioni, sostituendosi a investigatori che non investigavano e stimolando giudici che consideravano Buscetta, che ha sempre difeso Badalamenti, come il nuovo Vangelo. Il giudice per le indagini preliminari che nel novembre scorso ha emesso il provvedimento di custodia cautelare per Badalamenti scrive che in vent’anni i magistrati non hanno avuto collaborazione. Forse mai i giudici hanno avuto tanta collaborazione come per il delitto Impastato. Se ci siamo prodigati per ottenere giustizia, non è certo per avere medaglie. Lo abbiamo fatto perché non andasse disperso il patrimonio lasciato da Peppino, proseguendo sulla sua strada per dare corpo a quella che abbiamo definito “antimafia difficile”, praticata ogni giorno, senza vetrine.
(Pubblicato su “Liberazione”, 8 maggio 1998)