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Nonviolanza, mafia e antimafia

Umberto Santino

Nonviolenza, mafia e antimafia


Premessa

In questo scritto cercherò di rispondere, alla luce di riflessioni più o meno recenti, alle seguenti domande:
1) cos’è la nonviolenza? Una visione del mondo animata da una fede nella divinità o nell’uomo o un metodo di risoluzione dei conflitti? Parleremo di nonviolenza volontaria e strutturale: che significano?
2) Cos’è stata e cos’è la mafia? Una delle tante forme storiche e attuali di criminalità organizzata, o qualcosa di più complesso da analizzare con un approccio pluri o trans-disciplinare? E qual è stato e qual è il contributo della nonviolenza alla conoscenza del fenomeno mafioso?
3) Cosa è stata e cos’è l’antimafia? Quale è stato il ruolo delle istituzioni, delle organizzazioni politiche e sindacali, della società civile nella lotta contro la mafia? Come ha contribuito e può contribuire la nonviolenza a una lotta adeguata ed efficace contro la mafia?
Per rispondere a tali domande rifaremo insieme un cammino intrapreso da qualche anno con la costituzione del gruppo-laboratorio “Percorsi nonviolenti per il superamento del sistema mafioso”, costituitosi nel corso del 2003.
Il gruppo ha preso le mosse da un saggio di Vincenzo Sanfilippo di cui vorrei richiamare le linee fondamentali1. Ad avviso dell’autore la nonviolenza sarebbe contemporaneamente ricerca della Verità e metodo di risoluzione dei conflitti2. Per quanto riguarda la mafia Sanfilippo condivide e approfondisce l’approccio sistemico, richiamando le riflessioni di chi scrive e di Fabio Armao3 e parla di “sistema sociale mafioso”: le organizzazioni mafiose conformano l’intera società meridionale, essendo la mafia un modello diffuso di relazioni tra le parti della società. Ci troviamo di fronte a un modello sistemico a centralità mafiosa, con al centro l’organizzazione Cosa nostra, attorno a cui ruotano quattro aree di contiguità: area della cultura della socializzazione, area politico-amministrativa, area delle attività economiche produttive (veri e propri sotto-sistemi sociali) e area delle contiguità affettiva e familiare (che farebbe da tramite tra le varie aree e darebbe forza alle relazioni tra organizzazione mafiosa e sottosistema culturale).
Non esiste un centro assoluto del sistema sociale: “la centralità va determinata in relazione alla rilevanza attribuita dal ricercatore alla funzione assolta da ciascuna parte del sistema”4.Nella prospettiva proposta dall’autore la centralità va definita in base alle sue potenzialità trasformative. Generalmente si indica il sottosistema politico-amministrativo come decisivo per il cambiamento sociale; invece il luogo principe della riproduzione sociale sarebbe costituito dal sottosistema culturale. Su questo terreno Cosa nostra sarebbe stata sfidata poche volte e vengono ricordate le esperienze conclusesi nel sangue di Giuseppe Impastato e di don Pino Puglisi.
Cosa nostra in quanto associazione segreta non è osservabile direttamente e le definizioni scientifiche saranno sempre in ritardo rispetto alla realtà. Intervenire sulle aree di contiguità e sui sottosistemi sociali può essere utile per contribuire alla conoscenza del fenomeno organizzativo e può individuare le postazioni per avviare le prassi trasformative. La fine di Cosa nostra non significherebbe necessariamente la fine del sistema sociale mafioso, per cui è indispensabile, se si vuole operare un mutamento, adottare un’ottica di sistema.
Finora la mafia è stata osservata come altro da chi osserva; nell’ottica nonviolenta l’osservatore fa parte di un unico sistema che comprende l’oggetto-soggetto da conoscere. Vengono richiamate alcune riflessioni di Giovanni Falcone: la mafia non è una piovra o un cancro, ma ci rassomiglia. Bisogna capire perché buona parte della popolazione fa propria una lettura del mondo che perpetua il sistema sociale mafioso. Il consenso sociale a un sistema diventa così centrale, come pure la coscienza della possibilità del cambiamento, che dovrebbe animare una pedagogia nonviolenta, capace di raggiungere l’altro.
Gli studi di alcuni psicologi hanno analizzato le modalità di pensiero in contesti di mafia, che originerebbe dall’insicurezza (“pensare mafioso”) e Sanfilippo propone di assumere queste riflessioni contemporaneamente alla mia definizione di mafia (“Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale”5).
L’approccio culturalista, come quello economicista e quello criminologico si pongono in maniera univoca e si escludono reciprocamente; bisogna dare voce a tutte le metodologie che sfidano la separatezza del mondo criminale dal nostro mondo e che si pongono nella sfera della comprensione oltre che della spiegazione. “Azione istituzionale, conoscenza, etica, prassi per il cambiamento sociale sono ambiti che… non possono ignorarsi a vicenda”6. Va adottato un paradigma della complessità che l’autore deriva da chi scrive e da Edgar Morin, che avrebbe introdotto una vera e propria rivoluzione scientifica, fondata sulla relazione tra oggetti e soggetto conoscente, radicato in una cultura, una società e in una storia. Più che uno schema onnicomprensivo, è necessario adottare contemporaneamente più paradigmi: la realtà è un prisma a più facce e abbiamo bisogno di più angoli visuali.
Il metodo nonviolento si fonda sulla ricerca del conflitto e sulla costruzione di un’alternativa praticabile in piccola scala. Il conflitto è il luogo principe in cui si esprime la natura positiva dell’uomo e la fondamentale unità del genere umano. Nel conflitto non ci sono due parti ma in realtà ce n’è una sola. Esso è il disturbo di una relazione di un unico organismo. Vanno ricercati i conflitti latenti o manifesti operanti dentro il sistema sociale mafioso e vengono individuate alcune situazioni conflittuali (per esempio, estorti/estorsori – tentativi di costruzione di nuova imprenditoria/dissuasione da parte del racket e della burocrazia locale; pentiti/familiari – mafiosi pentiti e non pentiti; la dissociazione di familiari di mafiosi/mafiosi/organizzazione mafiosa; parenti di vittime/mafiosi/forze dello Stato; funzionari dello Stato (onesti/collusi/ politici mafiosi) su cui è possibile operare in un’ottica di riconciliazione. Ottica che andrebbe oltre quella della educazione alla legalità: l’educazione al rispetto delle leggi e dello Stato va accompagnata con quella dell’obiezione alle leggi ingiuste e da sola l’educazione alla legalità non permette di raggiungere tutti i soggetti inseriti nel sistema mafioso. Bisogna riferirsi alla legalità o a valori come la giustizia, la solidarietà, l’onore, la famiglia (spesso considerati come determinanti della cultura mafiosa)? Si può pensare a luoghi intermedi tra famiglia e Stato per ricostruire identità individuali e di gruppo e a percorsi di fuoriuscita dalla cultura mafiosa che possano essere compresi e sperimentati dai vari soggetti coinvolti e che possano diventare esemplari per chi aderisce o è contiguo alla mafia? Se Rita Atria, morta suicida per disperazione dopo l’assassinio di Borsellino e della sua scorta, avesse avuto un sostegno di un gruppo o di comunità, avrebbe deciso ugualmente di porre fine ai suoi giorni?

Sulla base del saggio di Sanfilippo si è costituito un gruppo-laboratorio che ha redatto un documento programmatico7 che ha fatto propria l’indicazione di Aldo Capitini: si tratta non di cancellare e stravolgere le forme storiche di impegno antimafia ma di aggiungere una visione particolare, capace di anticipare una società liberata.
Vengono richiamate alcune linee-guida per un’analisi sistemica del fenomeno mafioso e vengono indicate, sotto forma di domanda, alcune piste per un cammino possibile: in quali modi può intervenire la società civile e quale rapporto può avere con le istituzioni? Quale possono essere le aree su cui sperimentare processi di riconciliazione? Venivano individuati alcuni temi su cui svolgere un approfondimento scientifico: mafia e processi strutturali, metodologia non violenta e criminalità.
Successivamente Andrea Cozzo e Simona Rampulla sollecitavano la discussione su alcune proposte operative a livello sociale, istituzionale ed educativo: azioni di protesta pubblica sul problema del pizzo, applicabilità della giustizia rigenerativa e presenza sul territorio di forze dell’ordine nonviolente, diffusione di una cultura della responsabilità8.
In seguito Andrea Cozzo, riprendendo le riflessioni di un suo libro recentemente pubblicato, richiamava l’attenzione su due temi: la mediazione tra attore mafioso e vittima, l’applicazione al fenomeno mafioso e all’azione antimafia dei principi e degli strumenti della Difesa popolare nonviolenta9.

In un saggio in corso di pubblicazione Sanfilippo ha riproposto e approfondito i temi trattati nel primo saggio10.  Ne indico i punti che mi sembrano più significativi. Tutti i processi di conoscenza hanno un nucleo indimostrabile, meta-fisico. La nonviolenza è una teoria-prassi che si sperimenta nella storia. Così la “credenza” della nonviolenza nell’unità del genere umano fa i conti con la capacità di annientamento dell’uomo da parte dell’uomo. La nonviolenza come teoria e prassi per la risoluzione dei conflitti sociali è stata efficacemente sperimentata in parecchie occasioni, anche in presenza di un forte tasso di violenza distruttiva, mente l’uso della violenza legittima ha dato spesso prove di insufficienza e inefficacia. Riguardo alla mafia, la repressione si è rivelata insufficiente e incapace di durata, e ciò rimanda al carattere sistemico del fenomeno mafioso.
Si obietta che nel caso della mafia ci troviamo di fronte a un avversario invisibile, ma ciò non impedisce l’uso del metodo nonviolento che dovrebbe dare alla violenza uno sbocco evolutivo, mirante a interrompere l’escalation della violenza, a riconoscere gli autori della violenza non solo come carnefici ma anche come vittime essi stessi, identificare noi stessi come non totalmente innocenti.
Si prospetta un mutamento radicale del ruolo della società civile, che dovrebbe meno identificarsi nella richiesta di repressione, cercando di capire il perché della mafia, e si richiamano le riflessioni di Weber sulla comprensione dei fenomeni sociali. Ciò non significa sospendere le attività repressive che costituiscono un sottosistema che dovrebbe interagire con le sfide di altri sottosistemi.
Finora la nonviolenza non ha riflettuto adeguatamente sul concetto di crimine, anche se in Gandhi e in Capitini troviamo indicazioni significative sul ruolo della polizia anche in uno Stato nonviolento. E’ applicabile al fenomeno mafioso la giustizia rigenerativa o riparativa, pratica d’elezione della visione nonviolenta? Mentre la giustizia retributiva, cioè la pratica giudiziaria corrente, si fonda sulla triade legge-reato-pena, quella rigenerativa si fonda sul rapporto valori-danno-riparazione, richiamandosi all’unità del genere umano, intendendo ogni danno a un singolo individuo come un danno inferto alla collettività (chi colpisce un altro uomo fa male anche a se stesso), mirando a una riparazione del danno che coinvolga autori, vittime e terze parti in un’ottica di riconciliazione. Essa non sostituisce ma si affianca alla giustizia retributiva.
L’osservazione che la giustizia rigenerativa si riferisce a situazioni di danno rimediabile e a reati individuali e non associativi è legata a una rappresentazione sociale della giustizia ancorata a un’idea di pena come punizione, che dovrebbe tutelare la sicurezza dei cittadini, avere un effetto deterrente per i potenziali criminali, esercitare una funzione rieducativa e appagare le vittime.
Viene richiamata l’esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana, che ha chiamato gli autori di omicidi e di torture ad ammettere i loro crimini, condizione necessaria per ottenere l’amnistia. Si può applicare tale esperienza alle realtà di mafia, coinvolgendo per esempio i pentiti, facendoli incontrare con i familiari delle vittime, generando nuove occasioni relazionali, come appelli ai mafiosi non pentiti, ai politici e agli imprenditori collusi?
La mafia ha radici strutturali, legate al modello di sviluppo, e già in Gandhi ci sono indicazioni utili sul “programma costruttivo” (in India, economia e amministrazioni decentrare a livello di villaggio), che non possono essere applicate letteralmente ma ci invitano a ripensare il modello di sviluppo occidentale.
Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio c’è stata una grande mobilitazione, frutto dell’emozione suscitata da quegli eventi; dopo si è cercato di introdurre in un movimento in flessione dosi di razionalità, ma emotività e razionalità debbono essere legare insieme e procedere di pari passo.
Dire che i mafiosi debbono essere considerati avversari e non nemici significa andare incontro a forti obiezioni che si richiamano al pericolo di legittimazione dei mafiosi dando loro la parola. Ma eventi quotidiani come quelli che si succedono sulla scena dei quartieri napoletani, dimostrano che ci sono mentalità e comportamenti diffusi di avversione per le forze dell’ordine, il che dimostra che bisogna inventare nuove strategie. Se vogliamo venirne a capo, dobbiamo comprendere le ragioni della mafia e le ragioni dei mafiosi.


Riflessioni e esperienze precedenti: Danilo Dolci

Le riflessioni di Sanfilippo hanno dei precedenti risalenti nel tempo e recenti. Fino ad oggi l’esperienza più significativa condotta in terra di mafia è quella di Danilo Dolci11.Personaggio complesso: obiettore di coscienza e promotore di obiezioni, operatore sociale (più che sociologo, ma raccoglie documentazione e promuove e utilizza studi che sono il meglio della produzione sociologica di quegli anni), educatore, poeta, agitatore, capopopolo, organizzatore (più medico che missionario, ha scritto Bobbio). Personalità forte, carismatica, con cui non era facile collaborare, per quello che risulta da più d’una testimonianza.
Le mie esperienze personali non sono né molte né esaltanti. Negli anni ’50, quando digiunava a cortile Cascino e quando veniva processato al Palazzo di giustizia di Palermo, non ho avuto nessun rapporto con lui: pesava la diffidenza che era comune a tutti i cattolici (ero allora in Azione cattolica). Nel 1963 l’ho visitato a Partinico, assieme a un amico che lo conosceva, per fargli leggere i primi frutti delle nostre produzioni letterarie, ma non si è stabilito un rapporto; nel 1990, abbiamo avuto una telefonata tempestosa: volevo invitarlo a discutere di un libro su Palermo (La città spugna di Amelia Crisantino, pubblicato dal Centro Impastato) che dedicava molte pagine alla sua Inchiesta su Palermo. Nel libro c’erano molti apprezzamenti, ma pura qualche critica, che non gli è piaciuta. Nei primi anni ’80 Dolci non ha messo piede a Comiso, forse perché anche i nonviolenti presenti nelle mobilitazioni di quegli anni non facevano più riferimento a lui.

Dolci viene in Sicilia nel 1952 quando sono finite le lotte contadine ed è cominciata l’emigrazione. Trova una Sicilia-terzo mondo, corte dei miracoli. Il suo scopo: conoscere la realtà dal di dentro, attraverso il racconto autobiografico e le ricerche operative: scoprire le cose come stanno per risolverle subito (Banditi a Partitico, p. 250.).
La ricerca è funzionale, anzi fa tutt’uno con il progetto di educazione-trasformazione. L’attività si svolge secondo un ciclo: “La vera antimafia è una nuova ricerca-documentazione-azione-organizzazione” (Verso un mondo nuovo, p. 283). Come si vede, si tratta di una rifondazione dell’impegno sociale.
Non si può chiedere a Dolci un’analisi vera e propria della mafia, condotta rispettando canoni e protocolli disciplinari, ma nelle pagine dei suoi libri si trovano documenti che sono diventati dei classici, come gli autoritratti di capimafia (Giuseppe Genco Russo), di politici legati alla mafia (Calogero Volpe), testimonianze di familiari e di compagni di caduti nella lotta contro la mafia (il padre e i compagni di Placido Rizzotto, su Calogero Cangelosi), documentazione su delitti di mafia rimasti impuniti (Rizzotto e Accursio Miraglia) e sui rapporti tra mafia e politica (ancora su Volpe e soprattutto su Bernardo Mattarella), inchieste su Palermo e su varie realtà della Sicilia che allora furono un pugno nello stomaco e ancor oggi risultano illuminanti. Interessanti e pionieristici anche i riferimenti a gruppi di tipo mafioso operanti in altri Paesi.
La mafia risulta non solo come fenomeno criminale ma soprattutto come fenomeno sociale (il “gruppo clientelare-mafioso”) legato a un contesto fatto di violenza, soprusi, complicità a livello politico-istituzionale, miseria e ignoranza. In questo quadro Dolci e i suoi collaboratori, che per un certo periodo furono in gran numero (tra cui Franco Alasia, Lorenzo Barbera, Alberto L’Abate, Goffredo Fofi, Carlo Doglio, Ernesto Treccani, Antonino Uccello, Vera Pegna, Johan Galtung), con l’appoggio continuo ed entusiasta di grandi intellettuali (tra cui Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, Aldo Capitini, Carlo Levi, Guido Calogero, Elio Vittorini, Giulio Einaudi, Ignazio Silone, Raniero Panzieri, Cesare Zavattini, Bertrand Russel, Aldous Huxley) e di organizzazioni e singole persone a lui collegate attraverso gli “Amici di Danilo Dolci”, opera in modo originale, fuori dagli schemi di partito e sindacato, dando vita a un ciclo integrato.
Fino ad oggi Dolci rappresenta l’esempio più significativo di questo lavoro complesso, svolto continuativamente per lunghi anni, in base a una strategia capace di coniugare educazione, attraverso l’autoanalisi, conoscenza (con inchieste, seminari, convegni), progetto di trasformazione del territorio (pianificazione dal basso, studiando da vicino e utilizzando le esperienze di pianificazione internazionali), azioni di lotta tradizionali e nuove: manifestazioni, marce, scritte murali, con inchiostri che hanno resistito per decenni, digiuni, scioperi alla rovescia, riprendendo azioni che erano state del movimento contadino, comunicazione, con la pubblicazione di libri, tradotti in varie lingue, con un’intensa attività internazionale, con la radio dei poveri cristi. Ha ottenuto grandi risultati, come la costruzione di una serie di strutture (da Borgo di Dio a Trappeto alla scuola di Mirto) e la diga sullo Jato. Ha suscitato grandi solidarietà e grandi avversioni, a cominciare da quella del cardinale Ruffini, che in una lettera pastorale del 1964 indicava nella mafia, nel romanzo Il Gattopardo e in Danilo Dolci i “fattori che maggiormente hanno contribuito” a “disonorare la Sicilia”12: una linea di chiara marca sicilianista, nonostante le origini mantovane del cardinale, in piena continuità con le reazioni all’inchiesta di Franchetti e Sonnino del 1876, al processo per il delitto Notarbartolo nei primi del Novecento e alle recenti esternazioni del cosiddetto governatore della Sicilia Totò Cuffaro per un servizio televisivo sulla mafia, ancora una volta bollato come denigrazione della Sicilia.
C’è da chiedersi come questa esperienza a un certo punto sia entrata in crisi: hanno influito l’eccessivo peso del leader carismatico, i contrasti con i principali collaboratori, la dedizione assoluta che non regge per lungo tempo, cos’altro13?
Negli ultimi anni Dolci si era soprattutto dedicato all’impegno per un’educazione alla mondialità, un tema che meriterebbe un apposito approfondimento.


Precedenti. Le riflessioni più recenti

Nel dicembre del 1990 la rivista di Pax Christi “Mosaico di pace” pubblicava due articoli sul tema “Mafia e nonviolenza”, di Giorgio Pratesi e di Giuliana Martirani14.Il primo, un sacerdote, osservava che le difficoltà di una lotta efficace alla mafia derivavano da due aspetti: la collusione con il potere politico, economico e sociale; la ramificazione diffusa in gran parte della società civile. Pertanto l’idea di poter debellare la mafia affrontandola militarmente appariva tragicamente ridicola e molti pensano che non ci sia niente da fare. Però venivano rilevati dei segnali positivi: un limite di sopportazione già raggiunto da diverse persone, l’impegno della chiesa, l’attività di gruppi minoritari, la giunta Orlando, il distacco dei giovani dai modelli del passato, il pentitismo.
La lotta alla mafia andava condotta su diversi versanti, ma soprattutto, almeno in una prima fase, su quello culturale: “occorre un’opera educativa profonda che pian piano modifichi la mentalità e l’atteggiamento della gente”. Per questo occorre un’idea-luce: la nonviolenza. C’è una radicale opposizione tra mafia e nonviolenza: il mafioso preferisce la violenza per affermare il suo potere, si preoccupa solo del suo punto di vita, minaccia e intimidisce, non tollera chi non riconosce il suo potere fondato sul silenzio e l’omertà, afferma il diritto della forza, sopprime l’avversario; il nonviolento pensa che la nonviolenza sia la strada migliore per affermare i suoi diritti, vuole l’affermazione dei diritti di tutti, si sforza di ascoltare e capire anche le ragioni dell’avversario, mette in discussione se stesso, confida nel confronto e nel dialogo, afferma la forza del diritto, ricerca una soluzione ragionevole per entrambe le parti.
Un’azione nonviolenta sistematica per affrontare una situazione di mafia è tutta da inventare (non c’è nessun riferimento a Dolci) e l’autore dava alcune indicazioni preliminari: chi vuole avviarsi su questa strada deve evitare ogni comportamento mafioso, in una società violenta la nonviolenza è un percorso continuo che può conoscere fermate e cadute, si può cominciare con azioni concrete (spettacoli, petizioni, marce) che diano fiducia alla gente, bisogna favorire il riavvicinamento dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, manifestare solidarietà a chi viene colpito o minacciato.
La Martirani, una geografa impegnata nel sociale, dava delle indicazioni per un impegno delle parrocchie, che dovevano diventare uno spazio per progettare e praticare l’esodo dalla cultura mafiosa. Venivano individuate sette virtù parrocchiali: l’obiezione di coscienza al potere dei capi, alla giustizia mafiosa, a feste e processioni organizzate dai mafiosi, alle devianze minorili, alla giustizia sommaria, alle banche che riciclano il denaro sporco, ai sacramenti amministrati ai mafiosi. A queste obiezioni corrispondono altrettante proposte alternative: il canto del Te Deum per ribadire il primato di Dio, il comitato arbitrale parrocchiale, la festa di fratellanza, le cooperative, il comitato di soccorso giuridico, le MAG (Mutua autogestione: strutture di credito alternative), la delega al vescovo. Non so che accoglienza abbiano avuto queste proposte all’interno del mondo ecclesiale.
Possiamo considerare il tentativo più corposo di analisi e di progetto di lavoro negli anni novanta un saggio di Guglielmo Minervini e un documento di gruppo che ne ricalca le linee, apparsi sulle riviste “Rocca” nel marzo 1992 e “Mosaico di pace” nel dicembre 1992, prima e dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio15.
Nel documento redatto da un gruppo di studiosi e operatori sociali facenti capo all’Osservatorio meridionale di Reggio Calabria (tra gli altri, Piero Fantozzi e Tonino Drago) si partiva da una premessa: per uscire dalla profonda crisi del Sud bisognava ampliare lo sguardo, guardando al Nord, al primo e al terzo mondo (il secondo, quello del socialismo reale, non c’era più). Le attività criminali si inseriscono in tendenze e processi sovranazionali e un’azione di resistenza è impedita dalle connivenze con settori del potere economico e politico-istituzionali che vanno oltre il Sud e vengono legittimate come componenti l’élite nazionale e sovranazionale. “Gli aspetti più importanti di queste connivenze hanno una natura oggettiva; essi poggiano sul modo stesso in cui si evolvono e si riproducono gli interessi nelle società capitalistiche avanzate. Il mercato, ad esempio, tende sempre più ad espandere le sue prerogative finanziarie e speculative e a comprimere i processi produttivi. Tutto ciò è oggettivamente funzionale alla legittimazione dei capitali delle associazioni mafiose; inoltre la grande quantità di proventi illeciti immessa in questo processo alimenta ed accelera tale tendenza. Si tratta di un circolo chiuso che potrebbe essere spezzato da uno spirito e da un’etica che oggi non sono ancora date né al Sud né al Nord d’Italia”16.
La criminalità mafiosa (con il termine si indicano le principale organizzazioni criminali: mafia siciliana, ‘ndrangheta, camorra) viene definita l’unico conflitto sociale in cui si ha di fronte un avversario che spara (corsivo mio). La violenza è essenziale per la gestione dei conflitti. Un territorio marcato dal dominio mafioso è segnato dalla violenza. Venivano individuati come indicatori di tale condizione: la militarizzazione della vita civile, il tasso elevatissimo di mortalità violenta, un diffuso clima di intimidazione e di paura, un livello altissimo di esposizione personale nelle faide tra le cosche. Siamo perciò in presenza di un’occupazione criminale del territorio che si configura come controllo del territorio fisico e controllo delle strutture sociali.
La criminalità mafiosa mira a costituire un monopolio effettivo della violenza, al posto di quello non effettivo dello Stato, con un esercito professionale di circa 15.000 uomini e una leva volontaria di circa 100.000 persone, che sarebbe il tramite per porsi come “strumento univoco per l’integrazione e per la regolazione politica, economica, sociale dei bisogni e dei conflitti”17. Il suo rapporto con lo Stato è insieme di antagonismo e di collaborazione; essa rappresenta la forma specifica di realizzazione della modernizzazione nel territorio meridionale e la modalità attraverso cui i gruppi sociali meno abbienti superano le barriere all’acquisizione di potere reale ed è collegata con organizzazione eversive operanti all’interno delle istituzioni (esempio: loggia P2). Pertanto sarebbe un errore strategico puntare alla riappropriazione da parte dello Stato del monopolio della violenza: le élite di potere non possono autoepurarsi. Bisogna rovesciare i rapporti di forza, “riportando al centro le potenzialità di risposta che la società civile e la coscienza collettiva ancora possiedono; uscire insomma dalla logica impotente della doppia schiavitù: al gruppo mafioso o al ceto politico, per spostare avanti la democrazia, ripensando in modo nonviolento, cioè collettivo e costruttivo, insieme lo Stato, le istituzioni, il modello di sviluppo e la propria vita”18.
Venivano indicati due tipi di nonviolenza possibili: una volontaria, l’altra strutturale.
Il potere, anche quello mafioso, si regge sul consenso (si obbedisce alla mafia per paura, abitudine, interesse, identificazione psicologica, indifferenza, assenza di relazioni sociali) e la nonviolenza volontaria si fonda sulla costruzione di diffusi loci di potere che controllino il potere costituito e siano alternativi ad esso. Sottrarre consenso alle mafie si può in vari modi: con l’obiezione individuale (Libero Grassi) e di gruppo (associazioni antiracket), che interagisce con l’azione repressiva dello Stato. Precondizioni per questo tipo di attività sono: l’individuabilità dell’avversario, un certo grado di collaborazione dello Stato, la natura emergenziale del fenomeno criminale. I limiti sono evidenti se l’occupazione mafiosa è diffusa, lo Stato e le istituzioni più che garantire diritti sociali tutelano interessi di gruppi, il tessuto sociale è disgregato. In definitiva questo tipo di nonviolenza si fonda su un’analisi semplificata della realtà, non cogliendo il coinvolgimento nelle pratiche criminali delle istituzioni.
La nonviolenza strutturale invece si fonda su ipotesi di lettura della realtà più adeguate: il clientelismo come modalità diffusa, l’illegalità dominante e il potere mafioso come modello di sviluppo che ripropongono e deformano quello consumistico-capitalista, intrecciando dominio e egemonia, e si sviluppa non solo sulla linea dell’obiezione ma anche su quella “dell’autonomia culturale, del programma costruttivo, del cambiamento sociale, della elaborazione di un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello capitalistico occidentale”19.
Venivano indicati i lineamenti per una strategia di nonviolenza strutturale: l’analisi del contesto in cui nasce il grande crimine organizzato, che affronti tematiche di carattere generale (come gli effetti dei processi di modernizzazione, che indeboliscono le forme di regolazione e innescano processi degenerativi, mettendo in mora le credenze nel concetto di legalità, frutto della mediazione tra legittimazione interna ed esterna, cioè tra obbedienza fondata su valori condivisi e obbedienza fondata sulla paura della sanzione) e specifiche, relative alla realtà del Mezzogiorno. Qui dominano il degrado criminale e l’illegalità di massa che non incontrano significative resistenze collettive e organizzate. La credenza nella legalità si è indebolita, lo Stato di diritto esiste solo sulla carta. Nel Mezzogiorno la legittimazione delle centrali criminali viene da basso, nel Nord Italia i processi dell’illecito partono dall’alto. Per superare il dominio mafioso bisogna operare sulle radici sociali e una lotta nonviolenta dev’essere riconoscibile, poggiare su un lavoro prolungato di radicamento sociale, risvegliare identità soggettive e collettive forti, produrre un cambiamento radicale di mentalità, con un atteggiamento nuovo nei confronti dell’avversario, di fronte a ogni forma di aggressione e di ingiustizia, con un’intensa educazione spirituale e pratica. Nel Sud i movimenti per la pace, ecologisti, il volontariato assumono forme contraddittorie dando vita a sporadiche mobilitazioni di massa. Occorre costruire dei gruppi aperti, capaci di dialogare con i bisogni concreti e con i valori culturali del territorio, elaborare un programma costruttivo che faccia del popolo meridionale un soggetto capace di autogestire il proprio destino e miri a un mutamento radicale del modello di sviluppo e di strutture sociali che produce ingiustizie, emarginazione e mafie. Agire dall’interno, cambiando mentalità e comportamenti, e nell’esterno, mutando il quadro sociale.
Come si vede siamo di fronte a un modello analitico-progettuale che riprende nelle linee fondamentali quello dolciano, con una maggiore preoccupazione di rigore analitico che porta a identificare le mafie come forme specifiche della modernizzazione capitalistica e coniuga conoscenza e pratica di cambiamento.
Da questo modello sembra discostarsi Tonino Drago, nella sua relazione all’incontro del 22 novembre 2004 a Palermo, quando ritiene la mafia una risposta sbagliata a un modello di sviluppo sbagliato, non tenendo conto che la mafia fa parte integrante del modello di sviluppo, in quanto componente del blocco dominante. Drago recepisce una visione della criminalità organizzata, soprattutto nella forma camorristica, come ribellismo violento e antisistema delle classi subalterne, aspetto che sarà pur presente ma che dev’essere contestualizzato in un’analisi più complessa dei fenomeni di criminalità mafiosa, più propensi all’integrazione nel modello di sviluppo capitalistico che alla sua contestazione.


Problemi. Mafia: ipotesi definitorie.

Come abbiamo visto c’è un percorso d’analisi che parte dal gruppo clientelare-mafioso di Dolci e arriva al sistema sociale mafioso, attraverso le riflessioni del gruppo meridionale sulle criminalità mafiose come forma del modello di sviluppo capitalistico, con aspetti specifici legati alla realtà meridionale ma sempre più collegate a processi economico-sociali (finanziarizzazione, illegalità diffuse) in atto a livello nazionale e sovranazionale.
Il rischio è di operare una criminalizzazione generalizzata che chiude qualsiasi possibilità di cambiamento o lo connette con ipotesi (l’idea luce) di palingenesi etico-sociale, alquanto improbabili. Nella mia analisi i gruppi criminali agiscono all’interno di un sistema relazionale e la “borghesia mafiosa”, frutto dell’interazione tra soggetti illegali e legali legati da cointeressenze e codici culturali, assume funzione dominante nel contesto sociale20.  Nei processi di globalizzazione in atto individuo un contesto criminogeno (quindi non totalmente criminale) per due aspetti: aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, con l’emarginazione di grandi aree del pianeta che hanno come unica risorsa il ricorso al crimine, e finanziarizzazione dell’economia, con sempre maggiori possibilità di fusione tra capitali illeciti e leciti21.  Questa analisi rifugge da criminalizzazioni generalizzate, del tipo capitalismo uguale mafie, sul piano storico e su quello dell’attualità. Il capitalismo ha generato mafie quando sono state compresenti alcune condizioni, come le difficoltà all’inserimento e i proibizionismi. Nella stessa società siciliana e meridionale, il dominio-egemonia mafiosi pur presentando tendenze di tipo totalizzante non è tale da oscurare l’intero quadro. Quando parlo di società mafiogena, cioè di un contesto sociale che presenta alcune caratteristiche che producono e perpetuano il fenomeno mafioso22,non intendo dire che tutto è, e non può che essere, mafia.
Parlerei quindi, più che di sistema sociale mafioso tout court, di sistema sociale a dominio mafioso.
Per ciò che riguarda l’assunzione delle riflessioni di psicologi sociale e psicanalisti sarei molto cauto con tesi come lo “psichismo mafioso” 23 che rischiano di riportare il fenomeno mafioso a una sorta di inconscio collettivo peculiare dei siciliani, riproponendo uno schema antropologico di tipo razziale, ignorando un percorso storico segnato da grandi lotte di massa che si sono scontrate con il dominio mafioso, la cui sconfitta va ricercata nel rapporto tra mafia e istituzioni, solidali nel fronteggiare progetti di cambiamento che mettevano in forse assetti consolidati di potere.
La scelta di puntare sul sottosistema culturale, per la sua capacità di riproduzione del dominio mafioso ma pure per le capacità trasformative che esso offrirebbe rischia di far riemergere l’ipotesi culturalista. Nel mio “paradigma della complessità” l’aspetto culturale è costitutivo del fenomeno mafioso ma in interazione con gli altri aspetti. Possiamo fare questa scelta, per una sorta di divisione del lavoro, ma sapendo che gli altri aspetti vanno tenuti ben presenti.


Istituzioni e società civile
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Nel documento del gruppo meridionale, si dà per scontata la completa mafiosizzazione delle istituzioni e la loro irrecuperabilità a un’azione seria ed efficace contro le mafie. Si ignorano le contraddizioni che ci sono anche all’interno del quadro istituzionale e, nonostante l’analisi sul coinvolgimento degli strati popolare nel sistema mafioso, si punta tutto sulla società civile e sul popolo meridionale. Si potrebbe cogliere in queste analisi un riflesso dell’antipolitica, luogo comune particolarmente diffuso da parecchi anni, dopo la crisi della forma partito? Il riferimento al popolo è un po’ troppo generico e risente di un certo pasolinismo più o meno di maniera, ormai tramontato da un pezzo, assieme alla presunta “innocenza” degli emarginati dei borghi romani.


Violenza legittima e nonviolenza
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Sanfilippo dà per scontata la sconfitta e l’inefficacia della violenza legittima mentre dà un giudizio ampiamente positivo dei successi della nonviolenza. C’è da dire che l’attività repressiva da parte delle istituzioni nei confronti della mafia ha sempre avuto il carattere dell’emergenza e della risposta ai fatti di sangue più eclatanti (si vedano anche le osservazioni di Giovanni Abbagnato). Ciò rimanda certamente alla natura sistemica del fenomeno mafioso, alla forza e persistenza dei rapporti tra mafia e istituzioni, ma non si può ignorare l’imprescindibilità del momento repressivo che, con tutti i limiti che vogliamo (parzialità, precarietà, emergenzialità), anche in una realtà come quella del nostro Paese ha inferto colpi significativi almeno all’ala militare della mafia, andando incontro a sostanziali insuccessi per quanto riguarda i rapporti con la politica. Non si può neppure ignorare la centralità del momento giudiziario nell’assalto al patrimonio mafioso, premessa indispensabile per l’uso sociale dei beni confiscati.
I limiti dell’azione repressivo-giudiziaria rimandano all’assoluta necessità di dare la dovuta attenzione al quadro politico, in particolare alla fase che stiamo attraversando in Italia.
Quanto ai successi dell’azione nonviolenta sarei più cauto: che fine hanno fatto le esperienze di Gandhi e di Luther King? Non mi pare che oggi resti molto di loro, al di là di un mito che tende a disinnescare la loro carica eversiva e a farne pretesto per spot pubblicitari più o meno ben confezionati e suggestivi. La loro attività rimane comunque un punto di riferimento essenziale, ma purtroppo non ha dato luogo a risultati duraturi e irreversibili.

Antimafia e nonviolenza. Il movimento contadino era nonviolento? Può parlarsi di nonviolenza generica, ma ci sono casi di scontri non proprio nonviolenti e anche di omicidi. Anche per il movimento antimafia attuale può parlarsi solo di nonviolenza generica e di appiattimento sul tema della legalità, che spesso significa solidarietà-tifo per i magistrati e per gli uomini delle forze dell’ordine più impegnati, con scarso interesse per visioni critiche o alternative (potrei ricordare la scarsa attenzione per scritti controcorrente, come i miei Oltre la legalità e Storia del movimento antimafia, all’interno di Libera). Condivido la proposta di sostituire a una visione fondata sulla legalità, troppo spesso formale e astratta, un’altra visione fondata sulla responsabilità, che implica critica dell’esistente, anche della legislazione vigente.


Siamo tutti uomini
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Fondamento della visione nonviolenta è la tesi dell’unitarietà del genere umano, della natura comune degli attori del conflitto, anche se dall’altra parte c’è chi fa uso sistematico della violenza. Ovviamente anche Hitler e Totò Riina sono uomini, come lo sono Anna Frank e Giuseppe Di Matteo, ma la loro violenza non può essere considerata un fatto transeunte e tutto sommato secondario rispetto al comune destino dell’umanità che rimanda a una visione fideistica (fede in Dio o nell’uomo) che rischia di essere rinunciataria o consolante. Anche i laici “credono”, nel senso che trovare un fondamento totalmente razionale a certe scelte non è possibile, ma si tratta di valori storici che si sono fatti faticosamente strada proprio in contrasto con visioni fideistiche, più portate all’esclusione e all’intolleranza: si pensi all’intolleranza congenita nei monoteismi. La forza di questi valori, anche di fronte alle riflessioni sul pensiero debole, sta proprio nel fatto di essere il frutto di conquiste storiche, costosissime, e di fondare la loro capacità di durata e di resistenza sui costi pagati per la loro affermazione, continuamente messa in forse dai processi storici. Se oggi difendiamo democrazia, Costituzione, legalità internazionale non è in nome di Dio o dell’Uomo con la U maiuscola, ma in nome di una storia che rischia di essere calpestata se non cancellata da processi in atto di privatizzazione del potere, legalizzazione dell’impunità e dell’illegalità, legalizzazione della guerra e della violenza.
Al fondo della visione nonviolenta mi pare che ci sia un’idea della sostanziale, ontologica, bontà del genere umano, della natura e della divinità, che è più a misura del desiderio che della realtà. La storia umana è fatta di creatività, conoscenza, conquiste, annovera Dante e Einstein, Bach e Michelangelo, Gandhi e i movimenti di liberazione, ma è fatta pure di guerre e massacri, violenze e ingiustizie che non accennano a cessare. La natura coniuga splendori e catastrofi, nella più completa indifferenza per il destino degli esseri viventi e gli effetti dei disastri naturali si moltiplicano a causa della irresponsabile stupidità umana (si pensi al recente maremoto asiatico). Per quanto riguarda la nostra idea di divinità, limitandoci alla visione cristiana, Dio Padre crea un mondo in cui il ciclo vitale degli esseri viventi è legato alla gastronomia della morte; caccia dal paradiso terrestre i progenitori dell’umanità, rei di avere disobbedito a una proibizione alimentare e trasmettitori di una colpa che in contraddizione con un fondamentale principio etico, la responsabilità individuale, si tramanda di padre in figlio; per redimere l’umanità fa scendere sulla Terra, un pianetino che rappresenta un punto infinitesimo in un universo infinito, e morire in croce il Figlio, in continuità con le liturgie fondate sui sacrifici umani; minaccia condanne eterne per chi muore in peccato mortale, anche compiendo insignificanti trasgressioni: tutto ciò in contraddizione con i più elementari principi di giustizia retributiva. L’atto sacramentale più significativo di comunione con la divinità rinnova, simbolicamente, il banchetto cannibalico: l’ostia e il vino consacrati sarebbero realmente il corpo e il sangue di Cristo.
Tutto ciò rimanda alla necessità di una riconsiderazione delle nostre idee fondanti, su noi stessi, sull’universo, su Dio, figlie di mitologie fatte a immagine e somiglianza di un’umanità primitiva.
In sintesi: sono per una nonviolenza laica e per una pratica nonviolenta possibile.
A mio avviso, invece di un generico richiamo alla comune natura umana, bisognerebbe elaborare e sperimentare una strategia differenziata, soprattutto su un tema come la mafia, cioè una forma di dominio fondato sulla violenza e sulla sopraffazione.
Qualche esempio: rapporto con i mafiosi. Bisogna che ci siano segnali di “pentimento”, come la collaborazione con la giustizia o altre forme, o si può prescindere da essi? Il mafioso come avversario, non nemico: solo che costitutivo del fenomeno mafioso è, come le stesse riflessioni nonviolente non cessano di sottolineare, il ricorso alla violenza. Non possiamo coltivare né buonismi né perdonismi. Il richiamo al rispetto dell’altro, anche del capomafia, è condivisibile nel senso che diceva Falcone, anche se ho qualche dubbio sull’obbligo di dire la verità da parte dei mafiosi e sulla loro capacità di impartire lezioni di moralità; vanno evitate forme di umiliazione e di afflizione inutili e controproducenti e possono sperimentarsi forme di dialogo del tipo indicate da Cozzo in un suo scritto: dire all’altro il male che fa, comunicare il proprio rifiuto di accettare intimidazioni ecc. Il problema è come sfuggire alla predica a un Innominato che non ha nessuna intenzione di convertirsi, all’invito al ravvedimento sul tipo delle letterine di qualche prete a Riina?


Le ragioni della mafia e dei mafiosi.

Le ragioni sono: la violenza per arricchirsi, per comandare, per avere un ruolo sociale. Le dinamiche di causazione sono state indicate dalla letteratura criminologica: deprivazione relativa (condivisione dei fini e non dei mezzi), convenienza della violenza. Dare la parola ai mafiosi, ascoltarli, per una sorta di par condicio? La parola i mafiosi l’hanno già ed è fatta di sangue e di disonore (tutti i delitti, anche quando si tratta di uccidere un bambino, sono in agguato e mai a viso aperto). Tocca a loro dimostrare che vogliono prendere la parola, deponendo le armi.

Rapporti con i familiari di mafiosi: anche con loro si pongono gli stessi problemi che con i mafiosi. Se non ci sono segnali di disponibilità non vedo come si possa avviare un rapporto.

Rapporti con i familiari di vittime: imparare dai casi Buscemi e Rugnetta, frutto del bigottismo dell’antimafia doc24. Dobbiamo esprimere e costruire solidarietà attive, coinvolgendoli a pieno titolo nel nostro lavoro, come ha fatto l’Associazione donne siciliane contro la mafia con Michela Buscemi.

Rapporti con i “pentiti”. Sui “pentiti” (più realisticamente “mafiosi collaboratori di giustizia”, in base a scelte più opportunistiche che etiche: finora l’unico, o uno dei pochissimi mafiosi che può considerarsi pentito è Leonardo Vitale, rinchiuso per anni in manicomio giudiziario e ucciso nel 1984) c’è da dire che anche nei loro confronti dobbiamo avere una visione laica. E’ verissimo che la legislazione premiale rappresenta un vulnus all’ordinamento giuridico, introducendo diseguaglianze tra i cittadini di fronte alla legge, ma le dichiarazioni dei mafiosi collaboratori sono state e possono essere utilissime per individuare responsabili di delitti gravissimi e ricostruire organigrammi e strategie, ma essi non sono né maestri di vita né professori di storia. C’è pure da sottolineare che non sempre e non necessariamente il procedimento penale deve dipendere dalle loro dichiarazioni, in base a una distorta filosofia giudiziaria. Un esempio: il delitto Impastato poteva benissimo essere indagato con una procedura tradizionale, individuando il movente nell’attività di Peppino e mandanti ed esecutori nelle persone che denunciava quotidianamente e irrideva apertamente. Invece, per processare e condannare i mandanti, Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti, si sono dovute attendere le dichiarazioni di mafiosi collaboratori, giunte peraltro con enorme ritardo.
Con collaboratori di giustizia e familiari delle vittime possiamo sperimentare forme di riconciliazione, con manifestazioni pubbliche che diano il senso di una ricomposizione sociale, non in nome del perdonismo ma soprattutto della rinuncia pubblica a ogni forma di sopruso e di violenza e con azioni riparative concrete. Questo mi pare il terreno più adatto per una strategia nonviolenta.

Rapporti con gli estorti: bisognerebbe promuovere campagne di persuasione con proposte di aggregazione. Lo si è già fatto ma i risultati sono minimi, soprattutto in Sicilia occidentale dove più forte è la sudditanza-complicità di commercianti e imprenditori con la mafia. Il gesto di giovani che hanno affisso manifestini contro il pizzo, richiamando la responsabilità di un “intero popolo”, può essere una provocazione utile, se accompagnato da una strategia di persuasione-organizzazione, che coinvolga l’intero corpo della società civile e condizioni le istituzioni, finora alquanto inaffidabili (il siluramento di Tano Grasso da Commissario antiracket e l’affidamento del compito a un funzionario sono provvedimenti che non possono che aggravare la sfiducia).

Rapporti con i borghesi più o meno collusi (borghesia mafiosa): fare appello all’etica professionale, ma anche qui c’è il rischio della predica inutile; denunciare i rapporti con la politica (sull’esempio della campagna di Dolci su Mattarella), sottolineando la responsabilità politica, rimasta sulla carta dopo la relazione della Commissione antimafia del 1993, senza delegare tutto all’azione giudiziaria che su questo terreno può arrivare fino a un certo punto.

Rapporti con gli strati popolari: avviare un’attività integrata: educazione-autoanalisi, preparazione e organizzazione di lotte e di spazi di aggregazione sul tema dell’occupazione, dei diritti sociali, della libertà di voto ecc. Ripensare le presenze nel territorio: scuole, centri sociali, parrocchie ecc. Le forme tradizionali della lotta politica e sindacale hanno ignorato e continuano a ignorare la centralità del problema della disoccupazione e dell’emarginazione (non c’è un sindacato dei disoccupati), lasciando libero campo alle mafie come fornitrici di reddito con il denaro facile e produttrici di ruoli sociali, con l’affiliazione alle organizzazioni criminali e il coinvolgimento nelle attività illegali e legali. Dovremmo riempire questo vuoto storico, organizzando il territorio con un tessuto diffuso di gruppi e luoghi di aggregazione, progettando il cambiamento. Qui torna in tutta la sua attualità la lezione di Dolci, in un quadro ancora più degradato: dall’egemonia democristiana, fondata sulla mediazione, si è passati al berlusconismo come forma di occupazione e privatizzazione del potere.


Leader carismatici e crescita personale. Il problema dei valori
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Non per caso le esperienze storiche di nonviolenza che hanno avuto seguiti di massa (Gandhi in India, Luther King negli Stati Uniti, Dolci in Sicilia) si fondano sul carisma di un leader più che sulla crescita delle persone che vi partecipano (anche se le pratiche di autoanalisi, le conversazioni di gruppo e i lavori di gruppo operano in questo senso), e sono soggette a rapidi deperimenti se non alla totale sparizione dopo la scomparsa del leader. In questo non sono dissimili dai movimenti di massa laici, borghesi e socialisti, fondati sulla personalità carismatica del leader e dagli attuali fenomeni di personalizzazione della politica, con la crisi delle forme-partito e l’affermazione di modelli antipolitici e leaderistici.
Non per caso, solo dopo la vittoria di Busch negli Stati Uniti, che per rispondere alla paura americana dopo l’11 settembre ha pescato nel melting pot dei disvalori della confederazione (il ribadimento della supremazia americana, con la legittimazione dell’uso della forza, e l’irrinunciabilità dei privilegi dell’american way of life, nel dispregio del diritto internazionale e delle limitazioni alle distruzioni dell’ambiente, il familismo, il puritanesimo dei Padri fondatori), in Italia qualcuno riscopre che anche la sinistra ha dei valori (la pace e la convivenza fra i popoli, la giustizia sociale, la solidarietà), accantonati in omaggio alla competitività e agli altri dettami del pensiero unico neoliberista. A questo timido tentativo di riscoprire un’identità storica, Berlusconi risponde facendo sua la strategia di Bush, proclamandosi Superman del Bene contro il Male (il comunismo che porta miseria, terrore e morte) e defensor dei valori cristiani, assieme a Buttiglione, Fini, Ferrara, Pera e Borghezio, un’armata brancaleone di crociati del terzo millennio, capitanati da un’apocalittica Santa Giovanna dei macelli, al secolo Oriana Fallaci. Sul terreno dei valori come nonviolenti, o amici o “curiosi” della nonviolenza, dovremmo avere un ruolo attivo e positivo, non a rimorchio, differenziandoci nettamente da personaggi che rappresentano la forma più spudorata di leaderismo amorale, venato di bigottismo e filantropia.


Da cosa nasce l’interesse attuale per la nonviolenza?

Cominciamo da noi. Esso nasce dalla consapevolezza che la mafia è fenomeno complesso, che la repressione non basta (ma bisogna chiedersi se e quanta repressione ci sia stata: di sicuro essa è stata di tipo emergenziale), che, pur non condividendo visioni totalizzanti e criminalizzanti in blocco, le interazioni con la politica e le istituzioni sono state forti e attualmente siamo in presenza nel nostro Paese di una forma di criminocrazia formale (Stato-mafia direbbe qualcuno), che bisogna affrontare la mafia in tutta la sua complessità, operando su vari terreni, e che di fronte al dilagare della violenza e dell’illegalità è necessario attrezzare il proprio bagaglio con vari strumenti e che la nonviolenza può essere sperimentata come antidoto efficace al dominio mafioso. Ma chi se la sente di fare scelte radicali, fondate su una dedizione assoluta, alla Danilo Dolci? Ma gioverebbero a costruire resistenze corali, di massa (per utilizzare un linguaggio che appare obsoleto e rischia di riproporre mobilitazioni consistenti, ma pur sempre formate più da manifestanti che da compartecipi), capaci di liberarci da una tirannia? E si può prendere qualcosa dal patrimonio di idee e di esperienze non violente, selezionandolo in base a una scelta “di convenienza”, o bisogna compiere un atto di fede e abbracciare tutto in blocco? Non posso che ribadire la mia convinzione: una nonviolenza laica e una pratica nonviolenta possibile.
Com’è noto la nonviolenza farebbe parte del progetto di rinnovamento della politica di Rifondazione comunista. A cosa stiamo assistendo? Al tentativo di fuoriuscita da esperienze rivoluzionarie fallite e dalla forbice guerra permanente – terrorismo che domina la scena mondiale, alla reazione alle tentazioni di parte del cosiddetto movimento dei movimenti di riproporre pratiche violente, all’allineamento con visioni che rilanciano accattivanti utopie: “cambiare il mondo senza prendere il potere”? Quel che è certo è che il dibattito sulla nonviolenza all’interno di Rifondazione ha fatto registrare eventi significativi (convegni, seminari, i cui atti sono pubblicati in volume25) ma esso è ben lontano dall’aver coinvolto, e soprattutto convinto, il corpo dei militanti, molti dei quali hanno manifestato la loro avversione a tale scelta, considerandola un tradimento dei principi marxisti e una forma di revisionismo funzionale alla scelta politica in atto (appoggio organico al centrosinistra).
Anche sul terreno più propriamente politico, nella lotta contro il neoliberismo e contro guerre e terrorismi, bisognerebbe andare oltre la dimensione dell’analisi e della denuncia (dei massacri delle foibe, per esempio) e sperimentare forme concrete di nonviolenza attiva che facciano vedere che non si tratta solo di rifiuto della violenza (disobbedienza, boicottaggi ecc.) ma di qualcosa che somiglia al sorgere di un’alternativa (il contro dovrebbe essere propedeutico al per). Purtroppo anche il termine che continuiamo a usare (nonviolenza, anche se lo scriviamo tutto attaccato) è connotato solo negativamente e non positivamente. Non litigheremo per il nome come sta avvenendo in quel litigiaio permanente che è il centrosinistra italiano, però il problema c’è e non lo supereremo con una nuova sigla ma con analisi e pratiche efficaci e coerenti, senza inseguire illusioni ma pure mettendoci in gioco, correndo il rischio di rinnovare pensieri e azioni.

Appendice

Le opere di Dolci sono oggi di difficile reperimento. Per avere un’idea più compiuta del suo lavoro trascrivo alcune poesie dalla raccolta Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi. La prima è riportata integralmente, della altre due riporto solo dei brani.

Tre poesie

1
Quasi sta in uno sguardo
dai monti attorno alla pianura, al mare,
tutta la valle che verrà irrigata
dall’acqua della diga.
A osservare dall’alto non si vedono
schiene curve sudate tra le vigne
a migliaia e migliaia, mentre pochi
ruffiani impoltronati nei caffè
guadagnano milioni sorridendo.
A guardare all’alto non si pensa
– respiri aria pulita, dai paesi
vien l’odore di un pane ancora pane;
e il mare non è fogna, senza vento
è ancora mare terso, vi traspaiono
il guizzare dei pesci e le alghe verdi,
e l’odore è di mare -, non si pensa
che se altrove arrivava uno da qui
si vergognava di dire che terra
era la sua: tanto era nominata
per banditi, o mafiosi, o i suoi politici
insigni esperti di parole e intrighi.
A guardare dall’alto quando è sera
verso i lumi nell’angolo del golfo
non si direbbe
che quelle luci nitide nel blu
tanti spari hanno visto, tanto sangue,
diventare ministri i mandatari
degli assassini, innanzi la Giustizia –
gli sbirri ringhiano fin che sei debole,
quando diventi forte si scappellano.
Ma ti basta vedere attentamente
dalle strade dei poveri
barricate da mucchi di immondizie,
nel buio delle case, per capire:
ad uno ad uno deboli, ignorandosi,
incapaci d’intrighi e di far male
e non sapendo come organizzarsi
questa gente per secoli si è persa
raccomandandosi ai pochi boia
scambiati per civili,
baciando i peli ai propri parassiti.

2
Un mafioso è un mafioso.
In quanto per sistema è prepotenza
parassitaria, occorre eliminarlo
mentre l’uomo che è in lui (non è facile
distinguere il mafioso dalla mafia
e l’uomo dal mafioso;
negli altri e in noi, in ogni forma possibile) –
va educato a vivere da uomo.

3
Vi lascio
una vita scoperta intensamente
giorno per giorno:
ho cercato con voi
di guardare oltre l’attimo, vivendolo,
di vedere oltre i giorni, oltre gli anni,
di imparare a collaborare,
di premer con la gente per cambiare
questa terra, ma non contrapponendo
l’azione nonviolenta alla violenza
se rivoluzionarie, praticando
l’impegno nonviolento per il nuovo
come il figlio, sviluppo più perfetto
dell’impegno violento.

 

Note

1 Cfr. V. Sanfilippo, Il contributo della nonviolenza al superamento del sistema mafioso, in “Quaderni Satyagraha”, n. 3, giugno 2003, pp. 195-215. Si veda anche: V. Sanfilippo, La nonviolenza e la mafia, in “Mosaico di pace”, A. XV, n. 3, marzo 2004, pp. 35-37.
2 Ibid., p. 195. Sanfilippo propone due definizioni del termine nonviolenza : “modo di risolvere i conflitti, guidato da una fede in Dio e/o nell’uomo, attraverso il richiamo costante della coscienza propria e dell’avversario”. (…) Percorso verso la Verità, che parte dal presupposto che gli uomini siano uniti da legami profondi (…), e che pertanto considera i conflitti come disarmonie transitorie che l’uomo ha il dovere etico di superare”.
3 Cfr. F. Armao, Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
4 V. Sanfilippo, op. cit., p. 203.
5 U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995, p. 129.
6 V. Sanfilippo, op. cit., p. 211.
7 Il testo del documento dal titolo Percorsi nonviolenti per il superamento del sistema mafioso sul sito del Centro Impastato: www.centroimpastato.it. Sul sito si trovano anche il saggio di Sanfilippo e un intervento di Augusto Cavadi. Si veda anche: G. Abbagnato, Mafia: e la nonviolenza?, in “Mosaico di pace”, A. XV, n. 8, settembre 2004, pp. 28-29.
8 Cfr. A. Cozzo, S. Rampulla, Per una relazione al convegno di primavera, dattiloscritto.
9 Cfr. A. Cozzo, Elementi per un approccio nonviolento al superamento del sistema mafioso, dattiloscritto. Il libro dello stesso autore è Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, Mimesis, Milano 2004.
10 Cfr. V. Sanfilippo, La nonviolenza alle prese con la mafia, dattiloscritto.
11 Della vasta produzione di Dolci segnaliamo: Banditi a Partinico, Laterza, Bari 1955; Inchiesta a Palermo, Einaudi, Torino 1957; Spreco, Einaudi, Torino 1960; Conversazioni, Einaudi, Torino 1962; Racconti siciliani, Einaudi, Torino 1963; Verso un mondo nuovo, Einaudi, Torino 1965; Chi gioca solo, Einaudi, Torino 1966; Inventare il futuro, Laterza, Bari 1968; Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi, Laterza, Bari 1970; Non sentite l’odore del fumo?, Laterza, Bari 1971; Chissà se i pesci piangono, Einaudi, Torino 1973; Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; Il Dio delle zecche, Mondadori, Milano 1976; Creatura di creature. Poesie 1949-1978, Feltrinelli, Milano 1979.
12 Cfr. U. Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 229.
13 Per informazioni sull’attività dei continuatori dell’attività di Dolci si può consultare il sito www.danilodolci net, del Centro per lo sviluppo creativo “Danilo Dolci”, operante a Partinico.
14 Cfr. G. Pratesi, Come contrastare la mafia?, in “Mosaico di pace”, Anno I, n. 4, dicembre 1990, pp. 8-9; G. Martirani, Voi sparerete le vostre lupare e noi suoneremo le nostre campane, ibidem, pp. 10-11.
15 Cfr. G. Minervini, Mafia, le radici, la struttura, le connivenze, il modello di sviluppo, le possibili risposte, in “Rocca”, n. 6, 15 marzo 1992, pp. 27-37; Idem (a cura di), Mafia e nonviolenza, in “Mosaico di pace”, anno III, n. 12, dicembre 1992, pp. 13-24. Il documento è stato ripubblicato in Osservatorio meridionale, Mafie e nonviolenza. Materiali di lavoro, Edizioni la meridiana, Molfetta 1993.
16 G. Minervini (a cura di), op. cit., p. 14.
17 Ibid., p. 16.
18 Ibid., p. 18.
19 Ibid., p; 21.
20 Cfr. U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995.
21 Cfr. U. Santino, Modello mafioso e globalizzazione, in M.A. Pirrone, S. Vaccaro (a cura di), I crimini della globalizzazione, Asterios, Trieste 2002, pp. 81-110.
22 Cfr. U. Santino, Oltre la legalità. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo 2002, pp. 53 ss.
23 Cfr. I. Fiore, Le radici inconsce dello psichismo mafioso, F. Angeli, Milano 1997.
24 Sulla vicenda di Michela Buscami e Vita Rugnetta, le uniche donne del popolo palermitano che si sono costituite parti civili nel maxiprocesso di Palermo e sono state isolate da tutte le associazioni antimafia, ad eccezione del Centro Impastato e dell’associazione Donne siciliane contro la mafia, perché considerate familiari di vittime in qualche modo legate alla mafia, cfr. A. Puglisi, Sole contro la mafia, La Luna, Palermo 1990.
25 Cfr. AA.VV., La politica della non-violenza. Per una nuova identità della sinistra alternativa, Liberazione, Roma 2004; AA.VV., Agire la nonviolenza. Prospettive di liberazione nella globalizzazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2004.